Un viaggio a Sarsina e dintorni (Forlì-Cesena)

Strade di Romagna tra storia e fede, chiese e castelli (prima parte)

Sarsina, in provincia di Forlì-Cesena, è l’antica “Sassina”: ha una storia antica, che si perde in tempi remoti, quando viene fondata da popolazioni umbre fra il VI e il V secolo a.C. La prima memoria certa è la conquista di Roma, avvenuta nel 266 a.C. Questo territorio era in provincia di Firenze fino al 1923 e rimangono visibili i segni della presenza toscana (la vicina Bagno di Romagna, luogo di cure termali, sembra un borgo mediceo).

Sarsina è patria di due illustri personaggi: Tito Maccio Plauto e San Vicinio, il suo patrono.

Pochi anni dopo la conquista romana vi nasce il commediografo Plauto (Sarsina, circa 250 a.C. – Roma 184 a.C.), uno dei massini scrittori dell'antichità latina e l'autore teatrale che più ha influenzato il teatro occidentale (esponente del genere teatrale della palliata, ideato dall'innovatore della letteratura latina Livio Andronico). Ogni anno, a fine agosto, si svolge il Plautus Festival, in suo onore.

Le notizie sulla vita di San Vicinio emergono da un “Lectionarium” manoscritto, anonimo, del XII secolo, conservato nella Biblioteca Gambalunga di Rimini. Il 28 agosto si celebra la sua festa liturgica, in occasione della quale vengono distribuiti i tradizionali “curdlen”, fili colorati di seta, benedetti e portati al collo da ammalati e devoti, come protezione celeste a somiglianza del famoso e citato collare.

Le origini della Basilica ConCattedrale (così detta perché la città fu sede episcopale, poi incorporata nella Diocesi di Cesena-Sarsina) si perdono intorno al Mille. È intitolata a San Vicinio, primo leggendario vescovo della città; forse proveniente dalla Liguria, muore a Sarsina il 28 agosto 330 (1). L’edificio è in stile romanico, nella lunetta sopra l’ingresso un moderno mosaico raffigura il santo titolare con la mitra episcopale e la catena. La Cappella di San Vicinio conserva le spoglie del Santo e narra, attraverso quattro tele parietali, i miracoli legati al suo culto. In essa si celebra il rito di San Vicinio nei giorni feriali e non è infrequente incontrare qualche fedele desideroso di ottenere la benedizione del collare appartenuto al Santo, perché gli sono attribuite proprietà taumaturgiche, in grado di scacciare il maligno. Da qualche tempo, un giorno la settimana, a Sarsina è di nuovo presente l’esorcista, per tenere lontano il maligno dai parrocchiani.

Ad una quarantina di chilometri da qui vi è la affollata riviera romagnola, qui siamo già nel cuore dell’Appennino montano e contadino, a scavalco fra Romagna, Marche e Toscana in un paesaggio lontano anni luce dalle spiagge e dagli alberghi; poco oltre si apre il Passo dei Mandrioli, secolare via di comunicazione con il Gran Ducato dei Medici.

Il citato Collare di San Vicinio, ancora usato nei riti e nelle benedizioni, era portato dall’eremita che, secondo la tradizione, si rifugiava sovente su un monte che oggi ha preso il suo nome, dove pregava e faceva penitenza. Durante le sue permanenze il Santo indossava una collana di ferro, alla quale appendeva una pietra. L'oggetto, di incerta origine, è formato da due bracci uniti da un duplice snodo e termina con due anelli che combaciano. Secondo una ricerca scientifica dell’Università di Bologna l’oggetto è da attribuire ad un'epoca contemporanea alla vita del Santo. Da tempo immemorabile il Collare è usato per le benedizioni. Si è soliti dire che “La Catena è la mano del Santo che con la sua potente intercessione presso Dio dona la grazia a tutti coloro che giungono fino al suo altare in devoto pellegrinaggio”. 

In merito alle benedizioni, lo storico Vittorio Tonelli, nel suo testo Il diavolo e l’acquasanta, a pag. 135 scrive: “Notissima è la Benedictio che San Francesco ricavò dal 66° salmo della Bibbia. E pure molto conosciuta è quella riferita a sant’Antonio da Padova, che io stesso ho trovata inserita in un lungo e antico testo esorcistico. Questo era usato, con il crocefisso in mano, “per liberare le persone afflitte da idee nere, che vedono strane cose, che hanno visioni terrificanti, incubi, oppressioni e ogni specie d’angoscia” (Abate Julio, Il libro segreto dei grandi esorcismi, Viareggio 1908).

Per le antiche strade di Romagna, ancora di Vittorio Tonelli, così riassume questa filosofia:

“Nell’era dell’autostrada telematica, che regala una rombante velocità al nostro viaggiare, il piede cerca a volte il silenzio di sentieri e mulattiere, ai margini del bosco, sulla riva di un fiume, per vitalizzare i muscoli, anche dell’anima, e ritrovare le orme di un passato non troppo lontano (…)”.

Un detto romagnolo da lui riportato è lapidario:

“Per fé ‘na streda

U i vò un santer” (pag. 13).

Chi percorreva queste strade, fino all’Ottocento e per un tratto del Novecento, poteva incontrare le maestà (2), il cantoniere, lo spazzino, lo spaccapietre (oltre al rischio rappresentato da ladri e briganti).

Si viaggiava principalmente con “il cavallo di san Francesco” (a piedi!). Una testimonianza di Francesco Mosconi, di Selvapiana, suona così: “Di tanto in tanto andavamo a piedi in qualche santuario, alla Verna, a Sant’Alberico, a Corzano e a Sarsina. Ma il preferito era quello della Verna. Se qui giungevamo per la messa di mezzogiorno, i frati ci davano da mangiare.  Quando loro passavano alla cerca, noi contadini davamo grano, formaggio, lardo ed anche un po’ di lana (…)”. Difficile capire dove finiva la fede e dove iniziavano il rito e la tradizione, in un viluppo inestricabile di antiche radici che risale al Medioevo o anche prima. Queste poche parole bastano a capire come sia radicato il senso del religioso e spiegano il fiore di tanti luoghi di culto sul territorio circostante e a poca distanza da Sarsina.

Poco fuori dall’abitato, risalendo una ripida collina, si trova il Castello di Casalecchio, ricordato già nel 1179 come soggetto alla Chiesa di Sarsina, nel Cinquecento riadattato ad abitazione dai Bernardini, incorporando nell’edificio le stesse mura di cinta, ora visibili, in parte, a valle.

L’ultima Contessa (Antonia) vi morì il 19 agosto 1800, mentre Napoleone sopprimeva tutti i feudi. Dal 1812 l’edificio è proprietà privata della famiglia Marini. Un portone a lunetta conduce all’androne, il cui soffitto conserva lo stemma affrescato dei Conti (con il leone al posto dell’aquila).

Da qui si entra nell’oratorio privato, che delimita parte della corte, raccolta in una intimità quasi claustrale, con l’agile campaniletto a vela e l’antico pozzo cisterna. Dagli architravi di tre finestre s’affaccia come un tempo, a chiare lettere latine, il nobile motto “BERNARDINUS MASSE CASALECCHIO”.

All’interno, visitabile in particolari occasioni previa autorizzazione della proprietà, si trova un grandissimo salone dove il bianco delle pareti ha nascosto gli affreschi; vi rimane intatto un superbo camino cinquecentesco di pietra.

Campeggia, fra eleganti decorazioni scultoree, il bellissimo stemma comitale (con due lecci, due aquile e tre stelle), sopravvissuto al saccheggio del sec. XVII, quando soldati pontifici richiamarono all’ordine lo spavaldo feudatario Scipione Bernardini.

Il Conte, narrano le cronache, riuscì a riparare in Toscana, nel vicino “granducale” Monteriolo. Il Castello è popolarmente definito “delle cento finestre” per la gran quantità di apertura (circa una settantina) che permettono di godere della vista su entrambi i lati della valle del Savio.

Anche questo Castello conserva il suo mistero: in una stanza molti ospiti non sono riusciti a dormire a causa di una “presenza” che si diverte a strappare le coperte dal letto. Ringrazio i proprietari che mi hanno accompagnato a visitare questo prezioso bene storico del territorio.

Il “Gruppo Fotografico 93 Aps” di Cesena, dal 23 agosto al 11 settembre, ha allestito una mostra fotografica dal titolo “Savio - 12 mesi lungo il fiume – Work in progress”, presso la Sala Mostre del Centro Studi Plautini di Sarsina.

È un’avventura originale e inedita, della durata di 12 mesi (da gennaio a dicembre), durante i quali gli autori percorreranno l’intero corso del fiume Savio, dalla foce, risalendolo fino alla sorgente. Il progetto è un lungo “cammino” di fotografia, attraverso scenari mutevoli nel divenire del percorso e delle stagioni; il cammino viene fatto a piedi (che sono fondamentali nei gesti del fotografo per trovare, spostandosi, equilibri di inquadratura, punti di vista alternativi, distanze e messa a fuoco).

Hanno curato l’allestimento Antonio Crociani, Lucio Cangini e Marco Boschetti.

Sarsina è così diventata la tappa centrale di un altro cammino, laico e naturalistico, che mette al centro l’attenzione per la natura e il territorio, così ricco di spunti per la presenza Parco Nazionale Foreste Casentinesi.

Fine prima parte

Note

(1) Vicinio si ritira come eremita su un monte a circa sei chilometri da Sarsina (oggi Monte San Vicinio), in una vita fatta di preghiere e penitenza. Mentre sacerdoti e popolo di Sarsina si erano riuniti per scegliere un vescovo, sulla cima del monte appare un segno divino, così l'eremita è chiamato a diventare il pastore della comunità romagnola, dai primi del IV secolo al 330 d.C., data della morte. Anche dopo l'elezione a vescovo, Vicinio continuò a tornare sul monte in piena solitudine. In vita ebbe fama di taumaturgo: il suo carisma era quello di scacciare i demoni e guarire i fedeli da infermità fisiche o dell'animo attraverso una catena che poneva loro al collo.

(2) Con il termine “Maestà” si definiscono immagini o piccoli bassorilievi devozionali che venivano posti agli angoli delle vie, sulle facciate delle case, sui sentieri di montagna o lungo le strade di comunicazione che collegavano tra loro borghi e città. Sono sempre collocati su una parete esterna, mai in un luogo chiuso: quando se ne trova una in una chiesa o in un altro edificio, significa che il rilievo v’è stato condotto successivamente e quella non era la sua collocazione originaria. L’uso di esporre simulacri del genere lungo le strade è attestato fin da tempi antichissimi, ma è a seguito del Concilio di Trento che conosce una diffusione su larga scala. Il termine “Maestà” riporta alle radici ancestrali di questa pratica: maiestas era l’appellativo con cui, a partire dal IV secolo dopo Cristo, s’identificavano i santi e le divinità cristiane.

Bibliografia

Abate Julio – Il libro segreto dei grandi esorcismi – 1908 – Ristampa Rebis - 1994;

Tonelli Vittorio – Il diavolo e l’acquasanta – Edit – 2008 - Faenza;

Tonelli Vittorio – Per le antiche strade di Romagna – Edit – 2004 - Faenza.

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Articolo pubblicato il 27/10/2022