Più profondamente

Un racconto di Antonella Barina

Un fruscio di foglie e l’onda che batte e ribatte sulla battigia.

 

- Che ne sarà, dimmi, che ne sarà del mondo?

 

Nanà la nera alza gli occhi dal catino in cui l'acqua riverbera le ultime visioni, stremata dall'ultima cavalcata di Oyà Yansà, che stavolta non le ha dato risposta.

Accanto a lei Sainatei, sua figlia bambina, frutto di troppe razze, carne di Ochún: zigomi yoruba inscritti in profilo europeo, pelle scura di nomade, troppo chiara per essere nera, troppo neri occhi e capelli. Avrebbe potuto germogliare ovunque, quel frutto di fibra forte, ovunque potrebbe avere cittadinanza. Ma, anche, ovunque potrebbe essere distrutto, nei mille modi.

La domanda della madre è sospesa nell'aria come un gabbiano controvento. Sainatei scuote la testa. La piccola è assorta in un grande sonno.

 

Raggiunta l'età dei sette anni, Sainatei dovrebbe essere introdotta ai misteri. Ma quali, si chiede sua madre, poiché ogni razza ha i suoi? Allora Nanà chiede aiuto agli spiriti degli antenati, ai santi cattolici, e perfino alle dee dell'India profonda, a tutte le divinità che sa essere adorate su questo minuscolo granello di polvere che rotola nel grande universo. E queste parlano alla piccola.

 

Passano ore, giorni, la madre vorrebbe svegliare la bambina, ma ha paura di farlo. Sa che non si deve interrompere il sogno. È l’alba dell’ultimo giorno, quando la piccola si risveglia.

 

Ho sognato che dei giovani contadini arrivavano in un pascolo vergine costruivano una casa allevavano le loro bestie e crescevano i loro figli, ho sognato che c’era tanta acqua.

 

- Piccola mia, hanno costruito una diga, hanno preso le loro terre li hanno cacciati e ora vivono ai margini i bambini venduti ai soldati.

 

Ho sognato che si può sognare assieme stando accovacciati vicini sotto una foglia di banano seguendo il suono di una voce guida mentre nessuno parla. Ho sognato che per tutto questo non ci sarebbero stati morti o infelici, che questo sarebbe avvenuto da solo.

 

- Piccola mia, hanno svegliato i sognatori e hanno preso i raccolti, quello che dici è già stato e ci sono morti e infelici ovunque. 

 

Ho sognato che tutte le santeras, le mae do santo, le bruje del mondo avrebbero detto tutte assieme che l’era del sacrificio è finita. E so che si avvererà.

 

- Piccola mia, le hanno sostituite con demoni cattivi che inventano il malocchio per poterlo togliere e questa è la loro festa.

 

Sainatei volge gli occhi alla grande zuppiera di ceramica in cui riposano le pietre che generano, le potenti orichas. Le sirene di Yemayà. L'ancora sacra. Poi guarda in alto, alla zucca della guira che contiene lo spirito dell'antenata, adorno delle penne dell'aura tignosa, l'uccello sgraziato che mangia i cadaveri per Ochun Kolé Kolé. E davanti a sé, la soglia che dà all'esterno, sul patio. L'odore del mare raggiunge la donna e la bambina, e questa chiude gli occhi perché a respirarla è densa e dolce. Caraibi, dove tra tante nefandezze resiste la rete forte della fantasia.

 

Cos’altro hai sognato?

 

E la bambina risponde.

Non ci sarà più egoismo, dice, dopo le grandi sciagure. Di me non ti preoccupare, madre, io vado nel mondo dei miei simili, le razze sono fiumi disciolti nel mare.

Ho visto, aggiunge, il problema che avanza verso di noi come una nuvola, un fungo, un uragano che viene dall'oceano e la soluzione è che non bisogna smettere di immaginare. Non è più tempo di sacrificio.

Madre, questa storia del mondo è un attimo nel sogno di un grande pesce. La nostra specie va come i delfini ad arenarsi su una spiaggia. Non vi è che un sistema e lo conoscono i coralli del mare: più forte, bisogna solo immaginare più forte.

 

Poi le due donne guardano verso il cielo, dove da lontano si addensa un lungo filo che lega il mare alla terra e cresce cresce e si avvicina con una velocità da far spavento, con il colore degli incubi.

 

- Hai ragione - dice la madre - dobbiamo immergerci nel sogno più profondamente.

 

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Articolo pubblicato il 27/04/2023