Dal disastro di Brandizzo una nuova onda di giustizialismo?

L'Opinione del professor Gianluca Ruggiero

Dopo il disastro del 31 agosto scorso, infuriano le polemiche sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e di quanto la giustizia penale sia inefficiente e inefficacie per garantirla.

Di seguito alcune domande interlocutorie. Siamo davvero sicuri che debba essere esclusivamente la giustizia penale a garantire la sicurezza dei lavoratori? Da taluno si è proposto di istituire una procura nazionale per la sicurezza sul lavoro (Guariniello su Il fatto quotidiano 1 settembre 2023). Così facendo, però, si indulge a facili giustizialismi, populismi politico-giudiziari e ad una mal compresa politica criminale.

Se al diritto penale vuole attribuirsi il compito di prevenire la realizzazione dei reati (come quelli della specie realizzatisi), andrebbero rivisti parecchi decenni di produzioni scientifiche e di istanze normative tese (purtroppo anche attraverso una poco oculata depenalizzazione) alla riduzione del penalmente rilevante. Quello che si è letto subito dopo la tragedia si pone come una presunta verità oramai quasi assunta a dogma di fede: la giurisdizione penale deve presidiare ogni ambito della vita pubblica ed è compito del giudice garantire il cittadino da possibili pericoli.

Gli stralci di affermazioni da parte di operatori qualificati, acriticamente diffusi attraverso i media, sono parecchio insidiosi per la giustizia penale e riflettono quanto già ammonito da Leonardo Sciascia contro il grave rischio, oltre che di errori giudiziari, di un fanatico giustizialismo connesso ad elevare i tribunali ad altari sacri, con conseguente idolatria nell’operato dei magistrati inquirenti e giudicanti.

I “pretori d’assalto”, nostalgicamente evocati, hanno certamente avuto il merito, in un Paese dove la Magistratura ha rappresentato da sempre un punto di riferimento per la tutela dei diritti, di far pressione sul legislatore, attraverso il ricorso ad interpretazioni creative e creatrici della vetusta legislazione penale, affinché si attivasse nel criminalizzare le violazioni di beni giuridici costituzionalmente rilevanti: ambiente, paesaggio, salubrità pubblica, inquinamento elettromagnetico (pensiamo alle decisioni in materia di “getto pericoloso di cose”).

Molte di queste attività di “ortopedia giuridica” si sono poste in evidente attrito con il principio costituzionale di stretta legalità, consistenti in auto attribuzioni, da parte della Magistratura, di poteri di politica criminale che la Costituzione ha riservato solo al Parlamento.

Dagli anni ’60 le cose sono cambiate, in peggio. Ad un panpenalismo si è aggiunta una nevrosi repressiva, come ha detto con la consueta efficacia e lucidità Giovanni Fiandaca (Il Foglio, 18 agosto 2023), che da legislativa è trasponibile, mutatis mutandis, all’attività giudiziaria.

Con la tragedia del 31 agosto si è assistito, nelle interviste rilasciate, ad un rigurgito giustizialista, come se toccasse ai magistrati il compito di moralizzazione pubblica, con tutte le conseguenze che ciò comporta sul terreno applicativo del diritto e nei confronti delle esigenze di giustizia (utile la lettura di S. Cassese, Il governo dei giudici, Laterza, 2022).

Breve. Invocare l’istituzione di una “super-procura” per la sicurezza sul lavoro significa esaltare un tipo di “criminalità” colposa accanto ad un tipo di criminalità dolosa e destabilizzante, come quella di tipo mafioso o terroristico eversiva, che, per la complessità di indagini anche transnazionali, e per la specificità del fenomeno e delle relative competenze investigative, ha giustificato l’istituzione di una super-procura.

Sotto il profilo politico criminale altre devono essere le strategie di intervento per garantire la sicurezza dei lavoratori, in particolar modo la prevenzione che, in modo efficace ed intelligente, deve essere demandata ad organi amministrativi dotati di poteri di intervento e sanzionatori. Se questa fase non funziona o non è messa nelle condizioni di funzionare è una responsabilità del Parlamento cui non può supplire la Magistratura attraverso una operazione di adattamento delle fattispecie criminose, così come attualmente formulate.

Leggendo e studiando la giurisprudenza anche della suprema Corte ci si imbatte spesso in prescrizioni che tuttavia accertano illeciti e responsabilità. Non sarebbe il caso di ripensare all’intervento penale in questa materia?  Chi è a conoscenza del dibattito sulla giustizia penale che da tempo si svolge nel nostro Paese e a livello internazionale – lontano dalla stucchevole contrapposizione: giustizialismo vs. garantismo – sa bene che da molte voci autorevoli si invoca da anni l’abbandono dei fatti colposi (o della maggior parte di essi) da parte del diritto penale (o, quanto meno, della pena detentiva) per l’inefficacia dimostrata sotto il profilo della di prevenzione generale e, soprattutto, dal punto di vista rieducativo (art. 27, comma 3, della Costituzione). 

In verità si ripiega (ma questo è un discorso generale) sulla giustizia penale per la maggior rapidità del relativo processo, per fatti che però dovrebbero trovare adeguata tutela in sede civile evitando, con ciò, tutte le prescrizioni, le decadenze e le assoluzioni che un sistema estremamente garantista comporta. Non sarà, forse, che una maggiore efficienza ed effettività della giustizia penale passi anche attraverso un rapido, dissuasivo e meno complicato processo civile (per il risarcimento dei danni)?

Attualizzando il discorso, è ben auspicabile che, pur attraverso lo stigma del processo penale, trovino ingresso forme di giustizia ristorativa per fatti colposi che, andando oltre le prescrizioni e le decadenze, facciano efficace uso di sanzioni risarcitorie senza che la pena detentiva (in molti casi risibile) costituisca il fulcro dell’azione penale.

La prescrizione è un diritto, è uno strumento di garanzia per il cittadino ed è, altresì, la cartina di tornasole della credibilità di un sistema penale. Siamo davvero convinti che l’ingresso in carcere dopo quindici anni (in regime di semilibertà) dell’ex amministratore della ThyssenKrupp, Espenhahn, abbia una qualche valenza deterrente e/o rieducativa? La risposta alla domanda retorica – per chi abbia un po’ di dimestichezza con la giustizia penale – è fortemente negativa.

Cosa ci ha insegnato il caso Thyssen? Ci ha insegnato innanzitutto che la prevenzione è fondamentale nelle aree produttive (in ispecial modo ad alto rischio) e a potenziare i sistemi amministravi di (auto) controllo e di sanzione in queste fasi, non certamente affidati al giudice penale. Ha messo a nudo le fragilità e le falle del sistema autonormativo al quale non può porre rimedio la magistratura pena lo scadere in una attività moralizzante ed eticizzante che non consente di distinguere più il peccato dalla colpa, il fatto dal sospetto (Sgubbi, Il diritto penale totale, Il Mulino, 2019).

Ci ha, altresì, insegnato a non piegare le categorie penalistiche alle istanze di politica giudiziaria attraverso il ricorso alla figura del “dolo eventuale”, tirato in ballo dalla Procura di Ivrea. Siamo messi nuovamente di fronte ad un “golem” della dogmatica penalistica che, proprio come questo, è dotato di una straordinaria forza (l’imputazione sarà per omicidio volontario) ed esegue alla lettera gli ordini del suo creatore di cui diventava una specie di schiavo, privo di anima e, quindi, incapace di pensare e di provare emozioni.

Proprio come il Golem il dolo eventuale fa quello che gli viene detto di fare da chi tanto tempo fa lo ha creato – la giurisprudenza e la dottrina – perché è un dolo analogico: si applica in quei casi dove più numerose sono le difficoltà probatorie dell’elemento volitivo. Con il rischio che una pur vistosa negligenza – indice di probabilità del verificarsi dell’evento – venga strumentalizzata per giustificare lo svuotamento del contenuto psicologico del dolo eventuale, condannando per delitto doloso un fatto sostanzialmente (per quanto riprovevole) colposo.

Gianluca Ruggiero

 

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Articolo pubblicato il 28/09/2023