14 agosto 1490: un editto per frenare l'immoralità che pervade la città di Roma

Un tentativo ipocrita di contrastare la prostituzione, alimentata anche dai tutori della morale

Da sempre si discute su come la morale, l’etica e le religioni dovrebbero indirizzare e guidare il comportamento dei soggetti appartenenti alle comunità che, per tradizione o per convinzione, si riconoscono in questi valori.

La storia e la cronaca quotidiana ci confermano che la riuscita di questa scommessa comportamentale risiede nel grado di “coerenza” che i singoli soggetti riescono a testimoniare con sincera convinzione. 

Nella fattispecie è curioso prendere in considerazione il condizionamento repressivo della sessualità nei secoli, dove la cultura dominante ha sempre intravisto un potenziale pericolo di degrado individuale, di precipizio morale o di richiamo demoniaco, se questa non fosse stata vissuta secondo determinate regole e finalità consone all’ordine morale-religioso ufficiale.

Conseguentemente altre finalità e comportamenti non erano ammessi in quanto devianti e incompatibili all’ordine etico-morale costituito.

Questo contesto opprimente, che sfidava l’ordine naturale delle relazioni intime ed emotive umane, puntava su di una scommessa che nella realtà era già persa in partenza.

La repressione o il condizionamento della sessualità, dal punto di vista scientifico, è una pericolosa alterazione del meccanismo neuro-biologico dell’organismo, che è stato adottato dall’evoluzione da quando esiste la “vita animale” sulla Terra.

La potenza di questo impulso trova la sua giustificazione nel fatto che la “vita” stessa si identifica nel momento del concepimento e della riproduzione e la continuità di questo processo viene garantita attraverso le infinite generazioni che si susseguiranno.

Infatti, il concetto di “vita biologica” di ogni essere vivente è quello di trasmettere il “corredo genetico” in modo prioritario al “concepito”, considerando irrilevanti e superflui, se non di ostacolo, gli attori che sono stati i protagonisti di questo evento.  La “vita” pertanto continua nella nuova generazione ed è questo che conta al finalismo deterministico. Il resto si potrebbe comodamente parafrasare con l’aforisma secondo cui “l’acqua passata non macina più”.

Pertanto, davanti alla misteriosa grandiosità di questo “meccanismo biologico” resta ancora aperta la sfida epocale, cioè il tentativo di comprenderne il significato autentico, tenuto conto che in merito circolano troppe interpretazioni inficiate da pregiudizi e da ipotesi fantasiose.

Ricordiamo che questo “meccanismo biologico” esisteva già molto prima che comparissero gli organismi superiori dotati di un “cervello” intelligente, capace di relazionarsi con il mondo esterno.

Se questa è la componente fisiologico-riproduttiva, a questa funzione si associa   la parte complementare psico-emotiva, che fa riferimento al circuito del piacere, come evento di “gratificazione” correlato indissolubilmente al ciclo della sessualità.

Anche in questo caso si tratta di un meccanismo ancestrale finalistico che, per il supplemento di efficienza che esercita, è associato a tutte le altre funzioni vitali dell’organismo.

Semplificando si potrebbe affermare che, per la completezza di ogni funzione biologica fondamentale, il “cervello” degli organismi superiori associa una sensazione di intenso piacere.

Infatti, il piacere è un componente del “sistema di ricompensa” che si identifica in una struttura “anatomico-neuronale del cervello”.

Riassumendo possiamo dire che l’effetto “piacere”, integratore della sessualità, è la “marcia in più”, adottata dall’evoluzione per garantire la continuità della vita. 

Pertanto, pensare che le religioni o le ideologie, condivise da gran parte dell’umanità, possano avere il potere di esercitare una convinzione così forte da indurre l’individuo ad accettare una privazione o limitazione di natura fisiologica, questo obiettivo autolesivo resta, nel contesto comportamentale privato, una aspettativa utopica.

In sintesi, sia le religioni, le ideologie o le credenze, alla prova dei fatti, condizionano superficialmente le comunità umane in quanto queste “ideologie-culture”, troppo spesso, confliggono contro un ordine naturale che non può essere coartato oltre misura, pena l’insorgere di devianze o scappatoie di ripiego.

Soluzioni comportamentali queste che, inevitabilmente, possono venire adottate nell’ambito privato e vissute nel disagio. In ogni caso sempre comportamenti sottoposti al rischio della censura del potere.

Forse, paradossalmente, solo i cosiddetti “fachiri”, potrebbero fare eccezione a questo stato di cose, tenendo presente che questi si configurano come fenomeni umani estremi difficilmente classificabili.

Per evidenziare che non esiste nulla di nuovo sotto il sole e che la “pulsione sessuale” è sempre stata una caratteristica insopprimibile del genere umano (e non solo) è curioso e significativo riportare l’episodio che segue, confermato dalla documentazione storica.

Si tratta di un provvedimento che dimostra che le leggi o le severe punizioni previste non hanno frenato minimamente la continuità delle attività “immorali” che, invece, lo stesso editto aveva la finalità di reprimere.

Al fine di facilitare la comprensione della realtà del periodo temporale in causa, è necessario tenere presente che nella Roma del quattro-cinquecento, conviveva un contesto civile e sociale a due facce: da una parte la città santa con tutte le sue caratteristiche, dall’altra il pulsare del profano, rappresentato dai postriboli e dalla prostituzione.

Infatti, la città, che al tempo registrava una popolazione di 50.000 unità, giunse a contare circa 7.000 meretrici “in attività”, che sommate all’indotto del malaffare (lenoni, manutengoli, ruffiani. approfittatori, ecc.) rappresentavano una consistente percentuale del totale degli abitanti.

La storia, inoltre, ci ha conservato gli indirizzi delle abitazioni (e dei locali) delle “prostitute”, grazie anche ai libri delle tasse parrocchiali. Erano questi i documenti dove le “prostitute e cortigiane” erano registrate per permettere al governo dello Stato Pontificio di imporre e riscuotere il tributo fiscale riservato alla loro professione.

Nel 1490 sul soglio pontificio regnava Innocenzo VIII, al secolo Giovanni Battista Cybo (Genova, 1432 – Roma, 25 luglio 1492), il cui pontificato durò dal 1484 fino alla morte. Nel 1455 venne nominato dal papa Callisto III, senatore di Roma e in seguito si trasferì a Napoli, dove suo padre Arano fu nominato Viceré di questo regno. Ricevette diversi incarichi di prestigio e divenne padre di sette figli di cui due furono legalmente riconosciuti. Le cronache riportano che non sposò la madre che restò ignota. Gli altri cinque figli, diventati anagraficamente suoi nipoti per necessità politico-istituzionali, vissero comunque a corte. Dopo diverse peregrinazioni dovute ad una carriera prodigiosa, abbracciò la carriera clericale. Fu incoronato Papa il 12 settembre 1484. Il suo pontificato fu contrassegnato da gravi eventi politici e da tensioni internazionali in cui emerse la sua indecisione e debolezza, sempre in soggezione dei cardinali Giuliano Della Rovere e Rodrigo Borgia. 

14 Agosto 1490 – Le allegre donnine di Roma

“… Per porre un freno alla dilagante immoralità, a Roma viene emanato un editto che proibisce a laici e chierici, pena la scomunica, di frequentare concubine sia in pubblico sia in privato. Da un censimento effettuato sulle prostitute di Roma e emerso che in città vivono 6.800 donne “pubbliche” costrette, cioè, a portare il nastro giallo di riconoscimento “. Ma è noto che un alto numero di donne di facili costumi sfugge a ogni controllo perché esercita la professione con maggiore cautela o perché gode di particolari protezioni…”.

Conseguentemente il quadro complessivo, sopra descritto, non era certamente edificante, ma confermava, senza ombra di dubbio, il divario incolmabile tra l’intenzione politico-morale dell’editto e la fotografia impietosa della realtà in atto.

In fondo si collaudava con pragmatismo (o cinismo?) il compromesso ipocrita tra l’affermazione della supremazia formale dell’autorità politico-istituzionale e la presa d’atto del fenomeno ineliminabile della prostituzione.

Compromesso ipocrita in quanto, nel contempo, il governo pontificio incamerava introiti rilevanti dalle tasse sulla prostituzione e questi, per restare tali, non prevedevano certamente la riduzione o la eliminazione della prostituzione stessa.

Questa “ipocrisia” molto contagiosa, mascherata sotto diverse forme istituzionali, in quanto sempre correlata alle forti entrate fiscali che poteva generare, è stata condivisa per secoli nei vari Stati italiani preunitari e anche dopo l’Unità d’Italia. L’ONU nel 1950 con la “Convenzione per la soppressione dello sfruttamento della prostituzione” ha preso posizione in merito e dopo un notevole ritardo, “l’ipocrisia” dello Stato italiano, è terminata con la legge Merlin del 20 febbraio 1958.

In ogni caso ci asteniamo dal giudizio sulle conseguenze che la “nuova ipocrisia” di Stato ha creato, dopo la legge Merlin, in merito alla sicurezza e alla qualità di vita nelle grandi città, in seguito al trasferimento della “prostituzione selvaggia” in questi contesti. Nuova realtà questa che è sostanzialmente gestita dalla criminalità organizzata.

Ultima considerazione: la natura umana, nelle sue più diverse manifestazioni, ha, in ogni caso, sue regole materiali e comportamentali difficilmente scalfibili, che sono, il più delle volte, lontane e impermeabili alla “moralità” che il potere dominante, politico o confessionale, pretenderebbe di imporre e di far osservare.

Un solco profondo questo che ha creato una contraddizione insanabile, che forse continuerà a contrassegnare la storia conflittuale della società umana.

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Articolo pubblicato il 19/09/2022