La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Il vetriolo applicato al matrimonio

Vetriolo è il nome popolare dell’acido solforico fumante, in passato celebre come mezzo di sfregio per vendetta delle donne tradite, indicate col termine di vetrioleggiatrici mentre il vetrioleggiare designa la loro vendetta. In passato ci siamo già aggirati in questa particolare realtà torinese del fenomeno criminale delle vetrioleggiatrici che è stato studiato dalla ricercatrice francese Karine Salomé.

Vediamone ora una particolare declinazione piccolo borghese che riguarda il Borgo Dora, come ci viene presentata dalla Gazzetta Piemontese di sabato 21 luglio 1888, sotto il titolo Il vetriolo, dramma in tre atti.

 

Atto 1°: Beltramo Teresa, d’anni 30, da Riva di Chieri, vive separata dal marito Baldo Giovanni, panattiere in via Borgo Dora. Pesatrice nel negozio è certa Oggenda Teresa, d’anni 22, la quale suscita la più fiera gelosia nella Beltramo.

Atto 2°: La Beltramo l’altra sera [19 luglio 1888, N.d.R.], verso le 9½ si reca davanti alla bottega del marito armata d’una boccetta contenente dell’acido corrosivo (se non è vetriolo, è di questo stretto parente), e aspetta con la pazienza dalla tigre la sua rivale. Infatti questa esce dalla bottega per ritirare le tende. La Beltramo le scaglia sul viso il liquido e fugge.

Atto 3°: La ferita corre grave pericolo di perdere la vista; essa è all’Ospedale di San Giovanni; la feritrice è tratta in arresto.

Cala la tela.

 

Il quotidiano torinese ritorna su questo episodio mercoledì 7 novembre 1888, nella sua rubrica di cronaca giudiziaria REATI E PENE, in occasione del processo alla Teresa Beltramo che si è svolto al Tribunale correzionale di Torino, col titolo Il vetriolo applicato al matrimonio.

Mentre il cronista di nera a luglio ha fornito i dati essenziali del caso sotto forma di rappresentazione teatrale, l’anonimo cronista giudiziario preferisce lanciarsi in considerazioni sulla psicologia dei protagonisti della vicenda:

 

Il sig. G. B. [Giovanni Baldo, N.d.R.] era marito da dodici anni di Beltramo Teresa, una bella donnina sui trent’anni che non sapeva abituarsi alle infedeltà da lui. Egli, naturalmente, alla sua volta non poteva abituarsi a mangiare tutti i giorni la stessa minestra e a camminare sempre sul binario del matrimonio.

Non avevano figli, e ciò, com’è naturale, contribuiva a rendere più pesante quella noia, non alleviata dal divago dei figli.

È inutile romantizzare sugli affetti umani. Chi nei casi di qual marito è innocente, lanci la prima pietra.

Soffocato dalla noia che cresceva col crescere delle gelosie e delle insistenze di lei, provocò con accuse infondate ed ingiuste una separazione, che ebbe luogo… all’amichevole.

Riguadagnata la libertà, egli non seppe goderne a lungo, e, a detta delle male lingue, si lasciò cingere di nuovo catene da certa Oggenda Teresa, una donnina sui 24 anni, più brutta della moglie, cosa questa comunissima nelle storie delle infedeltà coniugali.

La Oggenda, fra le altre mansioni, aveva anche quella di pesatrice nel negozio di panatteria da lui esercito, posizione questa abbastanza equilibrata che sarebbe valsa benissimo con un altro uomo più prudente a salvare le apparenze agli occhi del pubblico.

Ma con lui la cosa andò diversamente; nella gioia della libertà acquistata e nel piacere della nuova luna di miele, se ne andava in giro a far baracca nelle feste con la sua pesatrice.

La povera moglie, che col marito aveva perduto l’antica agiatezza, stretta dal bisogno, si era dovuta allogare quasi come serva presso una sua amica, mentre un’altra donna godeva i frutti del lavoro di lei.

Ciò le fece smarrire la ragione, e decise di farla finita e di vendicarsi di quella donna che lei riteneva causa precipua delle sue disgrazie.

Nella sera del 19 dello scorso luglio, procuratasi una boccetta di vetriolo, andò ad appostarsi presso il negozio del marito, in attesa che la Oggenda uscisse.

Costei, infatti, quando fu l’ora di chiudere bottega, venne fuori per tirar in là la tenda, e la Beltramo, svelta come un gatto, le venne alle spalle, e prima che l’altra avesse tempo di girarsi neanche, le spruzzò in tre volte rabbiosamente tutta la bottiglia del vetriolo sulla guancia sinistra e sul collo, producendole delle terribili scottature.

La ferita venne condotta all’Ospedale, dove stette per trenta giorni, e ne uscì ancora deturpata alla guancia sinistra e con una debilitazione permanente all’occhio per appannamento corneo.

La Beltramo venne arrestata.

Istruitosi procedimento, la Sezione d’accusa, tenuto conto delle condizioni d’animo di lei quando commise il gesto, le concesse la semi-forza irresistibile e rese il processo di competenza del Tribunale.

All’udienza, che fu tenuta a porte chiuse, perché certe storie d’infedeltà coniugali non possono rendersi di ragion pubblica, la Beltramo fu condannata a soli tre mesi di carcere, compreso il sofferto.

Essa era in carcere da quattro mesi, e perciò fu subito rimessa in libertà.

Le comari che attendevano di fuori la accolsero fra gli applausi.

In gamba signori mariti, perché i drammi del vetriolo sono contagiosi come i suicidii. [...]

 

Con questo avvertimento ai mariti si concludono le considerazioni del cronista, in sintonia con l’ottica maschilista del tempo che considera la mente femminile come più esposta, rispetto a quella maschile, alle suggestioni e alle influenze del mondo esterno: i suicidi per ragioni amorose e l’uso del vetriolo rischiano così di diffondersi per imitazione.

Avremo ancora modo di parlarne.

Note

Karine Salomé, Vitriol et châtiment, L’Histoire, 21-3-2013.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 25/09/2022