Fotografia di ricordi (seconda e ultima parte)

A cura di Luciano Brussino

Mentre noi discutevamo di tempi di posa, dell’opportunità di passare dall’ottica a vite a quella a baionetta e l’iperfocale era la buccia di banana sulla quale scivolavano i meno esperti, alle nostre spalle, nel 1975, un ingegnere elettronico statunitense, tal Steven Sasson, dipendente Kodak mise a punto uno strumento con il quale effettuò la prima fotografia digitale della storia.

Come si vede, indipendentemente dal solare sorriso di Steven, un apparecchio con ancora qualche piccolo problema di maneggevolezza, ma al di là di questi impercettibili problemi fu proprio la Kodak, dopo attenta valutazione, a nascondere, terrorizzata, in cassaforte il progetto, ben consapevole delle conseguenze che avrebbe avuto sul mercato delle pellicole e delle fotocamere analogiche (cosa che inevitabilmente accadde alcuni anni dopo con esiti disastrosi per le vecchie industrie di pellicole e apparecchi fotografici).

In effetti, nonostante i tentativi di Kodak, il progresso non si poté arrestare. Si arrivò al 1981, considerato l’anno della rivoluzione fotografica. Il fondatore della Sony, Akio Morita, presentò la reflex Mavica (Magnetic Video Camera): era questa la prima fotocamera digitale in grado di memorizzare le immagini su di un floppy disk. Con buona pace di tutti era nata la fotografia digitale.

Quando arrivarono le prime macchine fotografiche digitali in Italia, nei primi anni Novanta, si scatenò la lotta tra progressisti e nostalgici. Gli uni sostenevano che con la digitale si risparmiavano un sacco di soldi in pellicole, sviluppo e stampa, oltre ad avere l’incredibile possibilità di vedere immediatamente il prodotto, scaricarlo su un pc, modificarlo, correggere i colori, i difetti di inquadratura ecc. ecc. Gli altri argomentavano che quella non era più fotografia, ma arte grafica massificata.

Col tempo i nostalgici divennero una minoranza così esigua da essere ormai confinati in apposite riserve, dove ci si scambia le pellicole come rari oggetti di culto e, seduti la sera attorno al fuoco, si ricordano i tempi in cui le fotografie erano archiviate in album colorati, con le bustine laterali per contenere i negativi. 

Per i progressisti, comunque, il passaggio al nuovo mondo fotografico non fu del tutto indolore. Le nuove macchine erano care e ci fu un fiorente mercato per riconvertire l’analogico con il digitale, ma alla fine il passo era stato fatto e il mercato doveva convincere che tutti, ma proprio tutti, potevano e dovevano fotografare.

Così una mente geniale, nelle lunghe giornate trascorse a pensare su come massificare ulteriormente i profitti delle case fotografiche, ebbe una intuizione straordinaria. Partendo dal postulato che molti fotoamatori, ancora nella fase dell’indecisione, sarebbero entrati volentieri nel mondo magico del “cattura l’immagine e fa di te un artista” ma, il pensiero di dover avere un corpo macchina (pesante), almeno tre obiettivi (pesanti), filtri, paraluce e magari un dorso motore, un piccolo treppiede e un capiente borsone per contenere il tutto - oltre che estremamente costoso, anche ingombrante - finiva per demotivare molti appassionati.

Bisognava dunque subito provvedere e coprire questa fetta di mercato consistente e desiderosa. E la mente geniale di cui sopra progettò la Bridge. Era il 1990.

Come dice il nome un “ponte” tra un tipo di fotografia ed un altro più leggero, più immediato, più universale senza dover pagare un prezzo troppo alto alla qualità e all’apparenza esteriore. Le Bridge, che naturalmente i puristi considerarono subito di qualità inferiore (e sbagliavano) come resa rispetto alle vecchie macchine reflex con obiettivi intercambiabili, avevano un unico obiettivo che copriva ogni necessità, da grandangolo a teleobiettivo, super elettronica e super accessoriata, erano in grado di fotografare in qualsiasi occasione e condizione di luce. Fu un progetto così valido che tutte le case si buttarono nella nuova avventura, saturando il mercato con centinaia di prodotti. Ma se pensate che tutto sia finito qui, sbagliate.

Perché a volte è l’industria a creare un bisogno, ma a volte il bisogno nasce dall’utente finale e l’industria non fa altro che assecondarlo.

Così il primo fotoamatore che azzardò il pensiero “Sì, però quando sono in viaggio o in città per cogliere immagini al volo non posso avere tutto questo peso addosso” aveva tracciato la strada e nacquero le compatte. Per chi non voleva rimanere fedele alle reflex con gli obiettivi intercambiabili, e i relativi borsoni, ma non voleva nemmeno arrivare alle Bridge, anche per una questione di costo, o semplicemente per una questione di dimensioni, si crearono le cosiddette compatte: macchine fotografiche piccole in alcuni casi piccolissime con obiettivi piuttosto validi di lunghezza focale variabile, che alla fine riuscivano a fare ugualmente delle ottime fotografie in un regime di totale praticità e bassi consumi economici. All’interno di queste tre categorie, ultimamente, i maghi del marketing sono riusciti ad inserire un’altra tipologia di macchina fotografica di costo superiore alla media che si chiama Mirrorless.

Una via di mezzo tra una reflex è una compatta. L’obiettivo è sempre intercambiabile, ma il meccanismo non dipende dallo specchio interno, il sensore è di dimensioni generose per garantire massima qualità all’immagine, ma lo zoom è di ridotta portata a causa proprio del sensore. Oggi come oggi, è il massimo per chi vuole fotografare lanciando il messaggio “io sono un fotoamatore evoluto anzi evolutissimo”.

Intanto il tempo scorreva con la velocità e l’incidenza di una palla di neve che diventa valanga.

Dopo la presentazione delle prime digitali, Panasonic Lumix, Sony, Samsung, Nikon, Canon, Pentax, Olympus, Fuji, solo per citare i colossi, assaltarono e saturarono il mercato. l’invasione coreano-giapponese era compiuta.

Ma, per arrivare alla morte della fotografia così come intesa dai “padri fondatori”, dobbiamo scavallare il millennio e arrivare al 2002, quando, quasi senza troppa pubblicità e con iniziale poco interesse del pubblico, la Nokia presentò il primo cellulare con fotocamera integrata, il 7650.

Avvenimento epocale e innovativo che in poco tempo rivoluzionerà ogni nostra abitudine fotografica.

Nel 2003 le vendite di fotocamere digitali superarono quelle delle fotocamere analogiche.

Nel 2009 venne interrotta la produzione della mitica pellicola Kodakrome per assenza di richiesta e nel 2012 Kodak si arrese definitivamente arrivando al fallimento. La pietra tombale sulla fotografia analogica era stata posta.

I negozi di fotografia di un tempo, afflitti dai centri commerciali di elettronica, dalle vendite on line, dai cellulari ormai piccole macchine fotografiche e orfani dei lucrosi guadagni derivanti dalla vendita delle pellicole e dallo sviluppo e stampa delle stesse, stanno lentamente scomparendo tutti.

Dunque, oggi cosa ci è rimasto?

Una ristretta élite di fotoamatori, fedeli alle origini, con a volte velleitarie pretese artistiche, continua a fotografare con apparecchi ormai forse più di immagine che di sostanza, mentre il resto del mondo usa lo smartphone, ormai macchina fotografica universale con la quale, incredibile, si può persino telefonare, inviare messaggi e fare ricerche su internet. Ovunque si vada, strade, piazze, luoghi di vacanza o di lavoro, si vedono schiere di persone con le braccia allungate nel tenere un piccolo rettangolo di plastica. Stanno, compulsivamente, immagazzinando immagini di ogni tipo cercando, probabilmente, di catturare un’idea, un pensiero, un attimo di vita che spesso non si guarderà mai più, archiviato in cartelle e sottocartelle dello smartphone o del computer, dimenticato e magari cancellato dalla periodica pulizia delle memorie.

FOTOGRAFIA… Sic transit gloria mundi.

Luciano Brussino - Fine

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Articolo pubblicato il 07/10/2023