Solitudine dei liberali
Giovanni Giolitti anziano

Ieri, domani (di Aldo A. Mola)

Tocca ai cittadini

Il 25 settembre 2022 a decidere è il voto dei cittadini. Lo è dal 1913, quando si svolsero le prime elezioni con suffragio maschile quasi universale. A volerlo fu, con altri, Giovanni Giolitti, monarchico, liberale e conservatore progressista, fautore di riforme perché solo con riforme vere le Istituzioni durano. Tra il 1919 e il 1924 non fu un destino cinico e baro e men che meno il Re a gettare l’Italia nello scompiglio. Furono i votanti che si fecero abbindolare dai pifferai e i governanti che aggirarono il voto. Perciò, occhi spalancati. L’esercizio del diritto di voto è anche dovere civico. Chi non vota poi non si lamenti delle decisioni altrui.

Pochi ma buoni (non è facile esserlo davvero), i liberali avevano costruito l’Italia, europea sin dalla nascita nel remoto 1861. Disparvero. Oggi vanno cercati dove sono ed eletti al Parlamento. Ce ne sono. La loro sopravvivenza difende il primo diritto dell’uomo: il diritto alla solitudine, quella degli antichi monaci che salvaguardarono la Civiltà oltre la Barbarie. Ognuno il 25 settembre faccia la sua parte.

 

Giolitti: ultimo appello

«La convocazione di una nuova Camera implica certamente il proposito di richiamare il Parlamento all’esercizio delle sue funzioni statutali (sic!) e quindi di sottoporre al medesimo la risoluzione dei problemi più vitali per il paese. Ciò è conforme ai voti più ardenti del partito liberale, che vede nel Parlamento una grande forza nazionale, una garanzia per tutte le classi sociali e il più potente appoggio all’opera del governo.

«Il partito liberale sente altamente il dovere di dare tutta l’opera sua per la ricostruzione del Paese, per portarlo al più alto grado di civiltà, per assicurare all’Italia il posto che le spetta nel mondo. A questi alti fini corrispondono i principi e le tradizioni del partito, ma quest’opera il partito deve compiere col suo nome, colla sua bandiera. Sopprimere in Piemonte perfino il nome del partito di Cavour, di d’Azeglio, di Rattazzi, di Lanza, di Sella e di centinaia di altri patrioti sarebbe rinnegare le più pure nostre glorie, e rinnegarle a beneficio dei due partiti [i socialisti e i cattolici del partito popolare, NdA] che avevano reso impossibile la normale funzione del Parlamento. Conscio di avere un dovere da compiere, il partito liberale affronta la lotta da solo, forte dei suoi ideali, delle sue tradizioni, del suo programma, mantenendo intera la sua indipendenza.»

È la conclusione del discorso pronunciato da Giolitti a Dronero il 16 marzo 1924, in vista delle elezioni del 6 aprile. Lo statista sintetizzò l’opera da lui svolta nei quarantadue anni dall’elezione alla Camera e nei cinque governi presieduti tra il 1892 e il 1921, in specie nel suo ultimo ministero (1920-1921). Mirò al risanamento della finanza pubblica; trattò con la Jugoslavia per assicurare l’indipendenza di Fiume e la sua contiguità territoriale con l’Italia. Denunciò il veto opposto da don Luigi Sturzo a una coalizione di liberali, popolari e socialisti e mise in guardia dal connubio Sturzo-Turati-Treves, basato su ideologie ostili all’Italia nata dal Risorgimento.

Giolitti affermò che nell’impossibilità di costruire una robusta e durevole maggioranza parlamentare, a fine ottobre del 1922 a Vittorio Emanuele III non era rimasto che varare il governo Mussolini: «un ministero costituzionale, nominato dal Re, che prestò giuramento di fedeltà al Re ed allo Statuto, che espose al Parlamento il suo programma, e richiese quei pieni poteri che riteneva necessari per attuarlo, poteri che gli furono conferiti dai partiti liberali e democratici alla quasi unanimità; che infine presentò la nuova legge elettorale al Parlamento, che la approvò.» Ne conviene anche Aldo Cazzullo che, nel recente (e molto discutibile) “Mussolini il capobanda” (Mondadori), ammette: quando conferì al “duce” l’incarico di formare il governo, «il re non era né pazzo, né complice». Da re costituzionale non ebbe altra scelta.

Nel discorso di Dronero Giolitti rivendicò infine di aver concorso alla nuova legge elettorale quale presidente della Commissione camerale che la discusse e la varò coi voti dei partiti costituzionali, compresi i popolari di Alcide De Gasperi. Avrebbe preferito il ritorno ai collegi nominali; ma era meglio che niente.

A differenza di quanto asseriscono Emilio Gentile e altri, con l’insediamento del governo Mussolini (31 ottobre 1922) l’Italia non divenne affatto un “regime totalitario” e neppure una “autocrazia elettiva”, come oggi si dice dell’Ungheria e si potrebbe dire di altri Paesi ove le elezioni si limitano a ratificare senza alternativa le forze al potere. La “legge Acerbo” (così detta dal nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giacomo Acerbo, che ne fu relatore in Parlamento) cancellò il riparto proporzionale dei seggi e assegnò due terzi degli scranni al partito che ottenesse il 25% più uno dei voti: la soglia sfiorata dal Partito socialista italiano nelle elezioni del 15 maggio 1921, quando il PPI ebbe poco più del 20%. La nuova legge, dunque, rimetteva nelle mani degli elettori le sorti del Paese.

Nel discorso del 16 marzo Giolitti sintetizzò i meriti storici dei liberali italiani: avevano cacciato gli stranieri, fondato lo Stato unitario e voluto Roma capitale d’Italia garantendo al papa, “capo della religione del popolo italiano”, libertà, indipendenza e autorità spirituale. Il partito liberale «ha presa come bandiera la dinastia dei Savoia e l’ha seguita fedelmente sui campi di battaglia, ha lavorato con cuore e con assoluto disinteresse a migliorare le condizioni dei lavoratori delle città e della campagna, sia economicamente sia elevandone la dignità e l’istruzione e chiamandoli a partecipare alla vita politica col suffragio universale.» Una scommessa generosa.

Passati in rassegna i progressi civili, il contributo alla pace, basato sull’equilibrio tra le potenze, lo statista additò gli obiettivi fondamentali: ristabilire «l’autorità dello Stato e l’impero della legge» tramite il «consenso che si ottiene con istituzioni, leggi e azioni di governo ispirate a vera giustizia sociale». Per il patrimonio storico accumulato nel secolo dai moti costituzionali alla ricostruzione avviata all’indomani della Grande Guerra, il partito liberale dunque non poteva «sparire, come non ne può sparire il programma di illuminato patriottismo, di dignità nazionale, di ordine, di libertà, di sana democrazia, di progresso, di tutela dei diritti di tutte le classi sociali».

 

Quando liberali e democratici si sfarinarono

Però nella primavera del 1924 il guaio ormai era combinato. Alle elezioni del 6 aprile si presentarono 23 liste con 1306 candidati. Le uniche presenti in tutti i collegi elettorali d’Italia furono solo tre: la Lista nazionale (detta “Listone”) incardinata sul Partito nazionale fascista, il Partito popolare italiano (PPI) e il Partito socialista unitario (PSU), guidato da Turati e dal giovane Giacomo Matteotti. La Lista nazionale, con emblema il fascio littorio, candidò tanti “ex” (popolari, democratici sociali e liberali) recentemente entrati nelle file del PNF o ancora indipendenti. Tra i suoi nomi spiccarono quelli di Vittorio Emanuele Orlando e di Enrico De Nicola.

Il PPI si presentò con scudo crociato e “libertas” nel braccio orizzontale.

Il PSU si riconobbe nel sole nascente con le parole Libertà (in grande) e Socialismo (in piccolo).

Tralasciando le liste delle minoranze etniche e l’opposizione costituzionale capitanata da Giovanni Amendola e presente in quattro collegi con una stella nera a cinque punte per contrassegno, il vero guaio fu la frantumazione dei “liberali” in ben sette diverse liste: una in Sicilia, i liberali indipendenti (Alfonso Rubilli e Gianfranco Tosi) in Emilia e nel Mezzogiorno; una in Sicilia e nel collegio Basilicata-Calabria; altri liberali indipendenti in Campania e Puglia, altri ancora, di identica denominazione, in Sicilia e nel collegio Lazio-Umbria; Camillo Corradini, già sottosegretario giolittiano alla presidenza del Consiglio, e infine i seguaci di Giolitti, che scese in campo in Piemonte, Liguria e in Lazio-Umbria. Una babele.

Anche l’“opposizione costituzionale” si ripartì in quattro liste presenti sotto i contrassegni più bizzarri in una o due regioni. Quella guidata dall’ex presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi, sorretta da democratici autonomi e demosociali dissidenti, non ottenne neppure un seggio. Bonomi lasciò la politica, tornò alla professione forense e rimase “in sonno” sino al 1943-1944, quando assunse la presidenza del Comitato centrale di liberazione nazionale e divenne capo del governo in contrapposizione a Pietro Badoglio.

La “ratio” della legge Acerbo-Giolitti era chiarissima: chi voleva vincere doveva unire le forze. Il Listone del PNF ottenne il 60% dei voti; una lista fascista fiancheggiatrice il 5%. Insieme, fascisti e parafascisti ebbero due terzi dei seggi. Li meritarono “ope legis”. “Democratici” e “liberali” fecero l’opposto. Si sfarinarono. D’altronde un Partito liberale italiano vero e proprio nacque solo nel 1922, alla vigilia della crisi della democrazia parlamentare. Troppo tardi.

Erba medicinale

Alle elezioni del 6 aprile 1924 la lista guidata da Giolitti ottenne tre seggi in Piemonte (Giolitti stesso, Marcello Soleri ed Egidio Fazio, radicato a Garessio) e uno in Liguria. Un risultato deludente, anche perché erano espressione di una sola delle quattro province piemontesi (Torino, Novara, Alessandria, Cuneo).

L’unica dalla solida tradizione liberale risultò, infatti, la “Provincia Granda”. Nel 1919 essa aveva eletto tre soli deputati liberali (Giolitti, Soleri e Camillo Peano). Socialisti e popolari ne ebbero quattro. Per Giolitti quell’esito fu una umiliazione cocente. Un dodicesimo deputato venne eletto come “agrario”.

Due anni dopo lo stesso collegio elesse quattro liberali: i tre del 1919 e Fazio. Ma era ormai un caso unico. Nelle elezioni del Consiglio provinciale nel novembre 1920 la Granda confermò il primato dei liberali che ottennero la maggior parte dei 60 consiglieri, ma solo perché nei mandamenti vigeva il sistema maggioritario e gli antichi notabili davano garanzie agli elettori per competenza e impegno. All’epoca il liberalismo poteva persino consentirsi il lusso di divisioni in varie correnti: la roccaforte propriamente giolittiana tra Cuneo e Saluzzo, un’altra nel Monregalese, una terza ad Alba. Quel consesso, presieduto da Giolitti, vantava senatori, deputati, aristocratici (Annibale Galateri di Genola, Paolo Falletti di Villafalletto...), scienziati e artisti di fama, come lo scultore Giuseppe Canonica.

Alle elezioni del 6 aprile 1924 in Piemonte furono eletti tre popolari (tra i quali Giambattista Bertone, già ministro nei governi Facta), tre esponenti del Partito dei contadini (vaga anticipazione del populismo perpetuo), tre socialisti, due comunisti, due socialmassimalisti e 31 deputati della Lista nazionale. Molti tra questi precedentemente erano stati eletti nelle file liberali: Gastone Guerrieri di Mirafiori, Giovanni Battista Imberti e il monregalese Guido Viale. Nel dicembre 1925 fu quest’ultimo a capitanare il colpo di mano che rovesciò Giolitti da presidente del Consiglio provinciale in cambio di un cospicuo contributo del governo Mussolini per la prosecuzione del grandioso viadotto ferrostradale cuneese sulla Stura. Corruzione? Voltagabbana? Rassegnazione o pragmatismo?

Considerazioni analoghe valgono per i liberali in Liguria, forti nel Ponente, in grave arretramento in Genova e declinanti nel Levante. In cinque anni, tra il 1919 e il 1924, avvenne il più vasto ricambio di dirigenza politica dal 1882.

Fu una tra le conseguenze dell’intervento nella Grande Guerra, dell’avvento di nuovi partiti (popolari, comunisti, fascisti) e della diffusa volontà di girar pagina senza sapere bene perché e che cosa scrivere nella volta. Avvenne e avviene.

 

Quattro gatti o il sale della Nuova Italia?

Su impulso di Fazio la pattuglia dei giolittiani (sui 535 deputati) non lasciò l’Aula neppure dopo il rapimento di Giacomo Matteotti. Quando divennero evidenti i propositi liberticidi del governo Mussolini, i liberali passarono dall’iniziale voto favorevole all’opposizione netta, sino al 16 marzo 1928 quando l’ottantaseienne Giolitti dichiarò in Aula che il conferimento al Gran consiglio del fascismo del potere di designare i 400 membri della Camera futura, previsto dalla nuova legge elettorale propugnata da Alfredo Rocco, segnava “il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto”.

Con lo scioglimento della Camera eletta il 6 marzo 1924 e l’elezione della nuova il 24 marzo 1929, sull’onda dei plauditi Patti italo-vaticani dell’11 febbraio precedente, per il liberalismo italiano iniziò la “morta gora”, come amaramente annotò Soleri. L’apparenza, però, fu diversa dalla sostanza.

Anche il regime mussoliniano si risolse in un quindicennio di continui bruschi mutamenti di rotta, indicati dai continui cambi dei titolari di ministeri chiave, in specie di Finanze, Lavori Pubblici, Economia nazionale. In molti settori la continuità prevalse sulla retorica della “rivoluzione”. La generalità della burocrazia e dei vertici imprenditoriali e bancari si era formata e affermata nell’età vittorioemanuelina-giolittiana e ne conservò l’impronta: quel tasso elevato di responsabilità civica che dal 25 luglio 1943, all’indomani della revoca di Mussolini per decisione di Vittorio Emanuele III e dello scioglimento del PNF e delle sue organizzazioni, a partire dalla Milizia nel luglio 1943, agevolò il ritorno al pluripartitismo. Lo ricorda Paolo Cacace in “Come muore un regime” (ed. il Mulino), ottimo finalista al Premio Acqui Storia 2022.

La storia riprese il suo corso. Ma in Italia il liberalismo stentò ad assumere la “forma partito” che nelle democrazie parlamentari è anche sostanza. Il PLI tornò a essere il “partito dei quattro gatti”. Orgogliosi di aver dato all’Italia Cavour, Giolitti ed Einaudi, i liberali furono sempre più emarginati, dimenticati e anche irrisi perché non si rassegnavano a intrupparsi nei cortei delle “masse”.

Ma l’Italia può fare a meno di liberali? Essi non hanno un’insegna identificabile. Oggi tutti si proclamano tali, salvo ignorare la storia e negare la realtà.

Tocca allora agli elettori aguzzare la vista. Per scongiurare un’altra lunga “morta gora” a un Paese in grave affanno per la voragine del debito pubblico, la fuga dei “giovani” dalle responsabilità e il declino del senso dello Stato che animò i padri fondatori della Nuova Italia, nata nel 1861, non nel 1946 come si pretende di far credere. Nel bene e nel male, sono infine gli elettori i responsabili della storia.

Aldo A. Mola

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 18/09/2022