La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Il delitto dell’Epifania del 2000 (seconda e ultima parte)

Leggi qui la prima parte.

Si torna a parlare del delitto dell’Epifania il 23 maggio 2000 quando La Stampa riporta che Vincenzo Triggiani è stato ucciso da un fortissimo calcio allo sterno che gli ha sfondato la cassa toracica e provocato la morte, tutt’altro che istantanea, per emorragia interna.

Sul particolare del calcio al petto inizialmente si è mantenuto il riserbo.

Si conferma l’ipotesi che Triggiani doveva subire una lezione, non essere eliminato. Gli assassini maldestri volevano far sparire le loro tracce, così hanno scelto un posto appartato, ma non troppo, lungo la tangenziale. Hanno buttato un po’ di benzina all’interno, senza la meticolosità dei veri professionisti, così il cadavere è stato rapidamente identificato.

Dopo aver invano battuto le piste di un delitto passionale, si pensa ora a una punizione, ma nell’ambiente di lavoro.

Triggiani era infatti disposto a prolungare l’orario di lavoro, anche di quattro ore senza retribuzione, visto che la Greco non pagava gli straordinari. Si accontentava dell’apprezzamento dei superiori e da capo-squadra era diventato capo-area nella zona di Chieri.

Si era tirato addosso il risentimento di qualcuno?

La risposta affermativa a questa domanda si legge su La Stampa del 5 agosto 2000, già in prima pagina. I Carabinieri hanno arrestato il presunto assassino di Vittorio Triggiani: un operaio della Greco, licenziato per causa sua, che lo ha ucciso per vendicarsi: Domenico Faragò, di 25 anni, amico e collega di Triggiani, residente con i genitori e una sorella in via Nizza 142.

Sempre Angelo Conti narra come i Carabinieri sono risaliti al DNA dell’assassino, con una indagine che «sembra uscita, pari pari, dalle pagine di un libro di Kathy Reichs, l’antropologa forense dell’Università del North Carolina».

Il Nucleo Operativo dei Carabinieri di Torino ha formulato ipotesi che hanno trovato la conferma del Centro Investigazioni Scientifiche (CIS) di Parma. L’assassino è stato scoperto grazie a un guanto di lattice, del tipo usato dagli addetti alle pulizie, indossato subito prima dell’aggressione, per evitare di lasciare impronte digitali. L’omicida, subito dopo aver percosso e ferito mortalmente Triggiani, si è strappato i guanti dalle mani. Alcuni frammenti di guanto, due strisce di pochi centimetri, sono cadute sul terreno. Il resto di quel guanto è stato invece gettato sul cadavere e, quando la Focus è stata incendiata, è bruciato nel rogo. Ma non è scomparso del tutto, l’ispessimento del lattice che stringe il guanto al polso ha trattenuto parte della gomma semi-carbonizzata.

I Carabinieri della Sezione Rilievi sono riusciti a recuperare i frammenti di guanto caduti a terra sul luogo dell’aggressione. Hanno anche ritrovato, accanto al corpo bruciato di Triggiani, il resto del guanto carbonizzato. Tutti i pezzetti vengono spediti a Parma

Qui, sul lattice vengono individuati un pelo e tracce di sudore all’interno e di sangue all’esterno. Si ottiene così il DNA della persona che li indossava, dal pelo e dal sudore, e di quella che ne è stata vittima, dal sangue. Il DNA del sangue è quello di Triggiani. I frammenti appartengono a un guanto indossato da chi lo ha colpito, il suo assassino.

Sì, ma dove cercarlo? È entrata in gioco la bravura degli investigatori del Nucleo Operativo di Torino: dopo aver ristretto la rosa dei possibili assassini a una decina di persone, hanno iniziato a pedinarle, per ottenere il minimo materiale organico indispensabile per le comparazioni.

Dieci tazzine di caffè, usate dai sospettati in vari bar della città, sono state recuperate, di nascosto, dai Carabinieri un attimo dopo che gli indiziati avevano finito di sorseggiare la bevanda. Sul bordo era presente una minima traccia di saliva, utile ad analizzare il loro DNA.

Quando uno di questi è risultato identico a quello trovato nel guanto, il responsabile del CIS, maggiore Luciano Garofano, ha avvertito il collega di Torino che «Faragò è positivo».

L’assassino di Triggiani ha finalmente un nome.

Inizialmente Faragò nega, la sua famiglia tenta di scagionarlo, ma lui confessa e fa il nome dei suoi complici: Roberto Cannata, di 28 anni, amico d’infanzia di Triggiani, abitante anche lui in via Capuana 2, e Marcello Michele Gatto, sposato e abitante ad Airasca, arrestati sabato 5 agosto.

Tre bravi ragazzi, tutti incensurati, tutti dipendenti della Greco Servizi.

Il caso è stato risolto dopo sette mesi. Movente la vendetta: Triggiani, onesto e scrupoloso, ha segnalato ai superiori della Greco comportamenti scorretti di Domenico Faragò con una nota negativa che gli ha fatto perdere il posto di capo-area e in seguito ha portato al licenziamento.

Si parla anche di un furgone della ditta affidato a Cannata e Gatto che aveva subito un incidente al di fuori dell’orario di lavoro: Triggiani non aveva giustificato il sinistro e il collega aveva dovuto pagare di tasca sua la riparazione. Viene anche fuori che un pettegolezzo di Triggiani avrebbe causato la rottura di Faragò con la sua fidanzata. Tutto questo per spiegare il malanimo dei tre nei suoi confronti. Cannata, abitante in via Capuana, avrebbe informato gli altri due dei movimenti di Triggiani, mentre a picchiare sono stati Faragò e Gatto, il cui DNA viene trovato sui reperti acquisiti dall’auto. Il calcio mortale sarebbe stato sferrato da Gatto. Il condizionale è d’obbligo per l’assenza di testimoni.

Per incendiare l’auto col corpo dell’amico hanno scelto una località nei pressi di una banca dove Triggiani e Faragò avevano fatto le pulizie!

La soluzione scientifica di questo caso inizialmente viene accolta quasi con stupore dai parenti della vittima. I genitori di Triggiani ricordano che Domenico Faragò era amico del figlio, che insieme andavano al lavoro e uscivano alla sera e, per un certo periodo, sono stati fidanzati con due sorelle. Triggiani aveva fatto assumere Faragò dall’impresa di pulizie e questi al funerale aveva fatto le condoglianze e abbracciato il padre di Vincenzo che chiamava abitualmente «Signor Triggiani».

Inizialmente i colleghi di lavoro dichiarano tutto il loro scetticismo. L’accusa trova però conferma nelle confessioni di Faragò, Cannata e Gatto, i quali sostengono che non intendevano uccidere Vincenzo, ma soltanto dargli una lezione: secondo loro, da quando era diventato capo, li aveva traditi. Ma la lezione è finita in dramma.

Proprio questo caso, che all’inizio ha destato critiche per l’inopportuno spostamento del cadavere dal luogo del ritrovamento, ha trovato la soluzione grazie a un oculato esame del sito dell’aggressione e al ritrovamento del frammento di guanto. Così Angelo Conti può di nuovo citare Kathy Reichs non più come elemento di critica, ma di paragone, un paragone che non fa certo sfigurare gli investigatori nostrani, ovvero i Carabinieri della Sezione Rilievi del Nucleo Operativo di via Valfrè!

Concludiamo il racconto con un breve riassunto delle ulteriori vicende.

Faragò tenta il suicidio nella notte dell’11 dicembre 2000 alle Vallette. Appare come il più fragile dei tre accusati.

L’inchiesta è conclusa (La Stampa, 25 febbraio 2001) e al 20 aprile il giornale riferisce un nuovo tentativo di suicidio di Domenico Faragò. Il 18 maggio vi è l’udienza del gip e il giorno seguente è affidata una perizia psichiatrica per accertare se Faragò sia compatibile con la detenzione.

Il 3 luglio 2001 si conoscono le condanne al processo dei tre, accusati di omicidio premeditato: 17 anni e 4 mesi a Faragò e Gatto, 13 anni a Roberto Canata. L’accusa ha chiesto l’ergastolo per tutti e tre. Faragò è ricoverato al repartino delle Molinette e il 7 luglio appare un appello della madre: «Alle Molinette impazzisce, meglio il carcere». L’11 aprile 2002 apprendiamo che le condanne sono state confermate in appello.

Chissà se Kathy Reichs ne è venuta a conoscenza e se ha pensato di farne rivivere alcuni elementi in qualche suo libro.

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Articolo pubblicato il 07/01/2023