“Venticinque Aprile”

Per quadrare il cerchio “Memoriale” di Boetti Villanis, patriota (di Aldo A. Mola)

Italia sempre “in tocchi”?

Il passato non passa? A leggere certi articoli e a sentire dibattiti televisivi si direbbe che l'Italia sia appena uscita da una guerra civile. Il centenario della mai avvenuta “marcia su Roma” incendiò gli ultimi mesi del 2022, quasi la Capitale stesse per cadere preda di nuove “squadracce”. Ma è tutta la storia d'Italia a dividere ancora. Neo-borbonici da un canto, paleo-asburgici dall'altro, vetero-clericali su una sponda, mangiapreti sull'altra. Come Stato l'Italia è nata appena un secolo e mezzo fa. Lo divenne quasi per caso, grazie a Vittorio Emanuele II e a Cavour che ottennero via libera da Londra e da Napoleone III. A Carlo Farini e ad Enrico Cialdini, che a metà agosto del 1860 in Chambéry gli annunciavano l'imminente invasione dello Stato pontificio per arrivare a Napoli prima che Mazzini ne facesse un laboratorio della “repubblica universale”, l'imperatore raccomandò “Fate, ma fate in fretta”. Il passato prossimo e remoto incombe. Ma non è nei “fatti”. È nell’estenuante “narrazione” che vorrebbe gli italiani sempre fratricidi, sempre divisi tra Romolo e Remo, Cesare e Pompeo, Cicerone e Catilina (riproposto da Luciano Canfora per l'editore Laterza) e così via, di rivalità in rivalità. Faziosi anziché cittadini di un unico Stato.

I cittadini, però, sono stanchi di lotte artificiose. Non “parteggiano” più. Lo dicono nel modo più pacato. Non vanno alle urne. Per la gioia di chi si sfrega le mani, perché così nessuno lo rimuoverà dal potere.

 

Vox clamantis in deserto: un Paese, cinque guerre

Di quando in quando, tuttavia, si levano voci contro corrente. Vanno ascoltate. È il caso del “Memoriale” di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi, che sommessamente invita a un “25 aprile” diverso: più pacato e quindi più “inclusivo”. Rapida premessa. Il governo Mussolini il 17 novembre 1922 fu approvato alla Camera con 307 voti contro 106. Non era affatto “regime”. Lo divenne negli anni, sempre col voto favorevole del Parlamento. Il seguito è noto: l'alleanza ideologica e militare con la Germania di Hitler, l'intervento in guerra, la catastrofe. 

Nel 1943-1945 in Italia imperversarono cinque guerre: tra gli anglo-americani e i germanici con i loro alleati, tra il Regno d'Italia e lo Stato repubblicano d'Italia capitanato da Mussolini, fra la Repubblica sociale e il movimento di liberazione, tra le formazioni partigiane, molto diverse per composizione e obiettivi ultimi, e, non bastasse, della “Jugoslavia” e della Francia contro l'Italia per accaparrasene valichi alpini da un canto, i porti di Fiume e Trieste e ampie province dall'altro. Un groviglio di conflitti ignorato dalla maggioranza degli italiani odierni. A parte i bombardamenti aerei, gli attentati e le rappresaglie, imperversava il razionamento del cibo, più pesante soprattutto nelle città, da tempo alla fame.

Quel turbine è soggetto di narrazioni semplicistiche, corrive a dividere il mondo in buoni e cattivi, a cancellare il passato scomodo. Eppure sin dall'immediato dopoguerra alcuni grandi scrittori (Cesare Pavese, Italo Calvino e Beppe Fenoglio, che il 2 giugno 1946 votò per la monarchia) invitarono a sostare e a meditare. Forse il nodo insoluto è proprio lì: la monarchia, il grande escluso dalla storiografia prevalente. Era possibile salvare lo Stato d'Italia e conservare chi aveva capitanato le cinque guerre per la sua unità nel 1848-1949, nel 1859-1860, nel 1866, nel 1870 e nel 1915-1918? O bisognava identificarsi con uno solo dei cinque fronti di guerra che la devastavano?

Il “Memoriale” di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi “Dignità di una scelta” (BastogiLibri, Roma, 2023, con partecipe prefazione di Pietrangelo Buttafuoco) mira a quadrare il cerchio nell'unico modo possibile. Attraverso i ricordi personali e familiari il libro propone la pacificazione vera: ascoltare la voce di chi visse e dinnanzi al passato alza le braccia in segno di speranza anziché alzare le mani per l'ennesima zuffa. Alcuni “sbagliarono”? Vanno studiati e compresi. Sono parte della storia patria, di ieri e ventura.

 

Dal regime al dopoguerra    

Boetti Villanis nacque a Torino l'11 febbraio 1931, due anni dopo la firma dei Patti Lateranensi che chiusero ottant'anni di tensione tra la Chiesa di Roma e il “Risorgimento scomunicato” di cui scrisse il sempre rimpianto Vittorio Gorresio, nipote di un senatore cultore di sanscrito. Quando egli venne al mondo il fascismo era ormai partito unico. Dal 1931 anche ai docenti degli istituti superiori e delle università venne imposto di giurare fedeltà al duce oltre che al re e ai suoi legittimi successori. Lo rifiutarono una decina di cattedratici su oltre mille. A chi gli chiese consiglio, Benedetto Croce suggerì di giurare per non essere sostituito da professori di minor valore. Nel 1928 aveva pubblicato l'elogio dell'Italia liberale dal 1871 al 1915, un libro di ampio successo, oggi quasi dimenticato. Anche senza cattedre (non ne ebbe mai alcuna, ma nel 1920-1921 fu ministro della Pubblica istruzione nell'ultimo governo presieduto da Giovanni Giolitti) insegnava tramite la “La Critica” e le sue opere.

Il censimento del 1931 “fotografò” vita pubblica, società e produzione. Anche perché meno industrializzata di altri Paesi, nel 1929 l'Italia ebbe minori ripercussioni dalla “Grande depressione” nata in Europa, passata negli Usa e rimbalzata nel Vecchio Continente. L'Istituto mobiliare italiano (IMI) e l'Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), affidato ad Alberto Beneduce, già socialista, massone e antifascista dichiarato, guidavano l'economia di uno Stato che stava completando la riconquista della Libia con i ruvidi metodi di Pietro Badoglio e di Rodolfo Graziani, non peggiori quelli impiegati da altri Stati europei, a tacere del Giappone, ed era tra i componenti più autorevoli della Società delle Nazioni. Chi crebbe tra impresa d'Etiopia, scatto d'orgoglio contro le sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni, proclamazione dell'Impero, intervento in Spagna a sostegno dei nazionalisti contro i “rossi”, ripetutamente condannati da Pio XI per il loro anticlericalismo fanatico, non dubitava che l'Italia fosse un grande Paese rispettato nel mondo. Chi poi, come Ludovico, cresceva nella famiglia di antichi conti e consignori di Cavallerleone (ne scrivono la Statistica della Provincia di Saluzzo di Giovanni Eandi e Goffredo Casalis) aveva motivo di riconoscersi nel fascismo, non “partito” ma costume condiviso. I fasci erano accostati allo scudo sabaudo nello stemma dello Stato e degli enti pubblici. Erano ovunque, tranne che nel tricolore e nelle bandiere di guerra, che Vittorio Emanuele III volle rimanesse qual era: con lo scudo sabaudo nel bianco.

   Sulla fine dell'aprile 1945, a quattordici anni, Boetti Villanis vide la 34^ Divisione Granatieri tedesca in ritirata a ranghi compatti dalla Liguria verso il Piemonte ed ebbe notizia della “mattanza” di “repubblichini” (incluso un innocuo ragazzo di 16 anni) perpetrato da partigiani comunisti. Quei “fatti” rimasero in memoria e tornano nelle pagine del suo “Memoriale”, che non vuole essere “storia” ma è scritto “per la storia”, affinché il lettore ricordi o apprenda, dopo decenni di narrazioni a senso unico, tendenziose e omissive.

 

I “fatti” ostinati

Dall'andamento rapsodico, “Dignità di una scelta” intreccia capitoli di testo, vastissime note, appendici e un eloquente apparato iconografico. Risponde a tre quesiti ricorrenti: avvento, durata e crollo di Mussolini. Il 31 ottobre 1922 il re incaricò il “duce del fascismo” di formare un governo di coalizione costituzionale perché il suo partito, esiguo per seggi (alla Camera ne aveva 37 su 535, al Senato appena un paio su circa 400), aveva il sostegno del “Paese reale” (confindustria, mondo finanziario, chiesa cattolica, sindacati, inclusa l'Alleanza del lavoro, di matrice socialista, e comunità massoniche). Dopo sette governi in soli quattro anni, l'Italia aveva bisogno di “disciplina”, stabilità finanziaria e ritorno al “senso dello Stato” che invano Giolitti aveva tentato di ripristinare col suo quinto e ultimo governo (1920-1921), suggellato dalla Festa delle Bandiere (1921) e dalla tumulazione del Milite Ignoto nel Sacello della Dea Roma al Vittoriano, celebrata da Vittorio Emanuele III, Sommo Sacerdote dell'unità nazionale. Un Paese che aveva vinto la guerra contro l'impero austro-ungarico a prezzo di 680.000 morti e di un milione di mutilati e feriti e aveva coronato il congiungimento del confine geografico con quello politico non poteva perdere la pace e sprofondare nel caos perché i “rossi” volevano “fare come in Russia”: sterminare Casa regnante e borghesia nel “bagno di sangue purificatore”.

Boetti Villanis induce inoltre a riflettere sull'estate del 1943: le settimane tra la revoca di Mussolini, sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio (25 luglio), e la resa senza condizioni del 3-29 settembre (i cui pubblica in appendice). Ogni italiano fu posto dinnanzi a scelte difficili, spesso dolorose (lo ricorda Vittorio Emanuele Terragni in “Ananke. Come arrivammo alla disfatta”, ed. De Ferrari), talora spinte sino al suicidio. In quei frangenti, come nei venti mesi seguenti, per gli italiani fece grande differenza trovarsi nelle regioni centro-settentrionali anziché in Sardegna, Sicilia e nel Mezzogiorno. La vita nelle città era molto diversa da quella dei borghi minori.

L'autore del volume non ha dubbi e lo scrive con formula lapidaria: l'entrata in guerra a fianco della Germania di Hitler il 10 giugno 1940 fu non solo un azzardo ma un errore. Dopo l'onerosa campagna d'Etiopia e l'intervento in Spagna a fianco dei nazionalisti contro i “rossi” eterodiretti dalla Terza internazionale staliniana (ne scrisse anche Eddy Sogno), l'Italia non era preparata per una guerra “grossa e lunga”, per di più a fianco della Germania, che mirò a una “guerra lampo” e, a differenza di quanto aveva fatto nell'agosto 1914, si coprì prudentemente il fianco orientale con il cinico patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov (23 agosto 1939, una settimana prima dell'aggressione alla Polonia: ne ha scritto Aldo Ricci nel n. 197 di “Storia in Rete”). Dello stesso avviso erano sia i vertici militari, sia Mussolini, che (ricorda Boetti Villanis) tentò di starne fuori. Ma, ancora una volta, come già era accaduto in passato, entrati nella “fornace ardente” per il gioco di alleanze e controalleanze tra grandi potenze (a basso tenore ideologico, contrariamente a quanto si ritiene), divenne sempre più arduo uscirne. Va aggiunto che il duce compì l'errore catastrofico di sottoscrivere tutte le decisioni di Hitler sino alla dichiarazione di guerra del 13 dicembre 1941 contro gli Stati Uniti d'America, malgrado l'incolmabile disparità di forze e di risorse. Altrettanto deplorevole, ricorda Boetti Villanis, fu la deriva ideologica che dal 1938 condusse frange del regime (per lo più repubblicane) a propugnare le leggi contro gli ebrei, del tutto estranee alla tradizione del Risorgimento, della Terza Italia, di molti esponenti del fascismo stesso (come Italo Balbo: altra cosa dai “fratelli” Telesio Interlandi e Roberto Farinacci) e, soprattutto, di Casa Savoia, a cominciare da Vittorio Emanuele III, nettamente contrario a ogni forma di intolleranza religiosa e di discriminazione etnica.

Anziché indulgere a mozioni di affetti l'autore richiama i “fatti”. Ottenuta nel settembre 1943 (e in modi rocamboleschi) la resa senza condizioni dell'Italia, gli anglo-americani non mostrarono alcuna fretta di avanzare verso il centro-nord. Stavano già preparando l'imponente e impegnativo “sbarco” sulla costa atlantica francese del giugno 1944. Più divisioni germaniche erano impegnate sulle linee italiane (dalla Gustav alla Gotica), meno essi ne avrebbero avute contro sul fronte decisivo.

A Roma, ove allo scettico Badoglio avevano ventilato il lancio di una divisione aviotrasportata, sbarcati ad Anzio-Nettuno nel gennaio 1944 i “liberatori” giunsero solo il 4-5 giugno successivo; a Firenze arrivarono dopo altri due mesi. A novembre il maresciallo Harold Alexander (che aveva ordinato la rabbiosa distruzione dell'Abbazia di Montecassino il 15 febbraio 1944, strategicamente inutile) invitò i “partigiani” alla stasi invernale. In Bologna gli Alleati entrarono il 21 aprile 1945. Per otto mesi, però, le regioni più popolose e produttive della Penisola erano rimaste sotto controllo della Germania, diretto o tramite la Repubblica sociale italiana, sua subalterna, che fece il possibile per arginare l'avanzata del IX Corpus di Tito sul confine orientale. Lasciate da parte pulsioni ideali e ideologiche, quale condotta potevano tenere quanti ricoprivano ruoli nello Stato (“sedicente” o “cosiddetto” repubblicano, come recitavano le leggi del governo regio), nelle amministrazioni locali, nelle imprese industriali, agricole, commerciali, bancarie? La domanda non è affatto retorica. Trova risposta, semmai, nelle trattative segretamente avviate dal generale delle SS Wolff, mirante a ottenere la soluzione ricorrente tra eserciti combattenti: la resa dei germanici a condizioni non disonorevoli.

Per Boetti Villanis i travagliati “venti mesi” e quanto ne seguì non possono e non debbono essere valutati con giudizi “moralistici” ma giuridici e “morali”. Far funzionare lo Stato e amministrare correttamente, malgrado i bombardamenti, le ristrettezze della vita quotidiana e la guerra civile strisciante, significava guardare oltre la catastrofe per ottenere lo “sconto” sulle durissime condizioni della resa lasciato intravedere da vincitori sin dal Memorandum di Quebec dell'agosto 1943. Sennonché nel Comitato alleato di controllo e nella Commissione militare alleata agli anglo-americani si aggiunsero i sovietici e i francesi, assurti a compartecipi della “vittoria”. Entrato a Parigi, Charles De Gaulle dichiarò che la Francia era in guerra contro l'Italia e rivendicò l'intera Valle di Aosta e i valichi alpini. Il Trattato di pace imposto all'Italia il 10 febbraio 1947 deluse profondamente quanti ritenevano che essa si fosse condotta con spirito di lealtà e avesse diritto a condizioni meno umilianti e tragiche di quelle in corso sul confine orientale. A quel punto fu chiaro che il cambio della forma dello Stato da monarchia a repubblica (in forza di un referendum molto discusso) non comportò alcun vantaggio per l'Italia, né per chi, come Alcide De Gasperi, nella settimana decisiva, fra il 10 e il 18 giugno 1946, tenne una condotta opportunistica.

Su quelle premesse si fondarono le successive scelte politico-partitiche e ideali di Ludovico Boetti Villanis, dalla giovinezza alla vigorosa maturità e all'elezione alla Camera dei deputati nelle file del Movimento sociale italiano. Il suo “memoriale” riflette su un tema ancora poco esplorato: la convergenza tra monarchici e vindici del ruolo svolto dal fascismo, sia nel “ventennio” sia nei “venti mesi”. Fonde passione civile e distacco critico. Non manca un filo di amarezza per il modesto sostegno ricevuto da alcuni maggiorenti del suo stesso partito in tornanti significativi dell'Italia di fine Novecento. La vicenda di Boetti Villanis richiama quella di Eddy Sogno, candidato in un collegio più impossibile che improbabile e quindi avviato alla amara solitudine dei suoi ultimi anni. Queste “memorie” inducono a una ricostruzione complessiva della Destra nazionale, libera da complessi di colpa e dal “dovere” di doversi continuamente scusare di un passato che essa superò con elaborazione critica e con propri rappresentanti nelle amministrazioni comunali, provinciali e nel Parlamento nazionale, all'insegna della responsabilità e della continuità. Lo mostrano molte fotografie, quasi un libro nel libro, tra le quali spiccano gli incontri dell'Autore con Umberto II condannato all'esilio non dagli italiani ma dall'Assemblea Costituente.

Chi è orgoglioso del proprio ruolo di patriota e rivendica la dignità della propria scelta, niente affatto episodica o umorale, attende il giudizio della Storia e incrocia lealmente i suoi ferri dialettici con chi vorrebbe tacitare per sempre l'avversario sulla scorta dell'irridente principio: “i vinti hanno sempre torto”. Ma nel 1943-1947 chi furono davvero i “vinti”? È il quesito affiorante dalle pagine di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi che implicitamente rinviano alle opere decenni addietro scritte “a schiena dritta” dall'indimenticabile Giano Accame.

Aldo A. Mola

Ludovico Boetti Villanis-Audifredi monarchico, sottotenente di complemento nei Lancieri di Novara, ha militato nel Movimento sociale italiano. Avvocato, consigliere comunale a Vercelli, consigliere provinciale per vent'anni a Torino e capogruppo per MSI-Destra Nazionale, nel 1983 fu eletto deputato alla Camera nel collegio di Torino. Con ferrea memoria ed eloquio d'altri tempi interviene a fronte alta in dibattiti e conversazioni.

Sulla sua Casa si veda “I Boetti (cominciando dal ceppo)” di Ludovico e Carlo Boetti Villanis, con prefazioni di Fabrizio Antonielli d'Oulx e Gustavo Mola di Nomaglio, Torino, Vivant, 2023. Il suo “Memoriale” Dignità di una scelta è in

Arrivo nelle librerie; può essere ordinato a bastogilibri@alice.it

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Articolo pubblicato il 23/04/2023