Ottobre 1922 - Quel che non accadde

Di Aldo A. Mola

In attesa di risposte

Domani, 30 ottobre, saranno cent'anni esatti dall'insediamento del governo di coalizione costituzionale presieduto dal trentanovenne Benito Mussolini, dopo Matteo Renzi il più giovane tra i primi ministri della storia d'Italia.  Nel “centenario” sono comparsi molti libri, di diverso valore. I più risultano “di occasione”: lunghe premesse su due anni e più di “malefatte” degli squadristi, l'organizzazione della “marcia” (mai avvenuta), la proclamazione dello stato d'assedio senza la firma del re, l'incarico a Mussolini di formare il governo e l'interrogativo di sempre: insurrezione? Rivoluzione o solo una melina? Molti autori ammettono che gli eventi cruciali, spesso narrati in modo ancora impreciso e fantasioso, rimangono avvolti nel mistero. Vale soprattutto per il rifiuto del re di firmare lo stato d'assedio e dei due ventilati “condizionamenti” all'origine del “gran rifiuto”: la lealtà dell'Esercito e l'incubo del “cugino”.

A questo riguardo in “1922. La Marcia su Roma. Mussolini, il bluff, il mito”, ora nelle edicole con “il Giornale”, il saggista Claudio Fracassi afferma che «non sembra siano ancora emersi solidi elementi di fatto che colleghino direttamente i conflitti dinastici ai disegni di potere di Mussolini». In sintesi, la ventilata sostituzione di Vittorio Emanuele III con suo cugino Emanuele Filiberto, duca d'Aosta, è e rimane una diceria. Si basa su un vago “sentito dire” di Margherita Facta, figlia del presidente del Consiglio. È passato invece sotto distratto silenzio che la proclamazione dello stato d'assedio andava molto oltre le competenze del governo, dimissionario dal tardo pomeriggio del 27 ottobre, mentre il Re rientrava a Roma da San Rossore (Pisa) per affrontare la crisi sfuggita di mano alla compagine governativa. Furono Facta e i suoi ministri a scaricarne la soluzione sulle spalle del re, a camere chiuse. Un vero e proprio colpo di Stato. Liquidato in pochi minuti Facta, che andò a dormire pacificamente all'Hotel Londra, tra Villa Savoia e il Quirinale Vittorio Emanuele III si mise all'opera, assistito dal primo aiutante di campo, il generale Arturo Cittadini.

La mattina del 28 ottobre la situazione politica era ormai chiara: tutte le personalità e le organizzazioni rapidamente consultate dal re o in grado di fargli pervenire il loro pensiero si erano schierate per un governo comprendente esponenti del Partito nazionale fascista, incluso Mussolini. Il luogotenente della “marcia su Roma”, Ernesto Civelli, lo assicurò sul “punctum dolens”: i fascisti intendevano entrare in Roma per applaudirlo, non per avversarlo. Lo garantivano anche i quadrumviri Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi, monarchici senza se e senza ma. L'ex presidente del Consiglio Antonio Salandra, sponsorizzato dai nazionalisti ma inviso a Vittorio Emanuele Orlando (che brigava per ottenere l'incarico), Giovanni Giolitti (che, non solo per colpa sua, ebbe il torto di non trovarsi a Roma nelle ore decisive) e lo stesso Facta, che puntava a succedere a sé stesso, si eliminarono a vicenda in una ridda senza capo né coda.

La sera del 13 settembre l'altro possibile protagonista, Gabriele d'Annunzio, era stato spinto ai margini della lotta politica da Luisa Baccara infastidita dal corteggiamento del Vate a sua sorella minore, Jolanda. Cadde da sette metri, batté la nuca, rimase tra la vita e la morte e impiegò settimane a riprendersi. Se il parapetto della Sala della Musica di Villa Cargnacco a Gardone fosse stato più alto la storia d'Italia sarebbe stata diversa? Impossibile dirlo. Il “volo dell'Angelo” paralizzò e disperse i suoi seguaci, a conferma che non costituivano affatto una “forza d'interdizione” all'avvento di Mussolini. Ne ha scritto Raffaella Canovi nel documentato saggio “L'Iniziato? D'Annunzio e la Massoneria” (ed. Ianieri). Benché dolorante, nel confuso turbinio di trattative più meno coperte il Vate fu evocato sia da Facta, che lo voleva celebrante il 4 novembre all'Altare della Patria, sia da Francesco Saverio Nitti, dimentico di esserne stato irriso col nomignolo di “cagoia” (sta per lumachetta, ma suona peggio). Di fatto tutte quelle trame si risolsero nell’eliminazione reciproca dei concorrenti, a vantaggio di Mussolini, che a sua volta trattava direttamente o indirettamente con tutti e quindi, a differenza dei suoi singoli interlocutori, conosceva di ciascuno ambizioni e debolezze e arrivò a pretendere dal re quanto sino alla sera del 28 ottobre sembrava impossibile: l'incarico di formare il governo egli stesso, come esplicitamente annunciato per telegramma dal generale Arturo Cittadini (iniziato alla Serenissima Gran Loggia d'Italia, secondo Fracassi, che non adduce però alcuna prova di tale asserzione e nulla aggiunge a quanto scrisse nel 1950 Michele Terzaghi in “Fascismo e Massoneria”).

Dunque su ciò che davvero avvenne nelle ore decisive siamo ancora ai punti interrogativi.

 

Una “marcia” per soli maschi

E su chi rimase a margini?

Il grande assente nella narrazione della scena italiana sulla fine di ottobre del 1922 furono le donne. La sera del 29 Rachele Guidi Mussolini preparò la valigia al marito Benito in partenza da Milano per Roma. Alla Stazione il duce incontrò la sua Ninfa Egeria, Margherita Sarfatti. Ma le due poi disparvero. Non se ne trova alcuna immagine nelle opere celebrative della “marcia” quale premessa logico-cronologica della “Rivoluzione fascista” e del governo che ne scaturì.

Nella narrazione (e non solo lì, s'intende) la “marcia” risultò un'impresa esclusivamente maschile. Tre brevi considerazioni al riguardo. È ormai pacifico che il nerbo degli “squadristi” arrivava dagli Arditi, il corpo di élite approntato sin dall'estate 1917 (mesi prima di “Caporetto”) per operazioni che richiedevano massima preparazione fisica e sprezzo della vita. Ne allestirono di analoghi gli eserciti degli altri Stati in lotta, ma gli italiani primeggiarono. Nessuno prese in considerazione che i loro reparti potessero comprendere donne, escluse dal “servizio militare”. Il benemerito Corpo della Croce Rossa, nel quale le volontarie furono superiori a ogni encomio, aveva compiti del tutto diversi. In secondo luogo, per natura e scopi, le “squadre” furono formate da militi che venivano chiamati all'azione “ad nutum” dei superiori gerarchici mentre erano radunati nei loro “covi”, nelle trattorie o a casa, armati alla bell'e meglio: moschetti, revolver, bastoni, il “santo manganello”. Le donne badavano ai fornelli.

Il Regolamento di disciplina per la Milizia fascista non lascia dubbi. “Il Partito fascista è sempre una milizia; la Milizia fascista è al servizio di Dio e della Patria (silenzio sul Re, NdA). La sua veste soldatesca è intesa a donare all'Italia una nuova virilità maschia […] Il Milite fascista conosce soltanto doveri […] Il Milite ha una sua morale. La morale comune, quella dal volto famigliare, dal volto politico, dal volto sociale, prismatica, faccettata, a larghe maglie, non serve al milite fascista. L'onore per lui, come per i cavalieri antichi, è sempre al di sopra della legge scritta e formale”. Per chi si batteva il “Caballero andante”? L'Amata manco sapeva della sua esistenza. Era lui a “immaginarla” e a battersi per avere l'onore del suo sorriso.

La “questione femminile” è fra le differenze profonde tra il fascismo e d'Annunzio, che consegnò la sua visione del mondo alla Carta del Carnaro, scritta dal sindacalista repubblicano Alceste De Ambris ma da lui integrata nei passi qualificanti. La vita quotidiana di Fiume, dall'impresa di Ronchi alla sua tragica conclusione, registrò un flusso continuo di presenze femminili, come di maschi che vi accorsero anche perché vi vigeva il divorzio. Ma fu la Carta a proclamare la completa parità giuridica dei cittadini a prescindere anche dal sesso.

Lo squadrismo fascista si arrestò molto molto prima. D'altronde doveva scegliere tra il “libero amore” (predicato dai socialisti e praticato dagli squadristi) e il sostegno della Chiesa cattolica in un'Italia la cui legislazione solo nell'estate 1919 fece qualche passo avanti a beneficio della posizione giuridica della donna.

La conferma balza evidente dalle celebrazioni ufficiali della “Marcia”. Nei cinque volumi della “Storia della Rivoluzione fascista” (saccheggiata e di rado citata nei libri recentemente comparsi sul 1922) Giorgio Alberto Chiurco inserì appena tre fotografie con donne sulle centinaia e centinaia disseminate nell'opera. In una compare un'anonima floreale signora alla sinistra del gerarca di terza fila Guido Pighetti all'inaugurazione del fascio di Arrone, in provincia di Terni. La seconda ritrae il fascio femminile di Roma capitanato da Piera Fondelli, che nel 1921 ebbe segretaria politica Rosa Bocco, poi Jolanda Pagni e contò nelle sue file Emilia Carreras, Corinna Consorti, Bianca Luisa Rossi e Ines Donati. Nata a Sanseverino Marche nel 1900, Donati era meritevole di speciale memoria. Nazionalista dal 1919, allieva dell'Istituto Superiore di Belle Arti, nota nel quartiere di Trastevere come «la Fascista, galoppina e propagandista nelle elezioni amministrative e politiche, tra mille pericoli, si era acquistata fama di eroina, fra i più fieri squadristi, in mille azioni, spedizioni e dimostrazioni, tra le quali anche quella di Ravenna nel 1921» (Chiurco). Arrestata per aver schiaffeggiato il deputato socialista e poi comunista Della Seta, ai suoi occhi colpevole di ingiurie contro la Patria, Donati subì varie aggressioni, tanto da essere solitamente scortata al rientro nella Casa Famiglia di Santa Ruffina ove era ospitata dalle suore. “Profondamente femminile”, ma per la sua “attività più che virile” meritò encomi e due medaglie di benemerenza. Quasi unica donna presente tra i “marciatori per Roma”, malata di tubercolosi si spense il 3 novembre 1924, “quasi col morire dello squadrismo”.

Donati aveva presso parte anche alla spedizione per cacciare i “rossi” dal municipio di Falconara Marittima, vividamente descritta dal marchese Dario Colucci: «Alle 16 è venuta una squadra di fascisti; erano circa 25 con una donna. Banda curiosa. Camicie e berrette nere. Uno era con una tunica celeste. Uno aveva un elmetto di ferro. Un altro aveva un moschetto da cavalleria. Tutti con clave e bastoni nodosi inverosimili. Portavano una bandiera tricolore e si sono annunciati con spari di revolver e canti. I socialisti di qui sono scappati». Terminata l'“impresa” (devastazione del negozio di un comunista e incendio del circolo dei cacciatori) se ne partirono per Ancona.

Terza donna ammessa nel Pantheon della “rivoluzione fascista” figurò Edda Mussolini fotografata a Villa Torlonia alla destra del padre, a regime instaurato: una delle tante immagini del “duce” a cavallo, inginocchiato dinnanzi al Sacello del Milite Ignoto, in uniforme di primo ministro, violinista, “rurale”, impegnato nella battaglia del grano e “sportman” (sic!), in posa con la lama sulla spalla.

Plebiscito di adesioni e silenzio delle “opposizioni”

Nella “marcia” del 31 ottobre 1922, mossa dal Parco di Villa Borghese/Piazza del Popolo alla volta di Vittoriano, Quirinale, Stazione Termini, banda musicale di Roma alla testa, alle camicie nere si mescolarono le azzurre dei nazionalisti e le rosse di fervorosi garibaldini.

Grande assente nelle narrazioni antiche e recenti della crisi di fine ottobre 1922 è l'“opposizione”, di cui nel Centenario poco si è scritto. Sotto silenzio rimane anche il “plebiscito” di telegrammi augurali, messaggi e lettere di plauso puntualmente pubblicati dal quotidiano mussoliniano “Il Popolo d'Italia”: senatori e deputati non ancora e persino mai intruppati nelle file del PNF e un lungo elenco di notabili italiani e stranieri, compreso il presidente del governo del Montenegro, artisti (Medardo Rosso), scrittori (Gino Piva, figlio naturale di Giosue Carducci e Carolina Cristofori, Annie Vivanti), i Crespi, i Pirelli, Bonaldo Stringher, Gabriellino d'Annunzio, un profluvio di sindaci, circoli, enti, associazioni... e il medico di fiducia di Mussolini, Ambrogio Binda, massone.

Al coro si unì anche il comitato centrale dei Fasci repubblicani italiani, “saldamente attaccati alle dottrine di Giuseppe Mazzini, santo dei santi” dal quale “ancora molto debbono attendere le generazioni presenti e future”, fieri di tributare riconoscenza al Duce. Altrettanto fece il 1° novembre la direzione centrale del Partito liberale italiano, che telegrafò al generale Cittadini la «profonda commossa ammirazione verso il Sovrano, che, continuando la gloriosa tradizione della sua dinastia, ha saputo suscitare dalla tragica situazione presente i nuovi destini d'Italia».

E le “sinistre”? Per i socialisti (che proprio alla vigilia della “marcia” registrarono l'ennesima scissione tra Psi e i Socialisti unitari capitanati da Filippo Turati e da Giacomo Matteotti) si pronunciò Pietro Nenni. Il crollo della democrazia parlamentare riguardava i borghesi e lasciava indifferenti gli apostoli della lotta di classe. Opinione condivisa dai comunisti. Nel silenzio dei partiti e dei gruppi parlamentari dell'Estrema, con grande stupore di Mussolini e dei quadrumviri, anche i sindacati tacquero: sia l’Alleanza del lavoro che a fine luglio aveva promosso il fallimentare “sciopero legalitario”, “Caporetto delle sinistre” come subito intuì Turati, sia la Confederazione generale italiana del lavoro che raccomandò: «Gli operai si mantengano calmi, sereni e fidenti nel loro immancabile avvenire. Soltanto gli scriteriati fanfaroni comunisti hanno potuto pensare ad una partecipazione delle forze proletarie ad un conflitto che non le interessava direttamente.» D'altra parte sino alla mattina del 30 ottobre Mussolini intendeva conferire il ministero del Lavoro al socialista Gino Baldesi, cancellato all'ultimo minuto su pressione della Confindustria, contraria a una maggioranza troppo variegata e quindi incoerente. Se il nuovo governo costituiva una svolta doveva mostrarlo anche nella sua composizione, esclusivamente di “costituzionali”, di quelle forze che sin dal 1920 Giolitti aveva accorpato nei “blocchi nazionali” in risposta all'occupazione delle fabbriche e all’incessante minaccia di quanti volevano “fare come in Russia”.

 

E il Re? La “normalizzazione”

Nell'ampia produzione saggistica si è scritto poco e in termini elusivi circa il ruolo svolto da Vittorio Emanuele III, che rimane il grande “assente” nella narrazione del 1922, anche se fu proprio lui a riportare nei binari statutari la crisi extraparlamentare. È del tutto riduttivo e infondato asserire che sia stato Facta a chiedergli di rinunciare «alle sue divertenti galoppate» a San Rossore (Fracassi, pp. 224 e 246) per seguire dal Quirinale il corso della crisi. Infatti, da settimane il re chiedeva invano a Facta di convocare il Parlamento. “Latitante” non fu il sovrano ma il governo che da un lato, con scelte politiche, legò le mani all'Esercito (perfettamente in grado di bloccare l'eversione secondo i piani approntati e attivati dal generale Emanuele Pugliese) e, dall'altro lato, propose il salto nel buio dello stato d'assedio quando non v'era più alcun motivo di ricorrere alla forza ma occorreva cercare una soluzione politica, come appunto avvenne.

Con l'insediamento del governo risultò chiaro chi aveva vinto e chi ne usciva sconfitto.

Il 1° novembre 1922 Mussolini aprì la prima seduta del governo da lui presieduto scandendo: «L'esodo dei fascisti da Roma è quasi compiuto. La situazione va normalizzandosi rapidamente in tutta Italia. Conto che entro domani tutto il Paese sarà tranquillo». La “smobilitazione” iniziò il 30 ottobre: «Il fascismo italiano è troppo intelligente per desiderare di stravincere». Era la fine dello “squadrismo”. Nessuno dei “quadrumviri” venne chiamato al governo. Cesare Forni, che aveva avuto il comando di varie “legioni”, finì due volte al bando dal partito. Il sindacalismo fascista fu inquadrato nel Consiglio nazionale delle corporazioni guidato da Edmondo Rossoni (che si affrettò a farsi iniziare massone nella Gran Loggia d'Italia), in salmo responsoriale con il “fratello” Gino Olivetti, dal 1906 segretario generale della Lega industriale di Torino, e Stefano Benni. Nel frattempo il sottosegretario alla Pubblica istruzione, Dario Lupi, massone del GOI, ordinò che nelle scuole venissero immediatamente collocati il crocefisso e la fotografia del re.

In conclusione, su quanto avvenne e non avvenne nell'ottobre 1922 ancora molto va documentato, scritto e fatto capire, al di là dei luoghi comuni che continuano ad avvolgere il varo di un governo che tra i 17 e il 27 novembre ottenne il pieno favore delle Camere. Ma forse è saggio lasciare che il Centenario sfumi sull'orizzonte, evocatore di umori atrabiliari che, anche per la nascita del governo ora in carica, poco hanno a che fare con la storiografia.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 30/10/2022