
Di Aldo A. Mola
Può sembrare paradossale e persino provocatorio rievocare l’“Italia al Lavoro” proprio mentre sono quasi tutti in vacanza, a parte chi lavora per renderla più gradevole a chi ne beneficia (e a parte chi, benché vecchio, scrive). Però va ricordato che le “ferie” sono tali proprio perché costituiscono meritata pausa non tra due parentesi di vita oziosa ma tra diuturne fatiche. Così nacquero le “Feriae” di Augusto, poi volte in “Ferragosto”, giorno natale di Napoleone I, l’Imperatore che associò la festa in onore suo con quella dell’Assunzione di Maria Santissima in Cielo.
La Conciliazione è antica come il mondo, di quello che vuol durare nel segno della continuità consapevole e va orgoglioso del passato prossimo e remoto, senza cesure né censure e senza la pretesa di “far nuove tutte le cose”: un annuncio, codesto, tipico del Mostro dell’Apocalisse. Non ne sentiamo alcun bisogno.
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Piccolo mondo antico
L’Italia del lavoro è sotto gli occhi di chi in questi giorni ne visiti un qualsivoglia lembo. Per capirlo basta fermare l’occhio su un gradino di una qualunque erta di borgo montano o marino, su qualunque pietra portata lì a fatica nei secoli, sui coppi cotti nel tempo o sulle lose levigate chissà quando e chissà come, sulla fantasmagoria di colori e di profumi che esalano dalla vegetazione curata nei secoli in parchi e giardini od occhieggiante da balconi e soglie. Molti comuni ancora bandiscono gare per premiare balconi fioriti. Altri se ne sono scordati. Brutto segno di tempi nei quali la retorica sulla tutela dell’ambiente avvolge il degrado galoppante e spiana la strada ad animali selvatici ormai fuori controllo. Per recuperare memoria del buon tempo andato, chi non l’abbia mai fatto legga “La strada di San Giovanni” di Italo Calvino, lo scrittore che andava in cerca di simboli liberomuratòri millenari per saldare l’Italia odierna a millenni di civilizzazione, completa della romanizzazione imposta dal Senatus Populusque Romanus a popoli riluttanti. Ne seppero qualche cosa i Salassi.
Lavoro, dunque. Lavoro degli Italici. Quello di chi gettò le strade consolari da Roma alle sempre più lontane province dell’Impero. Di chi le ripulì dopo secoli di abbandono e ne fece la base per rimettere insieme l’Europa allargata da Carlomagno, il sacro romano imperatore che, prima e dopo la benedizione dei papi, non esitò a sterminare avari e sassoni. Così avanzava la Storia. Bastava un nonnulla – come accadde con le guerre fratricide tra i suoi discendenti – per riportare all’indietro le lancette della civilizzazione, mentre, invasa e assediata dall’islamizzazione, la poca Europa cristiana rimaneva scissa tra le chiese di Occidente e di Oriente. Lo sono ancora oggi, benché persino più piccole di quanto fossero allora.
Scritta da Carlo Cipolla, la “storia della fatica” è un libro da aggiornare anno dopo anno perché non è mai finita. Come purtroppo è miope la narrazione dell’età presente, tutta ripiegata su un “oggi” atemporale, afasico, vuoto.
Elogio del Lavoro
Un richiamo alla percezione del tempo è offerto dal robusto volume “Famiglia e impresa. Storie di Cavalieri del Lavoro” (ed. Marsilio), per dimensioni e peso scomodo da portare sotto l’ombrellone o nello zaino su per le valli, ma da tenere alla vista appena si rimetta piede nella realtà di un Paese che senza la “catena di unione” tra generazioni è condannato a cadere in pezzi, vaso di coccio non solo tra le Grandi Potenze ma anche nella ridda di quel che resta degli Stati nazionali annaspanti in un’Unione Europea invertebrata e irrilevante sotto il profilo politico militare e presto anche economico-finanziario.
A ottant’anni dal Manifesto di Ventotene redatto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni (il terzo viene solitamente e ingiustamente obliato), l’Europa continua a essere una speranza, un progetto, un sogno baluginante sull’orizzonte. Un mosaico di sigle, di convenzioni, di accordi e reciproci divieti.
Perciò, senza indulgere al cosiddetto “sovranismo” giova ripercorrere qualche pagina di un’Italia che nacque ed è europea più di quanto non si comprenda. Da Antonio e Luigi Abete a Riccardo, Augusto e Gianfranco Zoppas il volume “Famiglie e Impresa” passa in rassegna un repertorio selezionato di componenti della Federazione nazionale cavalieri del lavoro: Angelini, Antinori, Auricchio, Averna, Barilla, Benetton, Caltagirone, Carli, Del Vecchio, Ferragamo, Ferruzzi, Frescobaldi, Guzzini, Illy, Molteni, Piaggio, Riello, Spagnoli, Vallarino, Gancia, Zegna... Qui non possiamo ricordarli tutti. Sfogliando il libro, ricco di fotografie, schede storiche curate da Brigida Mascini, e interviste di Cristian Fuschetto e con ampia introduzione di Cecilia Dau Novelli, il lettore li troverà da sé. Avrà dinanzi uno spicchio dell’immenso “mondo del Lavoro” e di chi gli ha dato il dovuto riconoscimento: agli strateghi e ai militi.
Vittorio Emanuele III al timone della Terza Italia
Chi lo volle? A Cesare quel che è di Cesare. Contrariamente a quanto molti reputano e viene ripetuto, ad affermare che l’Italia è uno Stato fondato sul lavoro non fu l’Assemblea costituente che ne scrisse nell’articolo primo della costituzione vigente dal 1° gennaio 1948.
A dirlo a tutto tondo fu Vittorio Emanuele III (1869-1947). Asceso trentunenne al trono perché l’anarchico Gaetano Bresci uccise suo padre Umberto I, mentre ancora durava il lutto il 9 maggio 1901 istituì l’Ordine cavalleresco “Al merito agrario, industriale e commerciale”. L’idea era stata del “Re Buono”, che il 1° maggio 1898, nel cinquantenario della proclamazione dello Statuto albertino, decretò la decorazione “del merito agrario ed industriale” per gli imprenditori e una “medaglia d’onore” per i loro dipendenti. Per Umberto I, oggi quasi completamente dimenticato, gli uni e gli altri erano tutt’uno. Ma quell’anno, mentre a Torino veniva inaugurata l’Esposizione nazionale completa di mostra di Arte Sacra in nome della pacificazione delle coscienze, l’Italia venne messa a soqquadro dall’insurrezione di Milano, da moti in Lunigiana e da altre insidie, culminate appunto col regicidio, che non fu opera di una sola persona ma frutto di un complotto internazionale. Nei suoi ultimi anni di regno, a fine Ottocento, il governo presieduto dal generale Luigi Pelloux varò la previdenza per gli operai vittime di incidenti sul lavoro, le pensioni, la tutela degli emigranti, leggi per la difesa delle acque e il rimboschimento: tutte norme e progetti ripresi e migliorati nei decenni seguenti. Il giovane re volle il Lavoro in prima linea per dare ala alla libertà, a maggiore giustizia sociale in un’Italia avviata al progresso civile anche nel diritto di famiglia, incluso il divorzio, combattuto a testa bassa dai clericali e a suo tempo propugnato da Giuseppe Garibaldi.
L’Ordine cavalleresco “al merito del lavoro” venne istituito d’intesa con il presidente del Consiglio dei ministri, il democratico bresciano Giuseppe Zanardelli, iniziato massone quarant’anni prima nella Loggia “Dante Alighieri” di Torino e dal 1889 membro della “Propaganda massonica” presieduta da Adriano Lemmi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia: uno tra i maggiori protagonisti della storia nazionale, curiosamente ancora in attesa di una biografia.
Con Zanardelli e col ministro dell’Interno Giovanni Giolitti il re guardava avanti: intravvedeva sull’orizzonte l’Italia narrata da Thomas Okay e intravveduta da Luigi Einaudi in “Il principe mercante”: un Paese operoso, nemico della retorica, capace di ideali. Il 6 marzo 1902 vennero creati i primi sei Cavalieri del Lavoro: Vincenzo Boero, Emmidio Mele, Pietro Milesi, Anselmo Oldrini, Giuseppe Savattiere e Antonio Tosi. I loro nomi oggigiorno dicono poco ma erano cari al sovrano che amava mettersi al volante e andare in auto per le campagne a fare improvvisate in aziende di cui aveva notizia, per vederne i macchinari, conoscerne fondatori e “quadri” e scrutare i volti dei “dipendenti”. Il decreto istitutivo previde che l’onorificenza fosse conferita anche agli “operai”. Nel primo anno i decorati furono 104.
Le Stelle d’Italia
Vent’anni dopo, nel 1923, l’onorificenza fu riordinata in “Ordine al merito del Lavoro”, riservato agli “imprenditori”. Ma gli “addetti” non furono affatto dimenticati. Venne istituita la decorazione “Stella al merito del Lavoro” per onorare quanti “con la loro capacità, la fatica e l’ingegno avessero concorso a migliorare e a far progredire la società” rimanendo a lungo alle dipendenze di una medesima azienda o comunque al lavoro. Alle spalle vi era la rivendicazione delle maestranze di compartecipare non solo agli utili d’impresa ma anche alla loro conduzione, nel rispetto delle competenze e dei ruoli.
L’Italia era cambiata e stava cambiando. Il re teneva la barra. Il 18 gennaio 1914, dopo la dichiarazione di sovranità sulla Libia, Vittorio Emanuele III istituì l’Ordine Coloniale della Stella d’Italia, una distinzione particolare che si aggiunse alle onorificenze esistenti, a cominciare dall’Ordine della Corona d’Italia, ripartita nelle cinque classi di cavaliere, ufficiale, commendatore, grand’ufficiale, cavaliere di gran croce.
Nel 1952 e nel 1986 l’Ordine dei Cavalieri al merito del Lavoro venne riordinato. La sua decorazione non reca più la sigla VE (=Vittorio Emanuele) ma ricalca l’antico: croce greca smaltata di verde (il colore di un antico Ordine iniziatico) e bordata d’oro, caricata di uno scudetto tondo con l’emblema della Repubblica e la legenda “Al merito del Lavoro”.
Tra il maggio 1901 e quello del 2022 i Cavalieri del Lavoro sommarono a 2.946.
Molti di essi ebbero in comune l’appartenenza al Senato del Regno, come documenta il confronto incrociato tra la massima onorificenza del Lavoro e il laticlavio conferito dopo il 1901 a rappresentanti della società italiana per la ventunesima categoria, cioè “le persone che da tre anni pagano tremila lire di imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria”. Dall’istituzione della Camera Alta i senatori nominati per quella categoria furono 554: un quarto sul totale di 2004 patres creati dall’aprile 1848 al febbraio 1943. Anch’essi, come i Cavalieri del Lavoro, furono la “vetrina” dell’Italia operosa e, al tempo stesso, un silenzioso fattivo “partito del re”, una sorta di riserva aurea dello Stato. Non per caso negli anni della tempesta, tra il 1944 e il 1947, divennero bersaglio di chi mirava a sminuire le Istituzioni monarchiche, senza comprendere che a quel modo si recidevano le radici stesse dello Stato d’Italia.
Passare in rassegna almeno un “campionario” dei Cavalieri del Lavoro, auspicando che analoga attenzione venga dedicata alle “Stelle del lavoro” e senza ignorare gli Alfieri del Lavoro, significa ricordare l’identità tra l’Italia e il suo “stellone”, quello che dalla sua origine fregia l’Esercito Italiano e invita a riflettere sulla continuità della storia. Ne è sintesi il presidente della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro firmatario della prefazione del volume “Famiglia e Impresa”: Maurizio Sella, che perpetua l’indimenticabile Quintino Sella. Ancora e sempre più v’è bisogno del magistero del ministro “della lesina”, mentre l’Italia sprofonda nella voragine di un debito pubblico incontrollato. Trascorse le legittime “ferie” è tempo di chiudere l’età degli sperperi e delle promesse senza costrutto. Impariamo a memoria il comma 4 dell’art. 81 della Costituzione: “Ogni legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Chiaro?
Aldo A. Mola
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Articolo pubblicato il 14/08/2022