La Rhapsodie espagnole di Maurice Ravel, una pagina che contribuì a diffondere un’immagine più realistica del paesaggio e della cultura della Spagna.

Andiamo alla scoperta di uno dei massimi capolavori di Maurice Ravel, nei primi anni del Novecento

Se a partire dal XVIII secolo gli artisti e gli intellettuali europei iniziarono a provare un’attrazione irresistibile per l’Italia, nel corso dell’Ottocento iniziò a svilupparsi un interesse sempre maggiore per la Spagna, in questo caso soprattutto nell’ambiente culturale francese.

 

Rispetto al Bel Paese, che poteva contare su tesori artistici di inestimabile valore, sulla gloriosa tradizione classica e su un fertile paesaggio in cui – per dirla con Goethe – “fioriscono i limoni”, la Spagna accendeva la fantasia di molti con le sue atmosfere misteriose, la sua luce accecante, la scabra bellezza dei suoi panorami e l’architettura esotica degli antichi edifici moreschi.

 

Queste immagini spinsero parecchi compositori a scrivere opere ispirate a temi iberici, che però in molti casi finirono per scadere in semplici oleografie, spesso molto lontane dalla realtà spagnola di quel periodo, come nel caso del Capriccio espagnol del russo Nikolaj Rimskij-Korsakov, opera senza dubbio bellissima, ma che con la vera Spagna non ha molto a che fare.

 

Tra gli autori stranieri che seppero esprimere meglio l’anima spagnola spicca senza dubbio Maurice Ravel, che dedicò al paese parecchie delle sue opere più importanti.

 

In ogni caso, va detto che Ravel – pur essendo francese a tutti gli effetti – era originario di Ciboure, cittadina situata a pochi chilometri dal confine in cui si respira ancora oggi la cultura basca, e che aveva appreso fin da bambino i canti popolari spagnoli da sua madre.

 

Questa autenticità venne in seguito riconosciuta da uno spagnolo doc come Manuel de Falla, che – dopo aver ascoltato nel 1907 Ravel suonare al pianoforte la Rhapsodie espagnole – affermò che l’hispanidad di questo lavoro non derivava da una mera imitazione di temi popolari sentiti da qualche parte, ma «da un libero impiego di ritmi, melodie modali ed evoluzioni proprie della lirica popolare, elementi che non alterano affatto le caratteristiche musicali dell’autore».

 

Nel 1908 Ravel realizzò la versione orchestrale della Rhapsodie espagnole, utilizzando un organico molto numeroso (che comprende anche l’ormai desueto sarrusofono, oltre alla celesta, a due arpe e a una nutrita sezione di percussioni), dal quale deriva il ricchissimo panneggio sonoro che entusiasmò il pubblico presente al Théâtre du Châtelet di Parigi per la prima esecuzione tenuta dall’Orchestre des Concerts Colonne diretta da Édouard Colonne.

L’opera si apre con l’evocazione delle tiepide notti spagnole, un topos ricorrente della produzione musicale ottocentesca, che esprime efficacemente il senso di mistero che si tendeva ad associare al paese.

 

Fin dalla prima battuta compare il motivo ricorrente, un semplice tema discendente di quattro note (fa-mi-re-do diesis), che viene ripetuto ossessivamente con un’ampia oscillazione dinamica prima dagli archi e poi da altre famiglie strumentali, fino ad arrivare al clarinetto solo.

 

Con questa idea melodica – alla quale si sovrappongono interventi di archi e fiati – viene a crearsi un’atmosfera tesa e ipnotica, dove il tempo sembra rallentare fino quasi a fermarsi, conducendo l’ascoltatore in un mondo ancestrale.

 

A interrompere questo angoscioso ripiegamento interiore arrivano gli archi con un tema espansivo, nel quale possiamo vedere apparire in uno squarcio di realtà il tepore e gli aromi fragranti della notte, con sullo sfondo la continua reiterazione del motivo discendente. Dopo il ritorno in primo piano dell’idée fixe in rallentando, i legni presentano una melodia avvolgente, che però si rivela uno spunto transitorio, perché il movimento si chiude in pianissimo con il tema discendente.

Al sogno a occhi aperti del Prélude à la nuit fa seguito la Malagueña, una danza vivace che ci riporta alla realtà con continui cambi di ritmo e le caratteristiche note ribattute del flamenco.

 

Anche in questo caso, Ravel si conferma un maestro dell’orchestrazione, scegliendo sapientemente gli impasti sonori per creare un clima di eccitazione, che richiama le tinte forti del paesaggio spagnolo. La tromba annuncia il tema della festa, che viene subito ripreso da tutta l’orchestra, con in primo piano le coloratissime percussioni a conferire un brillante colore iberico. Tuttavia, quando l’orchestra sembra ormai avviata ad abbandonarsi a una scatenata vitalità a un tratto emerge una lunga linea melodica del corno inglese, nella quale si inserisce di nuovo il tema discendente del Prélude, prima di un’agile conclusione sfumata.

In terza posizione Ravel inserì la Habanera che aveva composto 12 anni prima (nel 1895), un fatto che si premurò di indicare chiaramente in partitura, molto probabilmente per rivendicare un diritto di primogenitura su Claude Debussy, che qualche anno prima aveva inserito questa danza – resa universalmente famosa da Bizet – nella sua Soirée dans Granade. Questo brano dal carattere lento e sereno, in cui i passi di danza si manifestano con slancio solo verso la fine, è un’oasi serena prima che inizi davvero la fiesta.

 

La Feria ci porta finalmente nel tripudio della danza, con un’introduzione dei flauti e degli ottavini, che crea un coinvolgente senso di eccitazione, che sembra tratteggiare l’immagine della folla in spasmodica attesa per scatenarsi nei balli. E la festa inizia con il fragoroso tema dell’orchestra. Secondo quanto scrisse l’autore, nella Feria vengono finalmente travolte tutte le remore presenti nei movimenti precedenti, ma anche in questo caso non manca una vena malinconica che trova piena espressione nell’episodio centrale esposto prima dal corno inglese e poi dal clarinetto basso e nell’ennesimo ritorno del tema discendente del Prélude.

Nonostante questo, alla fine trionfa il lato vivace e ottimista del carattere spagnolo, che raggiunge il parossismo con un Finale che non può che strappare l’applauso.

 

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Articolo pubblicato il 22/02/2023