Anti (quale) fascismo?
Obelisco Mussolini al Foro Italico (Roma)

Di Aldo A. Mola

Cancellare il “fascismo” dalla dottrina?

Nel lontano 1978 G. A. Allardyce in “What fascism is not: thoughts on the deflation of a concept” propose di cancellare il lemma “fascismo” dal lessico storico e politico. Sembrò una provocazione. Quasi mezzo secolo dopo suona invece come un invito alla liberazione dall'abuso di un sostantivo (“fascismo”) e di un aggettivo (“fascista”) privi di fondamenti univoci storici e scientifici: etichette polivalenti, spesso usate come clave nella rissa quotidiana che sta alla politica come le zuffe tra ragazzini stanno alla storia.

Vent'anni dopo il Sessantotto, altra formula “magica” che dice tutto ma nulla spiega, se ne occupò il politologo Giorgio Galli (1928-2020) in “Il fascismo nella Treccani” (ed. Terziaria, 1997). Sorto con la nuova “guerra dei trent'anni” durata dal 1914 al 1945, il “fascismo storico” finì sotto le macerie della seconda guerra mondiale. Una specie estinta. Però, secondo Galli, esso sopravvisse come “modello politico” ed è quindi meritevole di studio. A sostegno del suo proposito citò un passo dell'articolo “Noi, i responsabili” pubblicato in “Primato” dal “fascista critico” Giuseppe Bottai il 15 luglio 1943, cinque giorni dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia: «Proprio nel momento in cui il nemico passa alla fase decisiva della guerra e attacca l'Europa, tentandone l'invasione dalla nostra costa, riconosciamo e rivendichiamo la responsabilità di avere acceso il fuoco del rinnovamento politico e sociale in Europa, perché questa si salvasse e potesse continuare la sua funzione di elaboratrice e sostenitrice della civiltà occidentale. La Storia riconoscerà che abbiamo interpretato la sua legge». In ore drammatiche, dieci giorni prima della richiesta del Gran consiglio del fascismo a Mussolini di rinunciare al comando militare della guerra ormai perduta, da lui stesso firmata con Dino Grandi e Luigi Federzoni, Bottai ancora considerava gli anglo-americani e quanti li sostenevano, estranei all'Europa e alla “civiltà occidentale” (quale?), a tacere della Russia, da lui e altri ritenuta asiatica.

Di tutt'altro avviso erano gli italiani “pessiottimisti” evocati da Salvatore Satta in “De Profundis” (ed. Adelphi), inclini a «regolare la loro condotta secondo il principio “salus ab inimicis”». Essi si attendevano la liberazione dalla sconfitta, perché, «come sempre accade, i disegni della provvidenza sono attuati dal diavolo». Lo insegna il libro sapienziale dell'Antico Testamento in cui si narra che Jahve mandò suo figlio Satana a tormentare Giobbe. Con finissimo acume, Satta osservò che nel 1940 gli unici in Italia a desiderare veramente l'intervento dell'Italia in guerra e lo volevano «a fianco dell'odioso alleato, erano coloro che ritenevano che una simile guerra sarebbe stata verosimilmente perduta e con essa il regime che gravava sul paese da vent'anni come una cappa di piombo». Come nel 1922 aveva creduto di salvarsi rifiutando la libertà che lo aveva fino allora protetto, così nel 1940 l'“uomo tradizionale” sperò di recuperare la libertà auspicando la sconfitta della propria patria.

Mentre il regime imprecava “Dio stramaledica gli inglesi”, come ricordò l'insigne penalista Franco Cordero nell'imperdibile romanzo “L'Opera” (Bompiani 1975), a Cuneo, ove risuonavano gutturali gli ordini in tedesco, i padri gesuiti, che sapevano guardare lontano, insegnavano agli allievi i rudimenti dell'inglese.

 

Fascismo: cioè?

“Che cosa” fu il “fascismo”? Che cosa volle dire “essere fascisti” nel discontinuo “ventennio”? Quando e come nacque il suo rifiuto da parte di quanti l'avevano condiviso, sopportato, celebrato negli “anni del consenso”, di cui scrisse Renzo De Felice in pagine insuperate? Per venirne a capo è indispensabile fare i conti con il “pensiero” o, senza esagerare, con le parole di Benito Mussolini. Impossibile prescinderne. Sarebbe però disperante avventurarsi nelle decine di volumi degli scritti e discorsi del “duce” per distillare la sua “idea” del fascismo. Per rispondere Galli imboccò la via più breve e sicura: rileggere quanto Mussolini firmò nell'Enciclopedia Italiana alla voce “Fascismo”: un testo intitolato “Dottrina”, ripartito in “Idee fondamentali” e “Dottrina politica e sociale”.

Senza entrare nella questione della paternità di quelle pagine (il duce era di penna rapida ed efficace, ma ognuno coglie che il paragrafo introduttivo spesso ricalca parola per parola l'articolo di Giovanni Gentile sulla legge istitutiva del Gran Consiglio del fascismo pubblicato in “Educazione fascista” il 9 settembre 1928), quella voce “fa testo”, ancorché sconcertante per il suo andamento rapsodico. Pur costretti agli inevitabili “tagli” imposti dalle dimensioni di un articolo, merita ripercorrerne i passi salienti, nel rispetto del criterio “ex ore tuo te judico”. La comprensione di frasi spesso involute e oracolari richiede uno sforzo; ma da lì occorre passare. «Come ogni salda concezione politica – scrive dunque Mussolini –, il fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, ne resta inserita e vi opera dal di dentro. Ha quindi una forma corporativa alle contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità nella storia superiore del pensiero. (…) Per conoscere gli uomini bisogna conoscere l'uomo; e per conoscere l'uomo bisogna conoscere la realtà e le sue leggi (…). L'uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione».

Il fascismo si proponeva dunque quale «concezione spiritualistica, sorta anch'essa dalla generale reazione del secolo contro il fiacco materialismo positivistico dell'Ottocento. Antipositivistica ma positiva: non scettica, né agnostica, né pessimistica, né passivamente ottimistica, come sono in genere le dottrine (tutte negative) che pongono il centro della vita fuori dell'uomo, che con la sua volontà può e deve crearsi il suo mondo». Il fascismo – aggiunse il “duce” – «concepisce la vita come lotta (…) La vita, perciò, (…) è seria, austera, religiosa». «Prima di tutto un sistema di pensiero», il fascismo era «una concezione storica, nella quale l'uomo non è quello che è se non in funzione del processo spirituale a cui concorre, nel gruppo familiare e sociale, nella nazione e nella storia, a cui tutte le nazioni collaborano. Fuori della storia l'uomo nulla».

Nemico del “liberalismo classico”, il fascismo era “per la libertà” ma «per la sola libertà dello stato e dell'individuo nello stato. Giacché per il fascismo tutto è nello stato, e nulla di più umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo. Né individui fuori dello stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi)». Con la prima legge “fascistissima”, nel 1925 Mussolini si era affrettato a sbarazzarsi della Massoneria italiana, nel silenzio di quella “universale”. A costruire l'Italia fascista era «non razza, né regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da un'idea, che è volontà di esistenza e di potenza: coscienza di sé, personalità», nazione creata dallo stato e a sua volta «realtà etica che esiste e vive in quanto si sviluppa», forza spirituale, “anima dell'anima”. «Educatore e promotore di vita spirituale» il fascismo esigeva pertanto «disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata». Tali “idee fondamentali”, enunciate con formule arcane e più poetiche che teoretiche, potrebbero risultare impenetrabili. Ma lì stava la loro forza suggestiva: dalla realtà quotidiana al mito, che non chiede comprensione razionale ma partecipazione emotiva, non tollera il confronto dialogico ma impone “la fede” (che non sta per “fiducia”).

Nel paragrafo sulla “Dottrina politica e sociale” Mussolini rivendicò di essersi sempre ispirato alla “dottrina dell'azione”. Alla sua fondazione in Milano il 23 marzo 1919 il fascismo «fu azione, non fu partito, ma, nei primi due anni, antipartito e movimento», come hanno convenuto gli storici, da Gioacchino Volpe a Luigi Salvatorelli, da Renzo De Felice a Roberto Vivarelli. I fasci di combattimento non ebbero una dottrina ma si nutrirono di “anticipazioni” e di “accenni” che «liberati dall'inevitabile ganga (sic!) delle contingenze, dovevano poi, dopo alcuni anni, svilupparsi in una serie di posizioni dottrinali», sicché nel decennale della “Marcia su Roma” si poteva affermare che esso era «nettamente individuato non solo come regime, ma come dottrina», come tentò di documentare la Mostra della Rivoluzione Fascista.

 

Monarchia? Chiesa “nazionale”?

Un colpo al cerchio, uno alla botte, lasciate alle spalle le prime involute pagine sulle Idee fondamentali, Mussolini consegnò all'Enciclopedia Italiana alcune convinzioni programmatiche di lungo periodo, sottovalutate dalla generalità dei lettori pur usi a meditare sulle parole stampate. In primo luogo dichiarò che il fascismo «non crede alla possibilità né all'utilità della pace perpetua». Vent'anni prima anche Benedetto Croce aveva irriso il pacifismo umanitario predicato dai massoni, salvo scoprire nel 1914 il volto della guerra nell'età della seconda industrializzazione e delle “masse”.

Poiché «solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla», il duce spiegò che la politica demografica è la conseguenza di quella “visione”.

Forse non aveva letto attentamente o non aveva capito Giulio Douhet, pioniere dell'Aeronautica: ci vogliono due mesi per fare un cannone, ma vent'anni per fare un soldato. E pochi attimi per vederlo spazzar via. Ricordò che solo nel 1922 il fascismo accantonò l'originaria “tendenzialità repubblicana” perché «convinto che la questione delle forme politiche di uno stato non è, oggi, preminente (…) Ci sono repubbliche intimamente reazionarie o assolutistiche, e monarchie che accolgono le più ardite esperienze politiche e sociali». Fatti i conti con la Corona, Mussolini passò alla Chiesa cattolica. Recuperato il pensiero di Tommaso d'Aquino per liberarsi dalla polvere della “questione romana” e riprendere la sua missione universale, la Santa Sede, a quanto si sa, aveva avanzato ferme riserve già sul primo abbozzo della “summa” dottrinale musso-gentiliana. Lo stato fascista (scrisse il duce dando per scontato che il Regno d'Italia, ovvero lo Stato da lui ossessivamente evocato, fosse totalmente fascistizzato) «non rimane indifferente di fronte al fatto religioso in genere e a quella particolare religione positiva [non religione “rivelata”, NdA] che è il cattolicesimo italiano. Lo stato non ha una teologia, ma ha una morale […] il fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio così come è visto e pregato dal cuore ingenuo e primitivo del popolo». La religione cattolica apostolica romana dichiarata sola religione dello stato nello statuto albertino era dunque banale “credulità popolare”? «Ben altro» voleva il regime dai cittadini: mentre «non mai come in questo momento i popoli hanno avuto sete di autorità, di direttive, di ordine» l'“impero” chiedeva agli italiani «disciplina, coordinazione degli sforzi, dovere e sacrificio». Credere, obbedire, combattere. Con i risultati ben noti per chi volle la dichiarazione di guerra contro la Gran Bretagna e la Francia, l'Unione sovietica e gli Stati Uniti d'America senza disporre degli strumenti né di attacco né di adeguata difesa.

La sintesi dottrinale suprema del “fascismo secondo Mussolini”, suo inventore, esegeta e profeta per il secolo XX, è infine contenuta nella celebre dichiarazione antipacifista: «L'orgoglioso motto “me ne frego”, scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto eroica, è il sunto di una dottrina non soltanto politica: è l'educazione al combattimento, l'accettazione dei rischi che esso comporta; un nuovo stile di vita italiano». Non vedeva o preferiva non vedere le spallucce ironiche delle moltitudini che subivano i sabati fascisti, i salti nel cerchio di fuoco e “se ne fregavano” delle aquile, delle legioni e di tutte le astruserie di una ideologia sproporzionata rispetto alle reali dimensioni di un'Italia appena nata, vissuta con il fucile al piede nel 1862, 1866, 1870, 1890-1896, 1911-1912, duramente provata dall'intervento forzato nella Grande Guerra e ancora lontanissima dal benessere, come documenta il censimento del 1931.

 

In assenza della “cosa”.

Il governo impose l'iscrizione al Partito nazionale fascista, unico consentito, agli aspiranti ai pubblici impieghi e il giuramento di fedeltà al fascismo agli insegnanti di ogni ordine e grado, docenti universitari compresi. Alle elezioni ottenne plebisciti come l'aveva avuto nelle elezioni del 24 marzo 1929, propiziate dal Concordato tra lo stato e la Santa Sede. Ma più allargava i suoi tentacoli più il “fascismo” perdeva di identità. Nato senza dottrina per dichiarazione del suo stesso duce, affidò la sua definizione all'Istituto di Cultura Fascista presieduto da Gentile. Inventò anche la “Mistica fascista”. Rimase una polifonica senza spartito, palestra di fumisterie, come erano anche le elucubrazioni dei comunisti sulla continuità logico-cronologica tra Karl Marx e la Terza Internazionale di Lenin, Stalin e accoliti.

A distanza di quasi un secolo dal Manifesto degli intellettuali fascisti, bene si comprende perché la risposta scritta da Benedetto Croce al lettore odierno risulti prolissa se non nella contrapposizione della libertà al manganello. Come già il filosofo partenopeo, così lo storico e il cittadino razionale si domandano se abbia senso dichiararsi “anti” rispetto a una “cosa” indefinita, cangiante e imprecisata quale fu il “fascismo” nelle sue molteplici versioni: da quello della Carta del Lavoro a quello della Scuola, da quello monarchico di Cesare Maria De Vecchi e di Emilio De Bono a quello repubblicano che condannò a morte e fece fucilare al poligono di Verona i gerarchi, compreso il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, colpevoli di aver tentato di tirare fuori dai guai il duce proponendogli di passare il comando della guerra a Vittorio Emanuele III, il Re di Peschiera e di Vittorio Veneto. Interrogarsi sull'assillante “obbligo” di dichiararsi antifascisti, tanto più se “a comando” di chi si mostra digiuno di storia e di filosofia, non significa essere “nostalgici”. Presuppone invece la necessità di chiarire il Soggetto storico e ideologico dal quale prendere le distanze e stabilire, infine, chi ancora si dovrebbe condannare dopo la mattanza di fine aprile-inizio maggio 1945. Quello non fu un “regolamento dei conti”, ma il modo per evitare di farli, di guardare in faccia la storia. Fu il tentativo di scansare ancora una volta l'“esame di coscienza” che – insegna il catechismo di san Pio X – deve precedere la confessione e la penitenza. In quei giorni l'Italia fece il triplo tuffo carpiato da regime totalitario a democrazia parlamentare, subito confiscata dai partiti, molti dei quali oggi hanno meno iscritti di quante persone si ammassino in uno stadio. Relegò il fascismo nel passato remoto e s'illuse di camminare per sempre su sterminate praterie.

Ebbe buoni motivi Giorgio Galli ad annotare tanti anni addietro l’oggettiva continuità della “narrazione” del fascismo nell'Enciclopedia Italiana anche nelle appendici pubblicate nel dopoguerra. Ebbe torto invece a definire “scialba” la figura di Vittorio Emanuele III al quale il Gran Consiglio si rivolse nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943. I gerarchi e Mussolini medesimo non sapevano che il re aveva approntato da tempo la revoca del duce, la sua sostituzione con Pietro Badoglio e la richiesta di armistizio: l'unico modo per chiudere la partita aperta da tempo con l'estremismo facinoroso e salvare la continuità dello Stato, cioè dell'Italia odierna che tanto disputa su fascismo e antifascismo e dimentica chi la fondò.

L'oblio fa tutt'uno con i complessi di colpa, con l'incapacità di superare l'estenuante adolescenza e di accettare i segni impietosi dell'incombente vecchiezza.

Aldo A. Mola

Obelisco Mussolini al Foro Italico (Roma). Su Giorgio Galli v. il volume collettaneo “Politiche e altre culture” (ed. Biblion), curato da Rossana Mondoni e Vinicio Serino per l'Istituto di studi Giorgio Galli (Milano) presieduto da Daniele Comero.

La voce “fascismo” firmata da Mussolini per la “Dottrina” e da Gioacchino Volpe per la “Storia” comparve nel volume XIV dell'Enciclopedia Italiana (1932). A parte fautori del regime (ciascuno con la propria visione del “fascismo”), il Consiglio Direttivo dell'Istituto comprendeva il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, membro del Consiglio supremo del Rito scozzese antico e accettato (Gran Loggia d'Italia), e il prof. Angelo Sraffa (1865-1937), docente di diritto pubblico e dal 9 dicembre 1893 maestro massone nella loggia pisana “Carlo Darwin” (Grande Oriente d'Italia, matricola 9.938). Suo figlio, Pietro, fece arrivare i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci a Palmiro Togliatti, all'epoca alla corte di Stalin. Tra i direttori di sezione, redattori e collaboratori dell'Enciclopedia vi erano figurano studiosi niente affatto fascisti quali Enrico Fermi, Raffaele Pettazzoni, massone (storia delle religioni), il mazziniano Mario Menghini (storia del Risorgimento e contemporanea), Federico Chabod, Ugo La Malfa, Alberto Pincherle, Emilio Servadio. Nello stesso 1932 uscì il volume comprendente la ponderosa voce “Ebrei”, scritta in massima parte da Giorgio Levi della Vida.

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Articolo pubblicato il 07/05/2023