Presidenzialismo?
Bartolomeo (Meuccio) Ruini (Reggio nell'Emilia, 14 dicembre 1877 - Roma, 6 marzo 1970)

No, grazie è divisivo (di Aldo A. Mola)

Fiammelle e rintocchi di campane

Domenica di Pentecoste. In attesa che la fiammella di uno spirito santo scenda “magna et semper” a restituire un po' di elementare buon senso alla vita pubblica, il “sabato di riflessione elettorale” ha silenziato le urla comiziali di chi, a corto di argomenti, alza la voce e strabuzza gli occhi per darsi ragione e insulta l'avversari, sicché il “confronto” degenera in rissa. In tal modo vengono elusi i solenni moniti rivolti agli attori istituzionali, politici ed economici da parte di chi ha titolo per farlo. Ne ricordiamo almeno due. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sentito il bisogno di “chiamato a rapporto” i presidenti delle due Camere, Fontana e La Russa. Ha espresso il disappunto per la deriva del legislativo: troppi emendamenti, e troppo divaricati, deformano i testi di legge originari riducendoli a “omnibus” nei quali viaggia di tutto e di più, suscitando perplessità e contrarietà anche nelle Aule parlamentari, piegate con ricorso al voto di fiducia: ripiego con il quale il governo imbavaglia il dibattito e umilia le Camere, ricattate dall'incubo della crisi di governo. Quali conseguenze avrà l'intervento del capo dello Stato sul seguito dei lavori parlamentari? Di sicuro non potrà essere ignorato perché il Presidente può rinviare le leggi alle Camere e chiederne una nuova redazione o quanto meno una seconda votazione (è già accaduto in questi primi mesi di legislatura).

Non meno solenne, sei è fatto sentire il Fondo Monetario Internazionale. Anziché diminuire, il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è schizzato ulteriormente verso l’alto, raggiungendo quota 150, oltre la quale si spalanca l'abisso del fallimento finanziario dello Stato. Se continua così, nessuno darà più credito all’Italia, se non assumendo il controllo della sua capacità di restituire i prestiti. Non è la “fine dell’indipendenza” (che risale al 1943), ma l'effetto di quanto l'Italia si è impegnata a fare quando ha introdotto in costituzione il rispetto dei suoi “conti”, come fa (o dovrebbe fare) ogni famiglia. In risposta al FMI un ministro si è affrettato ad assicurare che l'Italia “farà”. Ma il Fondo Monetario Internazionale non rimarrà con le mani in mano se il rapporto tra debito e PIL dell'Italia dovesse peggiorare e finire fuori controllo, contagiando le economie di altri Paesi.

La stabilità dell'Italia è una variabile dipendente non solo dall'andamento del prodotto interno lordo e delle borse. Essa si fonda sul rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni, oggi assai altalenante. Lo ebbero chiaro i costituenti quando nell'articolo 1 della Carta scrissero: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Nel dibattito qualcuno propose di scrivere che la sovranità “emana” dal popolo: formula che però parve assai fumosa ad Amintore Fanfani, che difese la versione elaborata dalla Commissione dei Settantacinque, presieduta da Bartolomeo (Meuccio) Ruini, politico di lungo corso. I costituenti, del resto, avevano alle spalle il Regio decreto legislativo luogotenenziale (Rdll) 25 giugno 1944, n. 151 emanato da Umberto di Savoia, principe di Piemonte e luogotenente generale del Re per effetto del regio decreto di suo padre Vittorio Emanuele III, datato da Ravello il 5 giugno1944. Nell'articolo 1 esso sancì: “Dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà a suffragio universale diretto e segreto un'assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato”.

Quel Rdll segnò il distacco dallo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia-Carignano il 4 marzo 1848 di propria “certa scienza e autorità”: un “motu proprio”, forte del “parere del suo Consiglio”. La nomina di Umberto a Luogotenente Generale del Re (poi il governo impose: “del Regno”) era stata anticipata dal proclama indirizzato da Vittorio Emanuele III al popolo italiano il 12 aprile. Il sovrano vi annunciò la decisione “definitiva e irrevocabile” di ritirarsi dalla vita pubblica per “facilitare l'unità nazionale”, rivendicandola come deliberata “di certa scienza e autorità” mentre, nei fatti, gli era stata imposta dagli anglo-americani in combutta con i partiti del Comitato di liberazione nazionale pochi giorni dopo entrati nel secondo governo Badoglio.

L'Italia, scrisse Vittorio Emanuele III, da otto mesi era “in guerra contro il nemico a fianco con le truppe alleate”. Il Re, che conservò la corona, non aveva bisogno di indicare per nome i “nemici”. Essi erano la Germania di Adolf Hitler e i suoi alleati, incluso lo “Stato repubblicano” suo vassallo. In linea con la sua concezione del ruolo di monarca costituzionale, Vittorio Emanuele III esercitò per la penultima volta i suoi poteri di sovrano costituzionale (l'ultima fu l'abdicazione del 9 maggio 1946, decisa “motu proprio”).

A chi gli domandò perché avesse firmato il Rdll del 25 giugno 1944, che mutò radicalmente la sovranità trasferendola dal re al popolo, Umberto di Savoia rispose che a quel modo il governo, espressione del Comitato di liberazione nazionale, riconosceva la Corona e quindi, in assenza del Parlamento bicamerale statutario, esso si configurava quale micro-parlamento. I ministri e i sottosegretari di Stato, infatti, giuravano “sul loro onore di esercitare le loro funzioni nell'interesse supremo della nazione” e si impegnavano a non compiere fino alla convocazione dell'assemblea costituente atti che comunque pregiudicassero la soluzione della questione istituzionale”.

 

Una Carta per unire

La decisione della forma istituzionale, come noto, venne poi demandata non alla Costituente ma ai cittadini, che si pronunciarono nel referendum del 2-3 giugno 1946, mentre la Carta fu elaborata dall'Assemblea tra il giugno 1946 e il 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. La Costituzione ha il pregio di disegnare con chiarezza le “forme istituzionali”. L'Ordinamento dello Stato d’Italia è incardinato su due Camere, entrambe elettive, e sulla Presidenza della Repubblica. Per ciò che ha di meglio, esso ricalca dunque il modello configurato dallo Statuto albertino. Se questo durò un secolo, la Costituzione ha raggiunto i 75 anni senza scosse destabilizzanti. Regge sul bilanciamento dei poteri, tutti promananti del “popolo” ma al tempo stesso tutti al riparo da usurpazioni.

Come già lo Statuto, anche la Carta del 1948 mirò a promuovere l'unità dei cittadini, ponendo le istituzioni al sicuro da pulsioni emotive (prevalenti in caso di elezione diretta del Capo dello Stato). Perciò riconobbe al Presidente della Repubblica poteri persino superiori a quelli che lo Statuto riservava al Re. Mentre il sovrano costituzionale era tenuto a sanzionare e ad emanare le leggi approvate dal Parlamento, anche quando non le condivideva (fu il caso delle leggi anti-ebraiche), il Presidente “può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione” (art. 74).

Eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri e dai rappresentanti delle Regioni, il Presidente è figura metastorica, come era il Re. È capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale, ha il comando delle forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere, presiede il Consiglio superiore della magistratura, può concedere la grazia e commutare le pene ed è “fons honorum”. Non responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per altro tradimento o per attentato alla Costituzione (solo uno dei Presidenti, nel tempo, venne inopportunamente “indiziato”), prima di assumere le funzioni il capo dello Stato presta giuramento di fedeltà alla Repubblica dinanzi al Parlamento convocato in seduta comune per l'articolo 91 della Carta, che ricalca pari pari l'articolo 23 dello Statuto albertino secondo il quale: “il Re salendo al trono presta in presenza delle Camere riunite il giuramento di osservare lealmente il presente Statuto”. Nihil sub sole novi...

Solo 11 dei 51 partiti scesi in lizza il 2-3 giugno 1946 ottennero di spartirsi i “resti” confluiti nel “monte voti” del Collegio unico nazionale. I costituenti percepirono la necessità di rappresentare tutti i cittadini, al di là dei loro orientamenti ideologici. Per blindare la Repubblica, essi approvarono due norme transitorie e finali solitamente ignorate e tuttavia fondamentali: la XV (“Con l'entrata in vigore della Costituzione si dà per convertito in legge il decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151 sull'ordinamento provvisorio dello Stato”: si può ben dire che fu Umberto a germinare la Repubblica, senza immaginare quanto questa gli sarebbe stata ingrata) e la XVI, assai speranzosa e quindi inapplicata (“Entro un anno dalla entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione e al coordinamento con essa delle precedenti leggi costituzionali che non siano finora esplicitamente o implicitamente abrogate”). Come una legge possa essere abrogata “implicitamente” rimase un mistero gaudioso, tanto più in assenza della Corte Costituzionale costituita solo un decennio dopo.

Obiettivo supremo del nuovo Ordinamento fu, come detto, elevare la figura del Capo dello Stato al di sopra dei due corpi elettorali: il “popolo” e le Camere stesse. Il Presidente era, deve essere, “al di sopra”. Anche la sua durata in carica (sette anni, contro i cinque dei due rami del Parlamento) fu stabilita per liberarlo da ogni soggezione verso le Camere che lo eleggono e che, sentiti i loro presidenti, egli può sciogliere (la Carta non ne enuncia i motivi).

In sintesi, primo magistrato della Repubblica, il Presidente è il sommo sacerdote dello Stato: una figura ieratica, che non nasce dalla nuova forma istituzionale e che tra il giugno 1946 e il dicembre/maggio 1948 venne incarnata dai due primi di “capi provvisori”, Alcide De Gasperi per pochi giorni ed Enrico De Nicola per un anno e mezzo. Come già i Re, essa affonda radici nella storia millenaria dell'Italia e, in tempi ravvicinati, in quella secolare delle cospirazioni settarie per le libertà, dei moti liberali e delle guerre per l'indipendenza da dominazioni straniere e per l'unità: fondamento etico dei valori e dei diritti non negoziabili, riconosciuti dalla Carta, come già dallo Statuto.

A cospetto della ricorrente proposta di affidare ai cittadini l'elezione diretta del capo dello Stato ci si deve pertanto porre una sola domanda: essa concorrerebbe o no a unire gli italiani in una comunità finalmente affratellata o quanto meno ispirata a reciproca tolleranza e comprensione tra diversi “partiti”? Etimologicamente il “Partito” è l'opposto dell'unità: indica una partizione e quindi, inevitabilmente, una divisione e una contrapposizione.

Dalla proclamazione del regno d'Italia (14 marzo 1861), al vertice dello Stato si sono susseguiti quattro “capi” per successione dinastica (Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III e Umberto II), uno, Alcide De Gasperi, per “gesto rivoluzionario del governo” e dodici per elezione di secondo grado. Pur fra travagli, inclusi gli interventi in due guerre da europee divenute mondiali, il processo di maturazione della coscienza unitaria ha compiuto molti in avanti. Da meramente nominale ed estrinseca, l'idea di appartenenza a una comunità statuale si è andata via via consolidando. Lo si percepisce a fronte delle calamità naturali, quando si avverte più acuta la necessità di lasciare da parte quanto divide e di puntare su ciò che unisce (o così dovrebbe essere: purtroppo a volte affiorano meschini calcoli che mostrano il volto peggiore della “politica” e disgustano i cittadini). Anche l'indignazione dell'opinione pubblica dinnanzi a piccole e grandi violazioni dei diritti umani e alle storture nella cura del bene pubblico e nell'amministrazione della giustizia conferma che un ampio numero di cittadini sente la necessità di un arbitro super partes.

L'elezione diretta del capo dello Stato si risolverebbe nella divisione dei cittadini in fazioni contrapposte. L'Italia l'ha già sperimentato nel 1946, quando nell’elezione dei Costituenti quindici partiti ottennero propri rappresentanti. Alcuni di questi però ne ebbero ottennero un numero modesto o irrilevante. Fu il caso del Partito d'azione, che ne ebbe sette, seguito da Concentrazione democratica repubblicana che ne ebbe 2 (Parri e La Malfa) e dal Partito sardo d'azione, mentre i Cristiano sociali, la Democrazia del lavoro e il Movimento unionista italiani ne ebbero uno solo su 555. I veri “protagonisti” della Costituente risultarono tre: Democristiani (203), socialisti (115) e comunisti (104), seguiti a distanza da Unione democratica nazionale (41) e Blocco nazionale della libertà (16), echi ormai minoritari del Risorgimento e della monarchia, come attestano gli studi di Aldo G. Ricci. Ma al referendum sulla forma dello Stato il Paese apparve spaccato a metà: su 28 milioni di aventi diritto al voto, 12.700.000 si espressero a favore della Repubblica 10.700.000 per la Monarchia; 1.500.000 consegnarono scheda bianca. Il corpo elettorale risultò lacerato. La Repubblica infine prevalse non solo e non tanto perché partendo per l'estero il non ancora esule Umberto II sciolse dal giuramento di fedeltà alla Corona quanti l'aveva pronunciato (una minoranza di uomini dello Stato”: militari, diplomatici, magistrati, docenti, impiegati pubblici...), ma perché essa fece terra bruciata per i monarchici, messi all'angolo, finiti in un cono d'ombra e poi in gran parte intruppati sotto lo scudo crociato della DC.

Ma che cosa accadrebbe oggi se l'elezione del capo delle Stato avvenisse con voto diretto dei cittadini? I soccombenti accetterebbero l'esito delle urne e un “vincitore” prevalente per una manciata di voti (discussi) come avvenne per le elezioni delle Camere? Il Paese precipiterebbe nella contrapposizione implacabile di opposte tifoserie”, a rischio di deflagrazione delle sue istituzioni, come accade oltre Atlantico.

Il “premierato” (neologismo che sta alla lingua di Dante come il “made in Italy” propugnato da sovranisti) elude i rischi del “presidenzialismo”? Il tema merita apposita trattazione.

Bartolomeo (Meuccio) Ruini (Reggio nell'Emilia, 14 dicembre 1877 - Roma, 6 marzo 1970), laureato in giurisprudenza, collaboratore di “La Critica sociale” diretta da Filippo Turati e Claudio Treves, eletto deputato nel 1912 nel collegio di Castelnuovo ne' Monti per il partito radicale, ministro delle Colonie nell'ultimo governo Nitti, fondatore dell'Unione Nazionale (1924), dal 1943 rappresentò il Partito democratico del lavoro nel Comitato di liberazione nazionale. Nel 1901 fu affiliato col grado di maestro massone nella pugnace loggia “Rienzi” di Roma, come documenta Marzia Taruffi in “1946-2016. 70° della Repubblica italiana. Ideali e uomini della Massoneria per la Costituzione”, Quaderni dei Martedì Letterari del Casinò di Sanremo, ed. De Ferrari, 2016. Ruini presiedette la Commissione dei Settantacinque che elaborò la bozza della Carta costituzionale. Da segretaria della Commissione funse Leonilde Jotti, deputata del Partito comunista italiano e fiduciaria di Togliatti.

Il repertorio dei presidenti eletti della Repubblica è nel volume di Tito Lucrezio Rizzo “Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, 1848-2022” (ed. Roma, Herald, 2022), comprendente i profili di Enrico De Nicola e Luigi Einaudi (entrambi liberali e monarchici), Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella (i due ultimi rieletti), cui Rizzo aggiunge Cesare Merzagora, supplente durante la malattia di Segni. Talvolta i presidenti vennero eletti dopo molti scrutini e con stretto margine di vantaggio. La divisione fu superata perché non contagiò il Paese e non alimentò la contrapposizione tra le opposte fazioni. Quanto gli italiani possano dividersi fu dimostrato dal referendum per l’abrogazione del divorzio, imposto a Fanfani da vetero-clericali. Dopo una campagna dai toni accesissimi il “No” prevalse” con quasi i 60% dei consensi. I “vinti”, però, non si rassegnarono alla sconfitta, subìta come un’onta e deplorata come tramonto della civiltà. A.A.M.

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Articolo pubblicato il 28/05/2023