La Cina non è vicina, ma è qui in mezzo a noi!

Cosa ci fanno i poliziotti cinesi in Italia?

Negli ultimi giorni al centro della cronaca, non solo italiana, si discute del presunto caso di una rete di centri di polizia cinesi attivi in diversi Paesi nel mondo. Secondo un rapporto di Safeguard Defenders, una Ong con sede a Madrid, la rete si comporrebbe di oltre 100 unità in almeno 53 Paesi sparsi nei vari continenti: 11 sarebbero ospitati dall'Italia. Il loro scopo sarebbe quello di sorvegliare i connazionali presenti all’estero. Ma  la portata non sarebbe così limitata. Sudditanza dei nostri governi o spregiudicata malafede dei cinesi?

Sarebbe opportuno approfondire, se l’attività di quelle centrali, pronte persino a rapire i residenti cinesi, fosse a conoscenza dei nostri governi o se, invece, il loro lavoro si svolgesse dietro la cortina di intese apparentemente innocue, ma proficue.

Nell’ambito di queste ipotesi i veri buchi neri sono due accordi firmati con Pechino.

Il primo è il Memorandum sui «pattugliamenti congiunti» di polizia siglato a Pechino il 27 aprile 2015 dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e dall’omologo cinese Wang Y. Al centro di quel memorandum vi sono la lotta a terrorismo, criminalità organizzata, traffico di migranti e tratta di esseri umani.

La prima applicazione dell’accordo avviene, però, in campo turistico con la presenza di agenti cinesi in divisa nelle città d’arte italiane. «Per noi italiani il focus di quell’intesa – ricorda una fonte diplomatica italiana attiva a Pechino in quel periodo – era attirare più turisti cinesi per sviluppare un settore in cui ci sentivamo sopravanzati da Francia e altri paesi europei». Ma i cinesi ne hanno indebitamente approfittato?

L’ex ministro Gentiloni interpellato da il Giornale, fa lo scaricabarile e suggerisce «di rivolgersi a Farnesina o Viminale». Stando a «Safeguard Defenders» le autorità cinesi sarebbero, invece, le prime a confermare che gli accordi sui pattugliamenti hanno «facilitato» l’apertura dei centri iniziata a Milano nel 2016.

Dunque i primi responsabili della disinvoltura con cui abbiamo assecondato le esigenze repressive di Pechino sarebbero i governi a guida Pd pronti, dal 2014 in poi, ad accontentare ogni richiesta del Dragone in cambio di accordi economici e commerciali. Lo proverebbe il protocollo «rafforzato» firmato il 24 luglio del 2017 dall’allora sottosegretario agli interni Filippo Bubbico e da Xia Chongyuan, suo omologo al ministero per la Pubblica Sicurezza cinese.

Di quell’accordo «rafforzato» non si conosce ancora oggi il testo. Fonti del Viminale fanno capire, ricordando un periodo segnato dalle stragi dell’Isis, che il «rafforzamento» riguarderebbe questioni legate al terrorismo. In particolare il rischio che i turisti cinesi finissero nel mirino dei fondamentalisti uiguri legati ad Al Qaida e Isis.

Ma per altre fonti d’intelligence quel rischio risultava «improbabile» e serviva piuttosto da scusa per coprire l’infiltrazione nel nostro paese della polizia cinese. Un’infiltrazione a cui i governi Pd avrebbero dovuto opporsi almeno nel nome dei diritti umani.

La controparte di Bubbico guidava, infatti, un ministero della Pubblica Sicurezza responsabile, già allora, della deportazione della minoranza musulmana degli uiguri. L’indifferenza con cui i governi Pd guardano alla firma degli accordi sulla sicurezza non è diversa da quella con cui, negli stessi anni, assistono alla penetrazione cinese nell’economia italiana.

Fra tutte spicca l’acquisto del 35% di Cdp Reti Spa, un’azienda del gruppo Cassa Depositi e Prestiti da cui dipendono investimenti strategici per lo sviluppo delle infrastrutture nei settori del gas e dell’energia elettrica. E nello stesso periodo assieme a Reti Cda finiscono in bocca al Dragone aziende storiche come le lavatrici Candy, le moto Benelli, le barche del gruppo Ferretti e le cucine Berloni. Un saccheggio davanti al quale i governi Pd non battono ciglio.

Non andrà certo meglio con il governo Conte 1 pronto persino a incrinare i rapporti storici con l’alleato Usa, pur di garantirsi la firma del Memorandum sulla Via della Seta. Ma l’indifferenza non risparmia neppure alcuni ministri del un governo Draghi assai attento a limitare l’infiltrazione cinese nei settori dell’economia e della tecnologia.

Quando lo scorso settembre sono emerse le prove sull’attività a Prato di un centro della polizia cinese, il Viminale, guidato da Luciana Lamorgese, ha prontamente precisato che la centrale non desta «particolare preoccupazione». Ma oggi la musica sta cambiando. Il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, rispondendo al question time alla Camera, ha detto che

"presso il Dipartimento della pubblica sicurezza non risulta alcuna autorizzazione in ordine all'attività" di centri cinesi per il disbrigo di pratiche in Italia e "assicuro che le forze di polizia, insieme all' intelligence, attueranno un monitoraggio con la massima attenzione, io lo seguirò personalmente e non escludo provvedimenti sanzionatori in caso di illegalità riscontrate".

Questa vicenda, ha premesso il ministro

"non ha alcuna attinenza con gli accordi di cooperazione di polizia ed i pattugliamenti congiunti tra Italia e Cina che si sono svolti dal 2016 al 2019".

Rimaniamo in attesa di sviluppi

 

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Articolo pubblicato il 11/12/2022