Fotografia di ricordi (prima parte)

A cura di Luciano Brussino

Fotografia di ricordi” vuole essere, con tutti i limiti immaginabili, un breve sunto, in parte autobiografico, dei gusti e della evoluzione che hanno accompagnato la vita dei fotoamatori sin dal 1970.

Innanzitutto, definiamo la parola fotografia. Fotografia, come spesso accade nella nostra lingua, deriva dall’unione di due parole del greco antico: phos e graphè. La prima significa luce mentre la seconda si traduce in scrittura o disegno: ovvero: la scrittura eseguita con la luce.

Non è certo questa la sede per fare la storia della fotografia, di cui abbondano tutti i siti web specializzati, però è comunque utile ricordare che, la prima volta che si descrive il processo della camera oscura, risale al V secolo a.C. ad opera del filosofo cinese Mo-Ti (Mo.tzu; Micius).

Tralasciando tutti i vari esperimenti che nei secoli si sono succeduti, abbiamo, universalmente, assunto il 1827 come data a cui fare risalire la prima foto giunta a noi ad opera di Joseph Nicephore Niepce che dalla sua camera da letto fotografò il paesaggio antistante. Qualche maldestro pensatore ha detto che nel 1827 è morta la pittura a favore di un’arte più efficace nel riprendere la vita circostante e non immaginava certo che un giorno avrebbero inventato gli smartphone.

La nostra storia invece inizia ben dopo il 1827, nel 1970.

In quell’anno, periodo in cui i Governi mutavano ad ogni battito di ciglia, Presidenti del Consiglio furono, nell’arco di pochi mesi, Mariano Rumor ed Emilio Colombo, Presidente della Repubblica era Giuseppe Efisio Giovanni Saragat e noi umani, appassionati di fotografia, sapientemente guidati da fiorenti multinazionali del consumo, con lenta presa di coscienza indotta da campagne pubblicitarie irresistibili ci accorgemmo “improvvisamente” che era possibile fotografare non solo alle grandi occasioni come matrimoni, compleanni, cresime, battesimi, la prima fidanzata, ma tutto il mondo che ci circondava, persone comprese, nei meravigliosi anni in cui anche se rubavi un ritratto curioso facendo della street photography, scusate, fotografia di strada, non venivi denunciato, non pagavi multe salatissime e la privacy si chiamava ancora riservatezza, ma aveva tutto un altro significato.

Quando ci rendemmo conto drammaticamente che la vecchia Ferrania Ibis ricevuta in dono nei pacchi natalizi della Fiat da bambini non era adatta e performante per creare le immagini che la stampa di settore proponeva come ineludibili, per noi amatori fotografici, il primo passo verso la fotografia di massa era fatto, al resto pensarono i giapponesi...

Ora ci scuseranno coloro i quali detestano ogni sorta di argomento tecnico, ma per capire la profonda rivoluzione nel campo della fotografia di quegli anni, un breve, brevissimo cenno alla tecnica deve essere fatto.

Noi in Italia i presupposti per poter iniziare una produzione fotografica li avremmo anche avuti, Bencini, San Giorgio, Ducati, sono nomi che oggi non dicono niente alla quasi totalità dei fotografi, come tanti altri produttori nostrani che non sono mai riusciti a decollare. Cito un esempio.

Nel lontano 1948, venne presentata la prima e unica reflex prodotta nel nostro Paese, la RECTAFLEX con innesto a vite.

Ma gli italiani, esterofili da sempre, non seppero resistere al modello molto simile prodotto da Carl Zeiss di nome Contax S e la Rectaflex nostrana non ebbe più mercato.  

Dunque, fino agli anni 70 l’Europa fotografica era completamente nelle mani della Germania: Zeiss, Leitz, Rollei, Exakta, Leica e Contax avevano un così alto tasso tecnico e di gradimento che nessuno avrebbe potuto prevedere la catastrofe incombente.

I giapponesi erano considerati dei mediocri imitatori e le loro ottiche non all’altezza dell’industria europea.

Poi un fotografo americano, tal David D. Duncan, sicuramente non conscio delle conseguenze che il suo gesto avrebbe generato, tentò un “trapianto” di ottiche giapponesi Nikon-Nikkor sul corpo della germanissima Leica. Il risultato fu straordinario, convincendo anche i più accaniti detrattori delle lenti nipponiche.

Il secondo colpo mortale all’occidente fotografico fu l’onda lunga con la quale arrivò nei nostri negozi la Nikon F. Una reflex professionale dotata di mirini intercambiabili, ottiche intercambiabili con innesto a baionetta Nikkor, motore elettrico per il trascinamento della pellicola ed un prezzo decisamente più basso della concorrenza tedesca.

A renderla uno status symbol irrinunciabile fu il film di Michelangelo Antonioni BLOW UP del 1966. Noi aitanti fotoamatori, anche parecchio squattrinati, come potevamo resistere al canto delle sirene? Chi poteva faceva sacrifici ma si dotava di tutto il corredo, corpo macchina, almeno due obiettivi, filtri, paraluce e borsone capace di contenere il tutto. Perché si sa, la credenza che la bella foto dipenda dal valore dell’apparecchio fotografico (e non da quella parte nascosta del cervello che sa discernere tra il bello e l’inutile, il cosiddetto “colpo d’occhio”), non morirà mai.  

Fatto sta che la Nikon F decretò la fine della supremazia europea nel campo delle reflex, supremazia che in quegli anni come detto era totale appannaggio della produzione tedesca.  

In quei lontani anni dunque erano le Nikon ma anche le Canon, le Minolta e le Olympus a contendersi un mercato milionario in espansione. Si fotografava con pellicole in bianco e nero (quelli che intimamente si sentivano artisti e seguaci dei grandi della fotografia: Helmut Newton, Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Franco Fontana, Oliviero Toscani) mentre i più raffinati facevano diapositive, organizzando poi terrificanti serate fantozziane. Con teli enormi e apparecchiature di proiezione, si invitavano gli amici - con la scusa di bere un bicchiere di buon vino - e per tre ore li si sottoponeva alla visione di immaginifici e desiderati paradisi caraibici che purtroppo però, con tutto il rispetto e i distinguo, erano le spiagge di Borghetto o di Ceriale. Ma la passione era tanta e genuina e tutto era giustificato.

Poi scoppiò improvvisa la moda dello Still Life. Estremamente poco chic chiamarla “natura morta”. In pratica, fomentati da argute riviste fotografiche, scoprimmo che non occorreva fare viaggi, uscire di casa, per fotografare. Si poteva fare tutto e spendere, anche dove l’arte era più imprevedibile: nella nostra cucina, nel nostro tinello: un vaso di fiori, un cestino di frutta, la pipa del nonno... l’importante era fotografare, sempre e comunque.

Ma non era ancora abbastanza per sentirsi coinvolti appieno. Per creare le nostre “opere d’arte” dovevamo completare il processo dalla ripresa al prodotto finito: la stampa. Si diffuse così l’insana necessità di sottrarre uno spazio al bagno di casa per attrezzare un piccolo laboratorio fotografico “fai da te” composto da bacinelle per gli acidi di stampa, ingranditore e tutto il corredo necessario per sviluppare il negativo e poi stamparlo. L’ingranditore che andava per la maggiore, piuttosto costoso, ma validissimo era il Durst M600, gli acidi di sviluppo pellicola si chiamavano Rodinal o Ilfosol, le carte fotografiche più apprezzate erano le Ilford.

E così tra la disperazione di genitori o consorti, invitando uno o due amici, chiusi in un angusto bagno o sgabuzzino, illuminati da surreali luci rosse o gialle, si arrivava alle tre di notte. Ma la soddisfazione di vedere una foto perfetta 30x40 e dire “È opera mia dall’idea alla stampa” era impagabile.  

In quegli anni le macchine erano nella maggior parte completamente meccaniche. I puristi le prediligevano e addirittura si bullavano nell’utilizzare l’esposimetro a mano con il quale, ove possibile, ci si avvicinava agli oggetti da fotografare, si misurava la luce incidente, poi si impostava tempo di posa e diaframma sulla macchina foto e finalmente si scattava la fotografia. È ovvio, come si vede, che questa tipologia di fotografia era essenzialmente statica e limitante.

Alla fine, anche questa categoria di eroi dovette arrendersi alle macchine con esposimetro interno. Si seleziona un tempo o un diaframma in base alla caratteristica di foto che si vuole ottenere e la macchina automaticamente sceglie la coppia di valori ottimali. Con breve passaggio tecnologico, si arrivò a proporre l’opzione, per i meno preparati o appassionati, del “tutto automatico”. In pratica si inquadra e si scatta, finito, non si deve pensare. In fondo, con tutti i distinguo del caso, come si faceva con la famosa Ferrania Ibis del papà tanti anni prima... e il cerchio si è chiuso. 

Luciano Brussino - Fine prima parte - Continua

 

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Articolo pubblicato il 06/10/2023