“La guerra dei trent’anni”

Come stiamo pagandone ancora le conseguenze

A beneficio di coloro che ancora ricordano uno dei periodi più tragici per la nostra democrazia e dei giovani seri che intendono conoscere ed approfondire, arriva in libreria l’ultima fatica di Filippo Facci.

Su alcuni passaggi e personaggi, il lettore accorto potrà trarre conclusioni differenti o proporre documentazioni inoppugnabili, ma il pregio di questo testo trova risalto dalla documentazione prodotta e dall’analisi presentata.

16 marzo 1993: Milano è attraversata da un eterogeneo corteo giustizialista, al quale partecipano i partiti più disparati e volti noti dello spettacolo; ma, dice l’Autore, la manifestazione non passerà alla storia. Intanto, alcuni deputati del Movimento Sociale (il bolognese Filippo Berselli, il marchigiano Giulio Conti, il genovese Francesco Marenco e il veronese Nicola Pasetto) inscenavano un sarcastico “repulisti” del Parlamento, agitando guanti bianchi e spugne. Anche loro, secondo l’Autore, saranno trascurati dalla storia.

Saranno adombrati da un altro episodio, quasi istantaneo: un oscuro deputato  della Lega Nord, l’antennista comasco Luca Leoni Orsenigo, dall’alto della sua imponenza fisica agita, dagli spalti della Camera, un cappio: una scena i cui effetti si concretizzeranno, un mese e mezzo dopo, ossia il tentativo di linciaggio ai danni dell’ex premier Bettino Craxi da parte di gruppi in gran parte pilotati.

L’estremismo viscerale di Orsenigo (accolto con risa sguaiate dal suo gruppo, compresa la futura Presidente della Camera, Irene Pivetti) era orribile: si era nel pieno della stagione dei suicidi causati dalla violenza delle carcerazioni (per citare soltanto i più noti: nel settembre ’92 si era ucciso, con una fucilata al volto, Sergio Moroni; nel luglio ’93 lo faranno due protagonisti dello scandalo Enimont, Gabriele Cagliari soffocandosi in carcere e Raoul Gardini con un colpo di pistola nella sua residenza milanese, Palazzo Belgiojoso).

Ma l’opinione pubblica accolse con favore il suo “coup de théatre” e nelle piazze non mancavano striscioni e cori che auspicavano la forca per i “forchettoni”.

L’immagine del parlamentare leghista che agita il cappio nell’aula di Montecitorio spopolò sulle prime pagine dei quotidiani, diventando una delle più emblematiche di Mani Pulite, assieme a quelle del democristiano Enzo Carra trascinato dai carabinieri con gli schiavettoni senza un valido motivo, di Bettino Craxi assalito dalla folla e del pool (Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli; mancavano Piercamillo Davigo e Gerardo D’Ambrosio) a spasso per la Galleria Vittorio Emanuele II, con la scorta della gente. Poco meno di trent’anni dopo, torna in libreria, sulla copertina d’un ponderoso tomo dedicato a un’epoca che si pretende essere finita, senza che lo sia per davvero.

Secondo libro in due anni di Filippo Facci; il precedente è “30 aprile 1993. Bettino Craxi: l’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica”, dedicato a uno dei momenti più critici di Tangentopoli – il voto sull’autorizzazione a procedere nei confronti del leader socialista, il passaggio dal governo Amato al governo tecnico di Ciampi, l’aggressione dei manifestanti a Craxi all’uscita dell’hotel Raphael.

Le immagini di quella saga tragicomica ci sono tutte: dall’estremo gesto, compiuto con dignità da samurai, dal deputato socialista Sergio Moroni, alla risibile comparsata di Walter Armanini; dal mesto spegnimento di Giuseppe Goria, a La Malfa jr. che fonda un ideale “Partito degli Onesti” per poi essere condannato per finanziamento illecito; da Giovanni Falcone che, non bastandogli la lotta contro Cosa Nostra, dovette affrontare certa “antimafia”, al discusso ed enigmatico Antonio Di Pietro,  giunto da Montenero di Bisaccia a fare giustizia. Sic!!!

“30 aprile 1993” era un grande libro, una furibonda cavalcata che, partendo da un episodio emblematico, osservava una fase cruciale della storia italiana – o meglio, tre fasi: la fine della Prima Repubblica, la spaccatura di Tangentopoli, l’esordio della Seconda Repubblica.

“La guerra dei trent’anni” ne recupera la formula: ricordi ed esperienze personali e il loro intrecciarsi con la macrostoria. Sulla scorta d’una documentazione imponente, forse tutto lo scibile riguardo quegli anni; e di riflessioni acute e profonde, soprattutto sull’iter giudiziario (le inchieste e i loro passaggi, anche minimi, sono analizzati con una precisione e una cultura giuridica che manca a coloro che sinora hanno preteso d’essere le vestali della “verità” su Mani Pulite: Gomez, Travaglio e Barbacetto, ancora col recente “La beatificazione di Craxi.

Facci si tiene lontano dalle spiegazioni più balzane, siano quelle complottiste (ossia le tesi d’un intrigo internazionale volto a rovesciare l’equilibrio politico italiano – magari a partire da una dubbia vendetta per Sigonella; ma, com’è ragionevole, non si astiene dal menzionare l’infame banchetto a bordo dello yacht Britannia) o quelle giustizialiste.

Così come non scade nell’abusata glorificazione della Prima Repubblica: una generazione di politici annaspava (lo stesso Craxi dal 1989, è arrivato persino a lanciare un assist a quella stessa antipolitica che poi lo sopprimerà – l’invito ad astenersi dal referendum di Mario Segni per la presenza unica, nel 1991), i partiti agonizzavano e la classe dirigente rappresentava uno spettacolo orribile (non paga di aver alimentato il sistema di tangenti, si spaccerà poi per vittima: e Facci è molto attento alla differenza tra corruzione e concussione – lo stesso Craxi l’aveva rilevata nel suo interrogatorio al processo Enimont, ma come in quel periodo doveva accadergli, rimase inascoltato).

A Cesare quel che è di Cesare, ai politici le loro colpe: ma nulla giustifica le “grida spagnolesche”, le messe alla gogna, le volanti parcheggiate lontano dai cancelli del carcere per far percorrere agli inquisiti metri e metri con puntate addosso le macchine fotografiche, le istigazioni al suicidio e le esultanze quando qualcuno lo commetteva, la distorsione sistematica dell’avviso di garanzia (come specifica il nome, una tutela della quale dovrebbe beneficiare l’inquisito; diventata invece, ormai anche nel linguaggio comune, sinonimo di colpevolezza e sentenza di condanna al pubblico ludibrio).

La fine della Prima Repubblica, spiega bene Facci, avrebbe dovuto accadere, in un modo o nell’altro: il collasso di tutto un sistema era garantito dalla fragilità delle sue stesse fondamenta.

Il modo con cui lo si è attuato resta disonesto, con tratti di barbarie. Per mesi, per anni il 90% (un sondaggio registrò che tale era la quota di opinione pubblica favorevole all’opera del pool di magistrati) della popolazione italiana riteneva che i soldi del finanziamento illecito bastavano a spiegare il debito pubblico e l’inflazione, e che si trattava delle stesse quantità di denaro che mancavano a milioni di famiglie per vivere con lo stesso benessere dei due decenni precedenti.

Molti di costoro, quando il giustizialismo di Mani Pulite – previa visita alla Guardia di Finanza, con l’inchiesta “Fiamme Sporche” – toccherà anche i vizi dei privati cittadini (scontrini non emessi, fatture alleggerite, lavoretti in nero, disinvoltura con le dichiarazioni catastali), si renderanno conto che l’intransigenza è meno divertente, vista da vicino.

Resterà comunque forte la voce dell’Italia peggiore: quella delle frasi fatte, da “tanto sono tutti uguali” a “tanto non cambia niente”, quella sempre in cerca di scuse per non ammettere che se non si va da nessuna parte non è tanto per colpa di qualcun altro, ma per il proprio rifugiarsi nel rifiuto di darsi una mossa. L’Italia qualunquista, quella che anni dopo Mani Pulite ha acclamato il Vaffa Day e che alle elezioni del 2018 ha fatto sfiorare al Movimento 5 Stelle, il partito dell’antipolitica (nonché dell’incompetenza, dell’incultura, dell’incapacità) un terzo dei voti (32,7% alla Camera, 32,2 al Senato).

Facci non rifiuta l’opinione stando alla quale la Seconda (o forse, la Terza) Repubblica è molto peggio della Prima: hanno finito per ammetterlo Indro Montanelli (accanito detrattore dei partiti che stavano per estinguersi) e persino Borrelli. È un dato di fatto sin troppo evidente, come il susseguirsi di notte e giorno.

Ma va oltre questa constatazione: la argomenta, ne analizza i lati convincenti e le criticità, e la approfondisce, con l’onestà intellettuale che è sempre mancata ai tifosi del pool (il suo bersaglio è Goffredo Buccini, che con un suo ottimo libro – “Il tempo delle Mani Pulite” – ha ripensato quell’epoca; perché con Gomez, Travaglio e Barbacetto è assurdo discutere). Non è, per esempio, un ammiratore di Giulio Andreotti: ma ne analizza le vicenda giudiziaria da inquisito per associazione mafiosa, traendone le conclusioni (non le sentenze) che un giornalista serio può e deve (anzi, dovrebbe) scrivere.

Sulle responsabilità e conclusioni della fine della prima repubblica, dovrebbe riflettere invece con meno leggerezza la sinistra italiana, che si illuse di trarre vantaggio dall’abbattimento dei totem della Prima Repubblica, ed è finita, con un percorso non di certo edificante, con l’affidare, per le elezioni politiche del 2022, il suo movimento maggiormente rappresentativo, il Partito Democratico, al suo segretario peggiore, Enrico Letta, che è riuscito nella titanica impresa di far rimpiangere, non solo a sinistra, il PDS di Achille Occhetto.

 

Filippo Facci, La guerra dei trent’anni. 1992-2022: Le inchieste, la rivoluzione mancata e il passato che non passa.

Marsilio Editore – Gli specchi, Venezia aprile 2022

752 pagine, 25 euro

 

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Articolo pubblicato il 10/10/2022