Gli eventi ingombranti che la storia risorgimentale ufficiale relega nell’ombra

Il tentativo di golpe borbonico del 23 luglio 1861 a Napoli

La storia del Risorgimento Italiano ha dovuto inevitabilmente tenere conto della necessità politica di giustificare il difficile percorso che ha portato alla dichiarazione dell’Unità d’Italia. Un compromesso che, se era necessario per una narrazione finalizzata al progetto politico, nel contempo, mortificava la realtà storica del tempo, sminuendo o confinando nell’oblio quegli eventi che non erano funzionali al progetto politico stesso. Tuttavia, negare l’esistenza dei “fenomeni patologici, di violenza o di reazione”, che la società coinvolta negli eventi esprimeva con virulenza, non avrebbe impedito che questi generassero quegli effetti devastanti e non più estirpabili che, prima o poi, avrebbero ostacolato di proseguire nel progresso sociale e civile del neo Stato Unitario.

Conseguentemente molti eventi, che potevano fortemente contraddire le finalità risorgimentali stesse, sono stati ridimensionati o addirittura silenziati, per dare consistenza ad un percorso storico-retorico ufficiale e alternativo che potesse essere eroicizzato e pertanto reso più facilmente condivisibile dalla comunità nazionale.

Con questo non si mette in dubbio che la ricerca storica non sia stata a conoscenza degli eventi più “occultati” e che restano, in ogni caso, ostacoli insormontabili e contradditori rispetto alla “vulgata ufficiale”.

Tuttavia, queste “particolari conoscenze” sono state e continuano a restare oggettivamente confinate nei circuiti degli storici, dei ricercatori, dei cultori interessati a queste tematiche, ma che non sono a conoscenza del grande pubblico.

Infatti, molti mali attuali, che affliggono la nostra società e le istituzioni, sono ancora riconducibili ad aventi passati che, totalmente irrisolti, continuano a riprodurre, in chiave moderna, gli stessi fenomeni criminosi e devastanti dei tempi della dichiarazione dell’Unità d’Italia.

Forse riscrivere in modo intellettualmente onesto e non ideologico il “Risorgimento ufficiale” sarebbe un passo avanti per far conoscere e consapevolizzare la comunità nazionale sulle cause e gli ostacoli che hanno e che continuano ad impedire una vera unità nazionale.

A conferma di quanto sopra riportato, ritengo interessante e istruttiva la lettura di una un episodio tratto dal libro di Vito Di Dario “OH, MIA PATRIA- 1861 Un inviato speciale nel primo anno d’Italia” – Le Scie – Arnoldo Mondadori Editore, che riporto integralmente.

 

Napoli. La secessione di Napoli. Secondo tempo. Scena prima.

«Facevo parte della Congiura di Frisio, non mai per cospirare, ma solo per iscoprire e rivelare, volendo impedire che la Patria fosse dilaniata da una guerra fratricida». Con queste parole, Ettore Noli cominciò la sua confessione.

Era il 23 luglio 1861, centoventisettesimo giorno della proclamazione del Regno d’Italia.

Per tredici mesi Noli raccontò alla magistratura tutto quello che aveva visto e conosciuto, riempiendo decine e decine di pagine di interrogatori con nomi, date, fatti. Un diluvio di accuse, dal quale emerse l’intero progetto criminale dei congiurati: l’assassinio del generale Enrico Cialdini, luogotenente a Napoli e la immediata rivolta della città contro l’Italia.

Cinquant’anni, fisionomia da volpe, sguardo astuto, barba grigiastra e lunga sotto un naso adunco. Noli incominciò a parlare subito dopo l’arresto. La sua loquacità fu torrenziale, tanto da indurre il sospetto che fosse sottoposto a violenze fisiche durante gli interrogatori della polizia. In realtà l’avvocato, che aveva assunto il nome di battaglia di ufficiale Winter, conosceva molti retroscena del tentato golpe.

Nella Congiura di Frisio aveva il delicato incarico di tenere i rapporti tra il Comitato e la Corte Borbonica. E in questa veste più volte si era recato a Roma a riferire al re in esilio e ai generali del suo entourage. Dalla sua confessione emerge una chiave di lettura inquietante sulla rivolta che infestava le provincie meridionali e che veniva chiamata brigantaggio.

C’era una modesta villa a Napoli, detta di Frisio, poco prima di due trattorie e di altri villini, nella zona di Posillipo. La villa era frequentatissima.

Qui arrivavano i capi della resistenza borbonica. A colloquio con il generale De Gottedom, gran emissario di Francesco II nell’ex Regno, venivano ammessi vecchi nobili e ricche vedove.

Entravano ed uscivano prelati, come monsignor Bonaventura Cenatiempo, 45 anni, avvocato ecclesiastico presso il vescovo di Avellino, fisionomia placida, bocca grande su cui era perennemente scolpito un sorriso ironico, pessima fama di persona viscida presso nemici e compagni di strada; e come Domenico De Luca, ex gendarme, che stava mettendo in piedi la Compagnia della morte, una task force di 200 uomini pronti a tutto.

Nella villa erano di casa Giovanni Antonio Menghini, arruolatore di congiurati, Cornelio Roehr, cameriere di De Gottedom, Francesco De Angelis, 20 anni, ex garibaldino, e Giuseppe Terlizzi, ex funzionario alle poste che intercettava telegrammi e corrispondenza delle forze dell’ordine italiane. Qui si faceva ammirare dalle dame della nobiltà partenopea Achille Caracciolo, presunto conte, bello come un dio greco e dignitoso come un principe spagnolo: lo amava Santa Beretta, 45 anni, indovinatrice, medicona, per sua autodefinizione segretista.

Nella villa di Frisio De Gottedom, con l’aiuto di Emilio De Christen, francese, 26 anni, responsabile esecutivo della rivolta, aveva messo a punto un piano insurrezionale che in sole due mosse, attentamente preparate, doveva portare alla scacciata dei piemontesi dalla città.

L’inizio della sommossa era fissato per il 24 luglio. La prima fase, la più delicata, prevedeva l’assassinio del generale Enrico Cialdini. Da pochi giorni luogotenente di Napoli. Esecutori materiali del delitto sarebbero stati tre killer della camorra, i fratelli Fiore e Pietrantonio Saladino e Girlando Boccadoro, ai quali come acconto erano stati versati 129 ducati (circa 500 mila lire). Altro denaro era andato al contino siciliano che aveva provveduto a comprare due pariglie di pistole, pagando 57 ducati a pariglia e 8 ducati per le munizioni.

Le seconda parte del progetto insurrezionale, non meno importante, prevedeva che i cospiratori si ritrovassero, subito dopo l’uccisione di Cialdini, a Capodichino, per poi marciare alla volta di Napoli, battendo le strade del Terraglio (Albergo dei poveri), Foria, Largo delle Vigne. Era previsto anche un percorso alternativo per le strade di santa Teresa e la calata degli Studi.

Qui il popolo si sarebbe accodato ai ribelli, per scacciare definitivamente i piemontesi dalla città.

Un corpo di spedizione contro i briganti (i piemontesi, N.d.R.) guidato da Francesco I sarebbe giunto nella città liberata al più tardi il giorno 7 agosto. Per il 15 era fissata l’insurrezione generale: gli argonauti borbonici, come furono definiti dalla stampa risorgimentale, partiti da Malta, Civitavecchia e Marsiglia, sarebbero sbarcati in Sicilia e a Salerno, Baja e Pozzuoli per marciare verso l’ex capitale. Le bande dei ribelli intanto avrebbero operato un movimento di centralizzazione convergendo tra Avellino, Salerno e Napoli.

La rivolta era stata finanziata con il contributo dei simpatizzanti e con l’emissione di un prestito internazionale di 26 milioni. «Posseggo dei buoni di questo prestito», testimoniò il corrispondente de «La Perseveranza», «i quali essendo da 1 ducato a 100, sono a portata di tutti». Secondo le indagini delle forze dell’ordine italiane, tuttavia, gran parte della somma, ben 24 milioni, fu coperta nel sobborgo di S. Germain, in Bretagna, e nei dipartimenti meridionali della Francia. Mezzo milione arrivò da Marsiglia.

I furbi pentiti; gli ambigui infiltrati della polizia; le oscure connivenze di apparati della pubblica amministrazione; i legami internazionali; le inefficienze, più o meno colpevoli, delle forze dell’ordine; le confessioni ritrattate; le discusse sentenze; le misteriose fughe di prigionieri; le connivenze oscene tra terroristi e criminalità organizzata: tutti gli ingredienti dell’Italia dei misteri erano dunque presenti nella prima affaire postunitaria.

Era un avvio alla grande: tra i documenti rinvenuti nel corso dell’inchiesta giudiziaria fu trovata una lista di affiliati: elencava 1.190 adepti armati, 1.250 senza armi, 600 guardie doganali, e un centinaio di soldati di altre milizie.

Quando venne arrestato, la sera del 23 luglio, De Luca aveva con sé un coltello acuminato, un lasciapassare e un cartoncino su cui era disegnata la divisa della Compagnia della morte: tunica, e calzoni neri e berretto anch’esso nero su cui campeggiava il disegno di un teschio. De Luca fu il primo dei congiurati a cedere nelle mani della polizia. E divenne subito anche il primo pentito della storia d’Italia. Grazie alla sua immediata confessione, il delegato di pubblica sicurezza Cifarelli, la sera stessa, irruppe nella villa di Frisio, e, a poche ore dal via dell’insurrezione, arrestò un primo gruppo di congiurati, sventando il progetto criminale.

Monsignor Cenatiempo prima ammise le proprie responsabilità: precisò di aver ricevuto dalla signora Francesca Patrelli, sua penitente e confidente, 600 ducati destinati alla causa della restaurazione borbonica. Poi ritrattò, dichiarando di essere stato costretto alla confessione con la forza. Gli inquirenti comunque poterono accertare che egli aveva raccolto almeno 5000 ducati che erano stati consegnati a Girolamo Tortora, 34 anni, detto Barone, cassiere della Congiura, ex spia di gabinetto. Nei suoi anni migliori Tortora passeggiava seguito da un codazzo di guardie urbane. Quando incontrava dei liberali, veri o presunti, il cassiere di monsignor Cenatiempo li batteva con uno scudiscio. E strappava alla vittima i peli della barba, se non erano tagliati secondo una certa norma.

Per la Congiura di Frisio sarebbero state incriminate complessivamente 81 persone. Ma solo una parte dei congiurati fu aggregata alle patrie galere. La gran massa dei rivoltosi infatti riuscì a fuggire. Alcuni addirittura in maniera alquanto rocambolesca.

Lo smacco per le forze dell’ordine fu tale che il 27 luglio il generale Cialdini inviò una lettera stizzita al segretario generale del dicastero dell’Interno e polizia. «Signore», scriveva il luogotenente di Napoli, «nel modo di procedere dell’Autorità di P. S. in questi ultimi giorni ho avuto motivo di scorgere un po’ di mollezza. Appena scoperta la trama che ordivasi a Frisio era d’uopo far seguire immediatamente e contemporaneamente l’arresto di tutte le persone che risultavano gravemente compromesse nella congiura, affinché loro non si rendesse facile lo evadersi e così sottrarsi alle utili ricerche dell’Autorità politica. Stamane poi fui molto sorpreso della notizia avuta della fuga di uno fra i principali cospiratori, che dicendosi infermo, era guardato da due Guardie di P. S. È necessario che in cose di tanto momento si agisca con la massima energia e sveltezza e nel tempo stesso si usino tutte le più minute precauzioni.

Non volendo poi lasciare senza osservazioni la fuga del sopramenzionato cospiratore, la prego di voler far riconoscere chi ne ordinasse la custodia con due semplici Guardie e voglia tosto severamente punirlo. Ella vorrà farmi conoscere le circostanze tutte che accompagnarono la fuga predetta».

 

Come finì questa incredibile vicenda?

Praticamente nel nulla: la Corte d’Assise di Napoli il 7 agosto 1862 sospendeva la sentenza per Santa Beretta che rimandava ad altra sessione e condannava Bonaventura Cenatiempo, Girolamo Tortora, Emilio De Christen, Domenico De Luca e Achille Caracciolo alla pena di 10 anni di lavori forzati. E Francesco De Angelis alla reclusione per cinque anni. Inoltre, la Corte all’unanimità dichiarava Ettore Noli esente da pena e ne ordinava l’immediata scarcerazione. Il 25 novembre 1863 Tortora, De Christen, Caracciolo e De Luca beneficiarono di un indulto e vennero posti in libertà.

Monsignor Bonaventura Cenatiempo evase dalla prigione di Santa Maria Apparente nascondendosi in un grosso cesto di biancheria sporca.

Si inaugurava così il bel costume italico, per nulla risorgimentale, della beffa alla legalità, delle connivenze criminali e inconfessabili con i politici corrotti e le istituzioni inquinate, che hanno costellato la storia d’Italia fino ai giorni nostri.

Il dramma è che questa intollerabile e umiliante realtà sembra accompagnarci ancora per prossimo futuro.

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Articolo pubblicato il 07/01/2023