
La questione dei Trecento
Di Luca Guglielmino
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La storiografia serba
Prima di tornare a Eugenio di Savoia, che abbiamo lasciato mentre attraversava la Sava nei pressi di Brod, esaminiamo la questione dei 300 serbi nominati da Nouzille, ripresa dalla storiografia serba. Nel 1697 i francesi erano alleati dei turchi, e a lungo furono attratti da Belgrado; due secoli più tardi, fra il 1905 e il 939, Jovan Cvjic, accademico di Serbia, è chiamato a Parigi in sede di Congresso della Pace nel 1918, a promuovere una Jugoslavia (che non esisteva) “allargata” nel senso di Grande Serbia.
La storiografia serba si basa su un testo riportato dallo storico croato Tade Smiciklas, fondatore della storiografia croata moderna: ”Dvijestogodišnjica oslobodjenja Slavonije” Duecentenario della liberazione della Slavonia – JAZU - Zagreb 1891 ove, nel doc. 36, si cita Karl de Croy e si descrive la liberazione di Brod - 12 ottobre 1691 (dopo la vittoria imperiale a Slankamen il 19 agosto 1691) - ad opera dei tedeschi e dei serbi di Rascia ossia della zona del Sangiaccato di Novi Pazar, che potrebbero essere alcuni di quei 10.000 Vlasi ivi trasferiti dai turchi in precedenza. Qui si nominano i 300 tra cui vi sono anche degli hajduci (1).
Altra curiosità: i 300 erano gli uomini del capitano serbo Brcinlija (o von Pertscha o Percilia o Percinlija) secondo il De Croy: egli scrive che in tedesco a Vienna il 24 ottobre che costui è un "so gar ein treuer und braver Mann" e cioè un uomo fedele ed onesto. Brcinlija è una denominazione che sta probabilmente a indicare una provenienza da Brcko, in Bosnia (allora territorio turco), per cui non era un comandante locale. De Croy scrive chiaramente che non aveva trovato altro aiuto perché tutti in siti diversi a cacciare i turchi e quindi fu casuale la scelta di Percinlija.
Fra Bono Benic scrive che tale Percinlija era segretamente amico di un certo Tursun, un turco di Tuzla in Bosnia, che aveva all'epoca molta influenza e prestigio tra i turchi. Fu stilato un patto confermato con mutuo giuramento: se uno dei due avesse voluto saccheggiare una zona con i propri soldati, colui che non era interessato, avrebbe dovuto spostare le sue truppe al di fuori di quella zona. A ritiro avvenuto, un messaggero dovrebbe avvisato che l'azione era compiuta e si lasciava così mano libera al “rapinatore” per agire impunemente nella zona di proprio interesse (e viceversa).
I 300 serbi sono quindi da riferire al 1691 e non al 1697, anche se non è escluso che, quando Eugenio di Savoia passò in Bosnia, a Brod vi fossero alcuni serbi nelle truppe di confine, in stragrande maggioranza croate. Ecco dimostrato l'errore di Nouzille.
Alla lotta e alla resistenza anti-turca in Slavonia, parteciparono anche molti religiosi francescani; non a caso Eugenio di Savoia nominò fra Augustin Jaric comandante responsabile di Brod (dal 1691 al 1697) e gli affidò la ricostruzione dell’abitato, raso al suolo dai turchi, e la nomina dei capi militari locali. I sacerdoti guerrieri erano figure comuni nelle guerre contro i turchi, ai quali era affidata una comunità sotto ogni profilo. Eugenio aveva capito che i francescani – Jaric aveva iniziato il suo servizio nella Provincia Francescana di Bosnia - erano un’importante colonna della società croata e che i croati erano maggioranza nella zona e che li avrebbero riconosciuti come capi fidati. Eugenio era cattolico, buon militare e abile tattico, non intendeva pregiudicarsi le retrovie né i punti d’attacco con nomine avventate; in questo caso sapeva di affidare Brod in mani croate e sicure, per far partire la campagna del 1697 da un luogo sicuro.
Già si è detto che Eugenio aveva attraversato la Sava l’11/12 ottobre 1697, ora procediamo con gli sviluppi della campagna di Bosnia, breve e fruttuosa. Fu Vienna, come al solito, a non approfittare della vittoria poiché la Bosnia - secondo Eugenio - avrebbe potuto essere mantenuta come quartiere militare invernale e venir liberata e annessa in primavera.
La storiografia turca
E’ opportuno sentire anche la versine turca della vicenda. Per entrare in merito ho scelto un testo di Askin Koyuncu dal titolo “OSMANLI DÖNEM?’NDE SARAYBOSNA YANGINLARI” (Gli incendi da Sarajevo nel periodo ottomano- 1697 – 1878 - in Tarih ve Cografya Arastirmalari Dergisi Sayi VI/2 – Aralik 2020, 47-94 Doi: 10.30517/cihannuma. 843121) che riporta le impressioni di diversi studiosi bosniaci e turchi.
Sarajevo fu presa dalle truppe austriache al comando del principe Eugenio di Savoia il 24 ottobre 1697 e data alle fiamme dopo il saccheggio, bruciò completamente e subì uno dei più grandi disastri della sua storia: la maggior parte degli edifici in legno della città furono ridotti in cenere e quelli in pietra risultarono gravemente danneggiati. Il principe Eugenio annotò nel suo diario di guerra che vi erano 120 moschee a Sarajevo e che molti turchi furono uccisi, oltre a donne e bambini catturati dalle truppe austriache, dopo aver dato ordine che la città fosse bruciata e saccheggiata.
Abdullah Drnishli (Abdulah Drnishliya), uno dei testimoni della catastrofe, ha affermato che l'esercito austriaco assediò la città mercoledì 7 Rebiulahir 1109 (23 ottobre 1697), la prese il giorno successivo e diede fuoco a moschee (cami), piccole moschee (mescit) e altre strutture, soprattutto grandi edifici. (Fadil Ademovic, Princ Palikuca u Sarajevu (Provala Eugena Savojskog u Bosnu 1697) - Il Principe incendiario a Sarajevo - L’incursione di Eugenio di Savoia in Bosnia 1697 Biblioteka Civis, Sarajevo, 1997, s. 197. - Ademovi? era un giornalista-pubblicista e non uno storico).
Lo sceicco Osman Sagliya osservò come moschee e luoghi di preghiera (masjid) musulmani in Sarajevo fossero rimasti desolati dopo l’incendio.
Un anonimo poeta di Sarajevo, che assistette ai fatti, descrisse gli attacchi e gli insulti deliberati contro le opere islamiche e i musulmani: “Gli infedeli austriaci vennero con i loro eserciti, bruciarono i libri e le moschee, distrussero i loro mihrab (porte dell’al di là rivolte verso La Mecca) e distrussero completamente la bellissima città di Sarajevo. Guidavano le persone come pecore, che versavano lacrime di sangue dai loro occhi, ne schiavizzarono e ne sterminarono molti, strapparono fanciulle dalle loro vite felici i cui bei volti celesti né il sole né la luna avevano visto a piedi nudi, e le presentarono come doni al re. Venne l'infedele, confiscò tutto il cibo e ogni cosa, e diecimila prigionieri piansero…”.
La portata del disastro, secondo l'anonimo poeta, era terribile: “Molti erano fuggiti dalla paura e dal panico. Gli occupanti avevano catturato donne e bambini, vecchi malati ed esausti. Migliaia di persone sono state uccise... A parte la distruzione del paese, il cibo, tutti i tipi di beni di valore e merci sono stati saccheggiati. Fame, miseria e carestia erano dilaganti. Tutti i sopravvissuti furono resi uguali e la distinzione tra ricchi e poveri scomparve. Coloro che (prima) non sapevano l'ammontare della propria ricchezza ora avevano bisogno di pane secco…”.
L'invasione austriaca e l'incendio della città infliggono un duro colpo alla popolazione e all'economia di Sarajevo. Lo storico Hamdija Kresevljakovic (Kresevljakovic, Hamdija, “Pozari, poplave i zarazne bolesti u Sarajevu (Od 1480. do 1878.)”, Kalendar Napredak, XVII, -Incendi, inondazioni e malattie contagiose a Sarajevo dal 1480 al 1878- Calendario Progresso - (1928), str. 148-151) riferisce che, secondo il rapporto inviato dal governatore bosniaco Halil Pasha a Istanbul nel 1700, 92 moschee su 104 furono bruciate o distrutte e le loro fondamenta rase al suolo; tutti i quartieri e la Bascarsija (bazar) intorno vennero bruciati e la città si trasformò in un mucchio di cenere.
Secondo lo storico Avdo Suceska l'invasione ha devastato Sarajevo; questo disastro ha danneggiato maggiormente le fondazioni (vakuf) e le loro proprietà e che le fondazioni monetarie (specie di rudimentali banche) che fornivano prestiti alle persone sono scomparse. La fondazione monetaria eretta da Gazi Hüsrev Bey (governatore di Bosnia dal 1521 e genero del Sultano Bayazid II) venne sequestrata dallo stesso principe Eugenio che prese le caldaie del Gazi Hüsrev Bey Imaret (cucina popolare, un luogo di ristoro e approvvigionamento).
Vladislav Skaric (Skaric, Vladislav, Sarajevo i njegova okolina od najstarijih vremena do Austro-Ugarske okupacije,- Sarajevo e dintorni dai tempi più antichi fino all’occupazione austro-ungarica - Izdanje Opstine Grada Sarajeva, - ed. Comune di Sarajevo - Sarajevo, 1937) afferma che poche moschee sono sopravvissute all'incendio e che gli austriaci saccheggiarono anche la chiesa ortodossa; annotò che anche la chiesa cattolica fu bruciata, i musulmani e gli ebrei vennero fatti prigionieri, il popolo ortodosso e quello cattolico reinsediati sull'altra sponda del fiume Sava (alcuni di loro in seguito tornarono). Il tribunale e i registri dei qadi o kadi (giudici che si occupavano di applicare la legge, di fiscalità e di leva) del XVI e XVII secolo furono ridotti in cenere e pochi di questi sopravvissero. Anche la sinagoga non sfuggì all’incendio. Allo stesso modo, il ricco patrimonio culturale fu distrutto: ad esempio, la maggior parte dei manoscritti che costituivano il primo nucleo della biblioteca, insieme alla Biblioteca Gazi Hüsrev Bey, fu bruciata.
Ademovic (Fadil Ademovi?, giornalista, professore, dottore in scienze, ricercatore e scrittore, collaboratore del quotidiano della Bosnia-Erzegovina Oslobodjenje, (n.1931 - m.2021). Ademovic visse tra Sarajevo - Sydney - Bijeljina, dove nacque appunto nel 1931. Suo fratello maggiore Adem Ademovic ha partecipato alla Guerra di Liberazione Nazionale dal 1941, un veterano. Morì come uno dei partigiani piu coraggiosi di Semberija. Fadil Ademovi? ha iniziato la sua carriera giornalistica nel quotidiano Naša rije? di Zenica e l'ha proseguita con successo a Oslobodjenje. Dopo Zadrugar, di cui fu caporedattore per dieci anni, fu nominato consigliere della Presidenza della Bosnia ed Erzegovina e si ritirò prima della guerra del 1992.
E’ il vincitore dei più alti premi giornalistici per il lavoro di una vita "Veselin Maslesa" dell'Associazione dei giornalisti della Bosnia ed Erzegovina e "Mosa Pijade" dell'Associazione dei giornalisti della Jugoslavia, premi delle città di Zenica e Bijeljina. In due mandati e stato presidente dell'Associazione dei giornalisti della Bosnia ed Erzegovina) afferma che, nell'incendio, documenti come i registri seriye (secondo la sharia o legge coranica, tenuti dal kadi), editti, ordini, mahzar, (verbali) vakfiye (atti delle fondazioni), muhafname (decreti di esenzione), manoscritti e cronache andarono in cenere, scomparvero fondazioni monetarie, vennero distrutte fondazioni commerciali, le attività cessarono, i commercianti e l'artigianato crollarono. Numerose opere diverse dalle moschee, quindi madrase (scuola turca di studi superiori), bagni turchi e il taslihan (caravanserraglio) costruite da Gazi Hüsrev Bey vennero danneggiate e ci vollero decenni per il loro recupero.
Tanta distruzione è stata un trauma per i turchi di Bosnia e per gli ottomani.
Dobbiamo dire che questo era il modo di combattere del tempo: ad esempio i turchi incendiarono Osijek nel 1526, distruggendola totalmente con una serie di cittadine in Croazia, Ungheria e nella stessa Bosnia: Grabovac, Domonko?, Cirkvena, Gudovac, Dubrava, ad opera dei gazi o guerrieri confinari nel ruolo di incursori (Nenad Moacanin - Slavonija i Srijem u razdoblju osmanske vladavine - p. 8 - Slavonski Brod 2001).
Dalla vittoria sul campo di Kosovo nel 1389 fino alla battaglia di Krbava nel 1493, i turchi intrapresero da due a dieci campagne l'anno, nelle quali applicarono la tattica di devastazione dell'area attaccata: bruciavano tutti gli edifici; la popolazione che non era economicamente redditizia (gli anziani e gli invalidi) veniva uccisa, la restante popolazione posta in schiavitù, oltre a depredare tutti i beni materiali possibili.
Oltre agli effetti economici di impoverimento dell'area invasa, raccoglievano fondi per pagare il loro esercito lungo il confine; l'incursione delle unità di saccheggio preparava il terreno per un'offensiva più ampia dell'esercito regolare (i soldati che marciavano erano chiamati akindžije). Il loro stipendio equivaleva a ciò che avrebbero derubato durante le incursioni (quantificate da 5 a 10 mila). La loro velocità e mobilità, il terreno collinare e boscoso croato, il fattore sorpresa, li rendevano praticamente invisibili e sfuggenti dopo l'incursione; diventavano visibili solo quando entravano, il che impediva qualsiasi difesa; potevano essere attaccati solo quando divenivano un bersaglio lento nel ritornare con il bottino. Sarajevo subì quindi il medesimo trattamento di centinaia di luoghi abitati in Croazia, Bosnia e Ungheria.
Siamo nel periodo in cui trionfa la Controriforma cattolica (dopo il Concilio di Trento), in cui sono presenti i frutti di Lepanto, Vienna, Zenta ed indubbiamente le armate imperiali di sua Maestà Cesarea e Re Apostolico d’Ungheria Leopoldo I, erano vittoriose contro l’islam ottomano. Letto oggi, sembra l’andamento di una crociata e gli scritti turchi somigliano a quelli degli storici arabi al tempo delle crociate e le due parti si attribuiscono a vicenda l’appellativo di infedele.
Torna alla mente la descrizione sintetica che fece lo storico arabo Ibn al-Athir sulla presa di Gerusalemme da parte dei Franchi, che passarono a fil di spada la popolazione e saccheggiarono moschee e uccisero molti musulmani che vi si erano rifugiati, comprese donne, bambini e prigionieri. Oggi si capisce come le autorità musulmane non avessero apprestato nessuna difesa una Sarajevo in gran parte costruita in legno.
Peraltro, Sarajevo e la Bosnia si comportarono sempre in modo autonomo rispetto a Istanbul, giungendo a rivoltarsi contro il Sultano durante il periodo decadente della Porta Ottomana (Bab i-Ali, Sublime porta, ossia "Porta Superiore o Suprema", o anche Porta ottomana, è uno degli elementi architettonici più noti del Palazzo di Topkap? di Istanbul, antica residenza del sultano ottomano. L'espressione, é stata usata per indicare il governo dell'Impero).
Inoltre, consciamente o meno, Eugenio introdusse la guerra psicologica creando un trauma nel campo musulmano che ancora oggi è un ricordo molto vivo, per la paralisi prodotta all’economia del nemico e soprattutto il commercio tra la Bosnia e l’Adriatico e quindi con la Serenissima e con Ragusa (Dubrovnik), un commercio che includeva pure gli schiavi.
Sarajevo nel 1659 possedeva due mahalle o quartieri, abitati da ebrei sefarditi, secondo lo scrittore di viaggi turco Evlja Celebi; essi rappresentavano una struttura portante dei commerci e dell’economia cittadina. Eugenio manda avanti i saccheggiatori, truppe simili in tutto e per tutto a quelle turche dedite ai medesimi compiti e infine fa incendiare la città.
Se ci riportiamo ai tempi, il comportamento di Eugenio non si può giustificare, ma soltanto comprendere nel clima dell’epoca. A mio avviso la storiografia turca assume la parte della vittima, esaltando ed estrapolando il singolo episodio, senza considerare altri avvenuti precedenti perpetrati a carico dei croati e dei serbi. Per quanto riguarda la cronaca dei fatti, gli scritti degli storici turchi confermano, peraltro, e in modo più esteso, il diario sintetico di Eugenio.
Cosa pensava Vienna?
Eugenio di Savoia dovette convivere con alcuni imperatori del Sacro Romano Impero: Leopoldo I, Giuseppe I, Carlo VI e Maria Teresa. Ebbe rapporti difficili e complicati con Leopoldo, che lo accolse bene ma sorsero in seguito frequenti polemiche per visioni diverse sull’azione in campo militare e politico (Leopoldo era incapace di dirigere i propri ministri, irresoluto ed esitante, influenzabile dalle decisioni politiche diverse prese dai suoi ministri); non poteva andare d’accordo con un uomo come Eugenio. Il momento era difficile: l’esercito, a causa della guerra con la Francia, era privo di risorse e quasi al collasso, costretto a vivere di requisizioni, confische e saccheggi a spese della popolazione. Caprara (Enea Silvio, capitano imperiale di origine bolognese, rivale di Eugenio) e l’Elettore di Sassonia Federico Augusto erano al comando dell’esercito e godevano della fiducia di Leopoldo.
Si formò un partito favorevole ad Eugenio, sostenuto da Luigi di Baden, che comandava sul Reno e da Rüdiger von Stahremberg, Presidente del Consiglio di Guerra. Nell’aprile 1697 Leopoldo cedette ed Eugenio divenne il nuovo comandante in capo. Dopo Zenta e Sarajevo, Eugenio divenne a pieno titolo un eroe europeo. Eugenio era un personaggio serio e taciturno, mal si accordava con i damerini eleganti che circondavano Leopoldo. Pochi anni dopo i fatti, nel 1703 la figura di rilievo che presiedeva il Consiglio di Guerra era Heinrich Franz von Mansfeld, col quale Eugenio arrivò ai ferri corti, così come con il presidente della Hofkammer o autorità fiscale centrale, una specie di Ministero delle Finanze, conte Gotthard H. Salaburg (tanto da definire entrambi, e in pubblico, dei somari!).
Leopoldo glissava: ogni volta che incontrava Eugenio, questi veniva ascoltato con comprensione, ma rispondeva frettolosamente, come non vedesse l’ora di liberarsi da un importuno, e non faceva quanto gli veniva richiesto. Si formò un gruppo di opposizione a capo del quale vi era Giuseppe (il futuro imperatore Giuseppe I), coadiuvato da Luigi di Baden, dal suo tutore principe Salm, dal vice-cancelliere Kaunitz e dall’Elettore del Palatinato Giovanni Guglielmo, fratello dell’imperatrice Eleonora (la consorte di Leopoldo). Lo scopo era eliminare gli incompetenti e avviare una guerra contro la Francia. Leopoldo, ormai anziano e fatalista, si aggrappava ai vecchi ministri, di fronte ad un conflitto in estensione, per il quale doveva sperare in un miracolo, con le finanze in bancarotta. Infine Leopoldo si arrese e licenziò Salaburg e Mansfeld: al primo subentrò Gundakar von Starhemberg, fratello di Rüdiger. Eugenio prese il posto di Mansfeld come Presidente del Consiglio di Guerra Imperiale. I due enti, la Camera e il Consiglio ora potevano lavoravare in sintonia e l’esercito venne finalmente riorganizzato.
Con Giuseppe I (il sovrano presente alla Guerra di Successione di Spagna) e con Carlo VI i rapporti di Eugenio furono buoni. Ad Eugenio fu affidato da Carlo VI il delicato compito di trattare con gli Inglesi per la questione spagnola, nel momento in cui la politica estera di Londra virava contro gli Alleati, avviando trattative con Parigi. Durante i primi sei anni del regno di Carlo VI, Eugenio fu trattato come un primo ministro a tutti gli effetti, grazie alla sua grande reputazione militare.
Quando sale al trono Maria Teresa siamo arrivati agli anni della vecchiaia di Eugenio, che viveva insieme alla contessa Eleonora Batthyàny Strattmann, sua eminenza grigia (definita nella corrispondenza diplomatica come la Ninfa Egeria di Eugenio). La relazione fu chiacchierata a corte, dalla stessa Maria Teresa, costretta a tollerarla. Eugenio si spegnerà nel 1736 e la contessa nel 1741.
Note
(1) Hajduci. Termine derivante da hajtò, che in ungherese vuol dire mandriano. Nel turco ottomano assume il significato di fanteria leggera magiara o semplicemente di brigante. Tali hajduci o aiducchi- tra cui nella fattispecie vi potevano essere anche croati- erano presenti in tutte le nazioni balcaniche e persino in Ucraina.
(2) Il testo è contenuto nell'opera “Ljetopis sutjeskog samostana” (Cronaca del monastero di Sutjeska) p. 103 anno 1690, a cura di P.Ignacije Gavran - Sarajevo 1979.
Bibliografia
John P. Spielman, Leopoldo I, Londra 1976.
Alfonso. Lhotsky, Kaiser Karl VI und sein Hof im Jahre 1712/1713, in MI Ö.G-( Mitteilungen des Institute für österreichische Geschichlsforschung), LXVI, 1958.
Egghardt H., Prinz Eugen: Der Philosoph in Kriegsrustung. Verlag Kremayr & Scheriau, 2013.
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Articolo pubblicato il 30/09/2022