
Uno Stato fondato sul lavoro (di Aldo A. Mola)
“Decorazioni” di imprenditori e medaglie per i lavoratori
Il 1° maggio 1898, proprio per festeggiare il lavoro, udito il Consiglio dei ministri e su proposta del ministro di agricoltura, industria e commercio, Francesco Cocco Ortu, liberale sardo destinato a divenire decano della Camera (1842-1929), Umberto I datò il regio decreto di quattro righe istitutivo della Decorazione al merito agrario, industriale e commerciale. Fu il riconoscimento di quanto l'Italia doveva non solo a “santi, poeti e navigatori” e ai patrioti che si erano sacrificati in cospirazioni e battaglie, ma anche agli “imprenditori” senza titoli nobiliari né, a volte, di studio. Orgogliosi del proprio lavoro, mattone su mattone, voltando e rivoltando le zolle e al timone di manifatture, industrie e imprese bancarie e commerciali, anche essi concorrevano quotidianamente a costruire la Nuova Italia.
Il 4 marzo 1898, per celebrare il cinquantenario della promulgazione dello Statuto del regno di Sardegna, poi divenuto del Regno d'Italia, nel giardino del Quirinale era stata posta la prima pietra della statua in bronzo di Carlo Alberto di Savoia a cavallo: un monumento opera di Raffaele Romanelli, scoperto dopo soli due anni. Nel suo basamento quattro bassorilievi in bronzo raffigurano l'aquila di Savoia, lo stemma di Roma, l'abdicazione dell'“Italo Amleto” dopo la battaglia di Novara (23 marzo 1849) e la vittoria dell'Armata sarda sugli austriaci a Goito, ove Carlo Alberto fu salutato “Re d'Italia”.
Due giorni dopo, il 6 marzo 1898, l'Italia venne funestata dal tragico duello tra Felice Cavallotti, deputato di punta del partito radicale e fautore di un improbabile “partito degli onesti”, e il giornalista Ferruccio Macola, il cui ferro lo colpì a morte. Giosuè Carducci, Maestro e Vate, commemorò Cavallotti all'Università di Bologna definendolo un istmo tra il movimentismo rivoluzionario e le istituzioni, sul quale si erge la Patria. In effetti il deputato radicale stava conducendo un fecondo dialogo con i liberali progressisti, come Giovanni Giolitti, che lo ricorda con simpatia nelle “Memorie”. Rievocando lo sfortunato Cavallotti, Carducci rifletteva su sé medesimo: originariamente mazziniano, garibaldino, ma da ormai vent'anni schierato a sostegno della monarchia, garante delle libertà, e sempre meno corrivo a tollerare le agitazioni scomposte di chi si atteggiava a innovatore e a ribelle. Ricordava i fischi riservatigli dagli studenti quando nella bolognese Alma Mater Studiorum egli comparve in compagnia della giovane poetessa e drammaturga Annie Vivanti. Tutta invidia per chi aveva i suoi acciacchi ma rimaneva vigoroso “dentro”?
Un Paese tra conciliazione e inquietudini
Il 18 marzo 1898 Milano celebrò il cinquantenario delle Cinque Giornate. Il 21 aprile Umberto I conferì la Medaglia d'Oro alla città di Roma per la sua eroica difesa nel 1849 contro gli invasori, a cominciare dai francesi inviati da Luigi Napoleone, presidente della Repubblica d'Oltralpe, poi Napoleone III. A quel modo il Re d'Italia rese omaggio alla Repubblica di Carlo Armellini, Aurelio Saffi e Giuseppe Mazzini all'insegna dell'unitarietà del Risorgimento: repubblicani, confederali (come Giuseppe Montanelli), neoguelfi (ispirati da Vincenzo Gioberti) e massoni (come Saffi, al quale è intitolata una loggia di Forlì studiata con acume da Alberto Urizio) erano tante tessere del mosaico tenuto insieme dalla Corona. Erano tutti patrioti invisi ai reazionari, ai bigotti e al nipote di Napoleone il Grande. Ex carbonaro, cospiratore e rivoluzionario più volte incarcerato, nel 1849 Luigi Napoleone assunse la guida della seconda Restaurazione e fiancheggiò il “papa-re”.
Mezzo secolo dopo, nella primavera del 1898, la guerra tra la Spagna e gli Stati Uniti d'America, che sobillavano l'insorgenza di Cuba e delle Filippine contro Madrid, fece impazzire il prezzo dei noli marittimi e, conseguentemente, dei cereali, la cui importazione era fondamentale per la bilancia alimentare dell'Italia, soprattutto nella crisi congiunturale di primavera, quando scarseggiano le scorte dell'anno precedente e i raccolti sono ancora di là da venire. A fine aprile dalla Romagna a Napoli vennero segnalate le prime rivolte al grido: “Pane!”.
Il Re e il governo non percepirono subito il rischio che il Paese stava correndo. Il 1° maggio i sovrani e l’esecutivo, presieduto dal marchese Antonio Starabba di Rudinì (Palermo, 1839-Roma, 1908), inaugurarono a Torino l'Esposizione Nazionale: vetrina delle potenzialità del Vecchio Piemonte, all'avanguardia nelle manifatture tessili e nelle industrie metallurgiche e meccaniche. L'Esposizione fu accompagnata da molte rievocazioni storiche e storiografiche, da iniziative culturali (nell'occasione il giovanissimo Luigi Einaudi scrisse “Il principe mercante”) e dalla solenne Mostra di Arte Sacra, a dimostrazione che trent'anni dopo Porta Pia le due rive del Tevere erano meno distanti. Del resto su quelle del Po il “dialogo” tra le istituzioni e gli ecclesiastici non era mai stato interrotto. L'articolo 1 dello Statuto continuava a ricordare che la sola religione dello Stato era quella cattolica apostolica romana. Valeva anche per sovrani dalle ben note e talora ostentate “scappatelle”, quali Vittorio Emanuele II e suo figlio Umberto I. Se Camillo Cavour aveva sempre contato su fra’ Giacomo da Poirino per il giorno fatidico della Grande Visitatrice, l'agnostico Urbano Rattazzi finanziava sotto banco don Giovanni Bosco, che arrivava dove Stato e amministrazioni locali erano e a lungo sarebbero rimaste in ritardo. Sin dai tempi di Tancredi e Giulia Falletti di Barolo e di Giuseppe Cottolengo, il Piemonte era terra feconda di “santi sociali”.
Il re e il governo ne erano consapevoli. Nel discorso della Corona del 16 novembre 1898 Umberto I annunciò alle Camere: “Vi saranno ripresentate proposte per migliorare le condizioni di quella parte del clero che trovasi in rapporto più diretto colle popolazioni, e che eserciterà le sue funzioni ispirandosi ai doveri che ha verso la religione e verso la patria”. Era tempo di far capire agli ecclesiastici che dovevano dare a Cesare quel che è di Cesare, se non altro per consentirgli di tutelare gli interessi primari anche del cattolicesimo. Lo aveva già spiegato Adriano Lemmi, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, che incitava il “fratello” Francesco Crispi a schierarsi a sostegno del “basso clero” per attrarlo a fianco dello Stato, quale bastione contro l'avanzata dei sovversivi. In un discorso pronunciato dinnanzi all'arcivescovo di Napoli, Crispi fu netto. Lanciò l'appello all'unione “Per Dio, per la Patria, con il Re” contro i demoni che uscivano dalle “nere latebre della terra”. Ne avevano dato un saggio i devastanti “fasci siciliani”, sospettati di essere eterodiretti dalla Francia che sommava imperialismo e socialismo di stato.
Dall'insurrezione al regicidio
Se il 1° maggio il Re e il Governo rendevano onore al lavoro italiano a Torino, quello stesso giorno iniziarono tumulti e assalti a fornai e mulini dalla Puglia alla Campania, dall'Emilia alla Toscana. I focolai di rivolta erano troppi per apparire spontanei. Era lecito sospettare che venissero alimentati e coordinati dall'esterno, in combutta con rivoluzionari interni. In pochi giorni i tumulti divennero insurrezione generale, guidata da frange della piccola borghesia e da avanguardie studentesche, come a Pavia, ove negli scontri con le forze dell'ordine cadde ucciso Muzio Mussi, figlio di uno tra i maggiorenti dei radicali milanesi, Giuseppe Mussi, massone, poi da Vittorio Emanuele III creato senatore del regno.
Il 5 maggio i socialisti di Milano pubblicarono un “Manifesto” per richiamare all'attenzione la rivolta della fame e della disperazione serpeggiante nel Paese e per deplorare il ricorso governativo alla proclamazione dello stato d'assedio che sostituiva i codici ordinari con quelli militari e consentiva l'impiego delle armi contro i dimostranti come nemici in guerra. I socialisti invocarono l'abolizione del dazio doganale sulle farine per calmierare il prezzo del pane: una misura accettabile e infatti subito varata da molte amministrazioni. Ma andarono oltre: denunciarono il “militarismo a servizio di alleanze cui il popolo è estraneo, di interessi dinastici, di privilegi odiosi e anticivili”. Passati dal terreno economico-sociale a quello propriamente politico, incitarono i dimostranti a “stringersi compatti attorno alla bandiera socialista sulla quale è scritto: rivendicazioni popolari, restaurazione della libertà e della giustizia, abolizione di tutti i privilegi, guerra al militarismo, suffragio universale”. Ammonirono: “Gravi giorni si appressano. È tempo che il popolo italiano rifletta, ricordi ed alfine provveda a se stesso. Il paese salvi il paese”. Era un appello incendiario, come se l'Italia fosse calpestata dagli austriaci del maresciallo Radetzky e di “Cecco Beppe” anziché, qual era, teatro di libero confronto tra parti politiche nel Parlamento e nelle amministrazioni locali, ampiamente democratizzate con le riforme introdotte da Crispi nel 1890, con elettività dei sindaci e dei presidenti delle giunte provinciali. Socialisti e repubblicani misero in discussione l'assetto istituzionale. Con quali prospettive?
Seguirono giorni di eccessi verbali, di scontri sanguinosi e di arresti di quanti furono sospettati di voler precipitare l'Italia nel caos: i socialisti Filippo Turati e Oddino Morgari, il repubblicano Luigi De Andreis e don Davide Albertario, promotore della prima Democrazia cristiana, non esente da pulsioni antisemite. Il generale Fiorenzo Bava Beccaris (di antica famiglia notabilare fossanese, come ricorda il suo biografo, generale di corpo d'armata Oreste Bovio) usò il pugno di ferro e talvolta sbagliò bersaglio, confondendo poveri barboni con rivoluzionari da fermare a cannonate. Prevalse il timore di una deriva incontenibile come quella divampata a Parigi nel 1871: la Commune, deplorata anche da Giuseppe Garibaldi che si scagliò contro le sue “massime”: “la proprietà è un furto, l'eredità altro furto”, e cosivvìa.
Di Rudinì rassegnò le dimissioni. Formò un altro governo, che però durò appena quattro settimane. Dopo aver presieduto quattro Ministeri in soli due anni disparve. Si disse che da “ragazzo”, quando aveva appena 26 anni, aveva fatto un miracolo domando la rivolta a Palermo, città di cui era sindaco. In realtà l'ordine venne ripristinato dal generale Raffaele Cadorna. Poi però il miracolo era scomparso; era rimasto solo il ragazzo. Al di sotto del ruolo cui era chiamato.
Eppure il sovrano aveva fatto di tutto per avvicinare le istituzioni ai cittadini, per fondere Paese reale e Paese legale, solitamente contrapposti nella narrazione e in tanti manuali scolastici. Il 5 aprile 1897 nel discorso di apertura della nuova legislatura Umberto I aveva annunciato, fra altro: “Il mio governo vi presenterà disegni di legge a favore degli operai, acciocché negli infortuni e nella vecchiaia essi abbiano quei conforti da troppo tempo giustamente desiderati. In questi provvedimenti spira quel senso di solidarietà, quell'amor del prossimo che devono essere i principali fattori della nostra vita sociale e politica”. E ammonì il Parlamento a non permettere che le sue proposte rimanessero “una vaga aspirazione”. Non erano il Re e il governo a “fare le leggi”. Le proponevano, ma toccava al Parlamento discuterle e approvarle. Toccava ai deputati e ai senatori “rimboccare le maniche”, mettersi “alla stanga” come in Italia qualcuno recentemente ha ricordato al “ceto politico”, inconsapevole o distratto, come si è veduto in questi giorni.
“Al retto svolgimento delle sue libere istituzioni - aggiunse Umberto I - l'Italia deve i grandi progressi conseguiti, nonostante fortunose vicende, in quest'ultima metà del secolo; ma lunga è ancora la via che dobbiamo percorrere per raggiungere e mantenere l'alto posto che ci compete fra le nazioni più civili nell'ordine economico e sociale. Curare ogni miglioramento possibile delle condizioni delle classi lavoratrici; dare la necessaria tutela ai nostri prodotti industriali ed agricoli; proteggere efficacemente i nostri migranti; attenuare nella misura consentita dal bilancio le asprezze del sistema tributario; adattare meglio ai bisogni della vita odierna l'educazione e l'istruzione della gioventù; tenere alto il prestigio della giustizia e dei giudici; assicurare al paese un'amministrazione corretta e previdente”. Enunciato all'inaugurazione della XXI Legislatura quel programma sembra tagliato su misura dell'Italia odierna. Per attuarlo – affermò Umberto I - occorreva armonia tra il governo e il “retto funzionamento dell'istituto parlamentare”.
- “Dissi un giorno – egli aggiunse infine - quando fra l'universale compianto annunziavo la morte del Gran Re mio Padre, che avrei provato agli italiani che le istituzioni non muoiono”. Era il 16 giugno 1900. A morire fu lui, Umberto I, il 29 luglio, assassinato a revolverate a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci, punta dell'iceberg della cospirazione contro la stabilità dell'Italia e dell'Europa.
Il regicidio chiuse due anni di speranze, tensioni e contraddizioni.
Vittorio Emanuele III, Re dell'Italia del lavoro
Quasi tutti pensarono che il nuovo re, Vittorio Emanuele III, trentunenne principe di Napoli, avrebbe capitanato un'onda reazionaria. Invece, asceso al trono “impavido e sicuro” (come egli stesso dichiarò giurando a capo scoperto fedeltà allo Statuto) si circondò di persone sagge, smantellò le ambizioni di cortigiani, dette ascolto e, come gli consigliò l'anziano Pasquale Villari, fece di testa sua. Non aveva fretta di assumere la Corona. Però aveva studiato, in un'epoca in cui molti ritenevano che per governare bastino una divisa e una spada. Vittorio Emanuele III imboccò tutt'altra via e impose il suo metodo: razionalità e massima apertura alle riforme, senza però dimenticare che “chi rompe paga”. Conferì il Collare della SS. Annunziata al presidente della Repubblica francese Emile Loubet, notoriamente agnostico (come lui stesso).
Si recò in visita di Stato nell'anglicana Gran Bretagna. Assicurò all'Italia l'amicizia di sovrani e principi del Giappone e di Paesi islamici, all'insegna della cooperazione e del progresso. Nel 1908 con finanziamenti tratti dal suo patrimonio personale varò a Roma l'Istituto Internazionale dell'Agricoltura, apprezzato in tutto il mondo. Quand'era nella “sua” Provincia Granda visitava di persona i poderi modello della Reale Tenuta di Pollenzo e incoraggiava la cerealicoltura d'avanguardia per aumentare la produzione a parità di area coltivata. Nell'ottobre del 1909 vi recò in automobile per stradine secondarie lo zar di Russia Nicola II, altro sovrano interessato allo sviluppo economico e civile del suo Paese, nella convinzione che la storia non consente scorciatoie e che gli azzardi sono dei “salti nel buio”.
Nel 1901, riprendendo il proposito di suo padre e d'intesa con il presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli, democratico e iniziato massone sin dal 1862, Vittorio Emanuele III istituì con regio decreto l'Ordine cavalleresco al merito agrario, industriale e commerciale, da conferire sia a imprenditori, sia a loro dipendenti. Per questi nel 1923 venne istituita la Stella al merito del lavoro, tuttora ambìta.
I Cavalieri del Lavoro affiancarono i Senatori nominati per la categoria XX, cioè quanti da tre anni pagavano tremila lire di imposta diretta “in ragione dei loro beni o della loro industria” e si mostrassero interessati alla vita pubblica, tanto da ascendere tra i patres di uno Stato che già tra Otto e Novecento era dichiaratamente “fondato sul lavoro”. Era il “Regno d'Italia”. Lo Stato era sostantivo.
Aldo A. Mola
L'Italia tra Otto e Novecento è sinteticamente narrata in “Vita di Vittorio Emanuele III, 1869-1947. Un Re discusso” (ed. Bompiani-Giunti, pp. 600, da questi giorni in libreria) in cui viene descritta la “macchina” della monarchia: Casa Militare, Casa Civile, Ministri della Real Casa, Aiutanti di campo... e gli Ordini cavallereschi che facevano da collante tra Istituzioni e cittadini, né più né meno di quanto accade in Repubblica, le cui leggi non per caso quando sono brevi e chiare iniziano con “visto...” con riferimento a leggi e testi unici dell'età monarchica.
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Articolo pubblicato il 30/04/2023