La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

La C̣ca dell’Aurora (1878)

A Torino, lunedì 22 luglio 1878 i lettori della Gazzetta Piemontese prendono visione del consueto bollettino di guerra riguardante la domenica appena trascorsa. Sotto il titolo Due morti e quattro feriti! possono leggere che

Ieri sera, in un’osteriuzza della regione Maddalene, presso l’Aurora, ebbe luogo fierissima rissa fra alcuni barabba (sembra per isfogo di precedenti rancori). Si giocò di coltello e due dei rissanti rimasero cadaveri: sono certi Gio. Gariglio, di 18 anni, e G.B. Zucco, d’anni 28. Tre, gravemente feriti, furono ricoverati all’Ospedale Mauriziano. Un altro, certo Crivello Felice, fu talmente crivellato di ferite che il medico, dopo averlo visitato e soccorso, giudicò impossibile il farlo trasportare. Fu messo sopra un letto dell’osteria senza alcuna speranza di tenerlo vivo. A quest’ora dev’essere morto.

Alla ricostruzione di questo grave fatto di sangue è opportuno premettere alcune brevi indicazioni circa i luoghi citati dall’articolo. Al tempo, l’Aurora è un’area poco antropizzata di Torino, compresa tra il fiume Dora e il muraglione della Cinta Daziaria (oggi sostituita dai corsi Vigevano e Novara). L’Aurora ha come assi i corsi Vercelli e Ponte Mosca (oggi corso Giulio Cesare) e prende il nome dalla cascina Aurora, collocata in termini odierni in corso Giulio Cesare angolo Corso Emilia, dove oggi si trova la palestra McFIT Torino Aurora.

La Cinta Daziaria si apre con la Barriera di Milano, localizzata in piazza Crispi, e poche costruzioni sono agglomerate lungo l’attuale corso Vercelli. La Borgata delle Maddalene si trova in corrispondenza della Barriera dell’Abbadia, all’incrocio di corso Novara con corso Palermo, al tempo soltanto in progetto. Le Maddalene si trovano lungo l’attuale via Aosta, primo tratto dell’antica via delle Maddalene che conduce fino alla Manifattura Tabacchi e al Borgo Regio Parco.

Nella zona si trovano molte cascine, oggi scomparse. L’osteria dove è avvenuto lo scontro è denominata Osteria dei Pesci vivi, senza indicazioni più precise sulla sua collocazione.

Le indagini accertano che verso le 9 della sera di domenica 21 luglio 1878, Agostino Dughera, Giuseppe Verna, Pietro Ottino e Pietro Anselmo, provenienti dalla località Maddalene, stanno tornando a Torino, come si dice al tempo, quando queste aree periferiche, non ritenute torinesi a pieno titolo, sono tenute ben distinte dal centro cittadino.

Presso l’Osteria dei Pesci Vivi i quattro sono assaliti da un gruppo di giovinastri.

Tre riescono a fuggire, meno Dughera, che dapprima viene colpito da uno schiaffo che gli viene dato da un giovane sui quindici anni e poi assalito da altri e colpito da una coltellata al petto abbastanza grave. Quando Dughera chiede pietà, uno degli aggressori lo guarda bene in faccia, poi trattiene i compagni, dicendo «Lasciatelo, non è delle Maddalene».

A queste parole, gli assalitori si allontanano. Dughera viene raccolto dai suoi compagni, tornati indietro, e portato all’ospedale.

Ma cosa significa la frase «Lasciatelo, non è delle Maddalene»?

Gli assalitori sono giovani della regione Aurora che covano da tempo un forte odio per i giovani delle Maddalene, originato dal fatto che questi non li hanno ammessi a una loro festa da ballo. Inoltre, uno degli accusati, Giovanni Rossotti, corteggia la giovane Marietta Volpe delle Maddalene, ma è malvisto dai familiari della ragazza, i quali vorrebbero interrompere la relazione.

Quella sera i giovani dell’Aurora vogliono sfogare il loro malanimo verso i rivali delle Maddalene.

La prima aggressione si è risolta col ferimento di Dughera. Ma i giovani dell’Aurora non sono soddisfatti. Armati di bastoni e di coltelli, continuano a passeggiare con contegno minaccioso per la strada e il borgo delle Maddalene, cercando di attaccare lite con ogni residente che incontrano. Ma questi non si fanno coinvolgere.

Rossotti con la sua banda si reca all’Osteria dei Pesci Vivi - dove ci sono alcuni abitanti delle Maddalene - si siedono a due tavoli diversi e iniziano a insultarsi a vicenda: fingono di litigare nella speranza che i presenti intervengano come pacieri e avere così l’occasione di attuare i loro sanguinosi propositi. Invece, quelli delle Maddalene abbandonano l’osteria. È un contrattempo e i giovinastri si accaloravano sempre di più. Restano ancora per poco nell’osteria e poi escono. Appena usciti, l’oste Chiappero, che intuisce la pericolosa situazione, si affretta a chiudere bottega. Ma pochi istanti dopo sente bussare alla porta e vede quattro giovani delle Maddalene che chiedono di entrare. Sono Giovanni Battista Zucco, Giovanni Gariglio, Giovanni Rena e Felice Crivello.

L’oste apre ai quattro amici, che entrano, bevono qualche litro di vino, ma a un tratto sentono un trambusto fuori dell’osteria: Rossotti e compagni stanno simulando una rissa fra loro e sono tanto convincenti che i quattro giovani  pensano bene di intervenire per calmarli.

Il primo che esce dall’osteria è Giovanni Rena, ma non si è ancora affacciato che viene assalito dai traditori e due coltellate lo feriscono al dorso. Rena invoca soccorso e allora esce dall’osteria Felice Crivello. Anche questo viene colpito con i bastoni, con i coltelli e calpestato...

Esce Giovanni Gariglio e viene quasi subito steso a terra morto, esce Giovanni Battista Zucco e cade accoltellato a morte anche lui. L’oste e la sua famiglia, terrorizzati, si barricano mentre i giovinastri, non ancora soddisfatti dell’eccidio compiuto, urlano «Uscite, uscite, che faremo la pelle anche a voi, siamo capaci di attendervi fino a domattina!». Sono tanto rabbiosi e inebbriati dal sangue che, nel furore della mischia, Rossotti si è buscato una coltellata da uno dei suoi compagni!

Finalmente, dopo l’allarme dato dai compagni di Dughera, arrivano guardie municipali, poliziotti, carabinieri e il medico municipale di guardia al Palazzo Civico. Si affrettano, ma giungono soltanto per raccogliere i morti e soccorrere i feriti. Gli aggressori sono ormai tutti scomparsi.

Già al mattino seguente iniziano gli arresti. Rossotti è catturato alla sera, dopo che è andato all’Ospedale Mauriziano per farsi medicare la ferita, guaribile in 25 giorni. Alla fine delle indagini sono finiti in prigione questi sette giovanotti dell’Aurora:

Giovanni Rossotti, detto Gioan dla talma, di 21 anni, tornitore;

Stefano Vota, 20 anni, fabbro ferraio;

Giovanni Serafino, 25 anni, conciatore;

Giovanni Cagna, 16 anni, conciatore;

Carlo Suardi, 22 anni, conciatore;

Luigi Arduino, 24 anni, conciatore;

Giovanni Mosca, 29 anni, falegname.

Sono accusati del ferimento Dughera, del mancato assassinio Rena e Crivello (che è riuscito a cavarsela, malgrado le funeste profezie del cronista della Gazzetta Piemontese!), e dell’assassinio Zucco e Gariglio.

Il processo a loro carico inizia il 27 marzo 1880 alla Corte d’Assise di Torino. Le cronache sono firmate con il nome de plume di Proculejo, da un cronista a noi sconosciuto.

Proculejo così presenta gli accusati del processo:

Siamo in pieno spettacolo di Barabbismo. Sette imputati che siedono dietro le inferriate. Ahimè, che pubblico!... Sette imputati, sette individui tutti giovani [...] E quel che oscura le tinte del processo si è che quegli individui non si sono già macchiati di sangue in un momentaneo bollore di rissa, o di amore, o di guadagno, ma per puro odio, per semplice desiderio di vendetta... sono veri barabba!

In questa ottica, Proculejo definisce i giovani come componenti della Còca dell’Aurora, rievocando le associazioni di giovani teppisti che hanno turbato la tranquillità di Torino ancora Capitale del Regno di Sardegna, a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento.  

Al dibattimento non mancano prove a carico degli accusati. Crivello identifica Rossotti come suo assalitore; Zucco prima di morire ha indicato Arduino e Rossotti; Dughera riconosce nel giovane Cagna quello che lo ha schiaffeggiato e in Serafino quello che ha detto «Lasciatelo andare, non è delle Maddalene»; Mosca è accusato dallo stesso Rossotti, il quale sostiene di essere stato ferito da lui perché voleva allontanarsi dalla mischia. Vota tenta inutilmente di provare un suo alibi.

Gli imputati negano le accuse dei numerosi testimoni gettandosi la colpa l’uno a carico dell’altro, assecondati dai loro avvocati in questo poco felice sistema di difesa: 

I sette messeri sono difesi da altrettanti avvocati giovani e di belle speranze, ma per la necessità della difesa vanno d’accordo tra loro come gli accusati. Se non fosse doloroso, ci sarebbe da ridere.

La sentenza compare sulla Gazzetta Piemontese di venerdì 6 febbraio 1880.

In seguito al verdetto dei giurati, sono dichiarati tutti colpevoli tranne Carlo Suardi, dichiarato innocente da tutte le accuse e subito messo in libertà.

In base al verdetto, la Corte condanna: Giovanni Rossotti ai lavori forzati a vita (se fosse stato maggiore dei 21 anni, avrebbe dovuto essere condannato a morte); Giovanni Mosca, ai lavori forzati a vita; Giovanni Serafino, ai lavori forzati per 20 anni; Luigi Arduino, ai lavori forzati per 20 anni; Stefano Vota, ai lavori forzati per 15 anni; Giovanni Cagna, al carcere per 3 mesi, già scontati con il carcere preventivo.

Si conclude così con condanne esemplari questo episodio di teppismo giovanile che ha fatto rivivere in una zona allora periferica di Torino atteggiamenti più tipici delle zone rurali, dove esistono consolidate rivalità e inimicizie tra i vari comuni e anche tra le borgate dello stesso paesino. Un fatto sicuramente preoccupante, anche per la giovane età dei protagonisti, indicati come giovani lavoratori, che hanno dato prova di una aggressività e di una ferocia veramente inaspettate.

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Articolo pubblicato il 13/01/2023