Ustica 2020

A che servono le sentenze?

Qualche giorno fa il Presidente della Repubblica, nel ricordare a Bologna i quarant’anni della strage di Ustica, si è lasciato andare ad alcune considerazioni singolari che, se hanno compiaciuto molti, hanno sicuramente creato sconcerto fra chi ha una qualche conoscenza di quel fatto e della lunga storia giudiziaria che ne è conseguita.

“Il quadro delle responsabilità,” ha detto Mattarella, “e le circostanze che provocarono l’immane tragedia tuttora non risulta ancora ricomposto in modo pieno e unitario”. Poi accenna a “reticenze e opacità che erano state frapposte al bisogno di verità” e infine auspica una “aperta collaborazione di Paesi alleati”.

In sostanza Mattarella ci dice che la verità non è ancora emersa pienamente e -più velatamente ma in modo perfettamente intelligibile- che alcuni “Paesi alleati” ci nascondono qualcosa su quella tragedia.

Si tratta di opinioni assolutamente legittime e comprensibili se provenienti dall’opinione pubblica, dai parenti delle vittime, dalla stampa in cerca di lettori o dai media in cerca di ascolto. Appaiono sinceramente opinabili se provenienti dalla più alta carica istituzionale dello Stato.

La ragione è semplice: Mattarella, in quanto presidente del Consiglio superiore della magistratura, e quindi primo magistrato d’Italia, di fatto va a mettere in dubbio una sentenza di un organo giudiziario.

La storia dei pronunciamenti della magistratura sui fatti di Ustica e seguenti è -ad un tempo- chiarissima e contorta e non contribuisce certo a dare di quel potere un’immagine perfettamente rassicurante.

Vediamo di riassumere brevemente.

Il procedimento penale sulla tragedia fu avviato inizialmente dalla procura di Palermo ma poi fu trasferito a quella di Roma, e di essa si occuparono diversi giudici istruttori fin quando venne conclusa nel 1998 da Rosario Priore con la richiesta di rinvio a giudizio di diversi militari dell’aeronautica, inclusi quattro generali,  con l’accusa di “alto tradimento” ma dichiarando contestualmente di non doversi procedere per strage in quanto “ignoti gli autori del reato”. La Corte d’assise di Roma, nel 2004, assolse i militari con formula piena da tutte le accuse dopo quattro anni di procedimento e 276 udienze, e sulla base di un’imponente quantità di testimonianze, perizie, consulenze. Ma la Corte escluse anche categoricamente, sulla base dell’enorme materiale probatorio, l’ipotesi che la caduta dell’aereo Itavia fosse attribuibile all’esplosione di un missile o comunque ad un intervento di aerei militari di cui non risultavano tracce attendibili in quel materiale.

Nel novembre 2005 iniziò il processo d’appello, sempre a Roma, che confermò pienamente la sentenza di primo grado, e quindi l’assoluzione dei militari, ma soprattutto ribadì la tesi che l’abbattimento del DC9 da parte di missili o velivoli militari era del tutto infondata sul piano processuale, e utilizzò motivazioni molto penetranti e in alcuni aspetti decisamente polemiche verso le ricostruzioni della stampa e degli altri mezzi di informazione.

La sentenza fu naturalmente oggetto di ricorso per Cassazione la quale, nel gennaio 2007, lo respinse confermando definitivamente l’assoluzione dei generali imputati, e non per insufficienza o contraddittorietà delle prove ma per radicale mancanza delle stesse.

Di fronte ad un percorso giurisdizionale così lineare e coerente in tutti i gradi di giudizio, supportato da una quantità immensa di strumenti probatori (incluso il recupero dell’aereo dai fondali marini), costato miliardi di vecchie lire al contribuente, si sarebbero dovute accettare le sentenze dei giudici come incontestabili e la verità processuale come definitivamente acquisita.

No. Nel nostro paese non è così.

Nel 2011 la terza sezione civile del Tribunale di Palermo condannò i Ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire i famigliari delle vittime per non aver garantito la sicurezza di quel volo, per depistaggi e distruzione di atti, riconducendo l’incidente ad un “intercettamento realizzato da due caccia” che seguivano un aereo militare nascosto nella traccia del DC9 e al lancio di un missile lanciato dai primi verso il secondo.

La sentenza civile del giudice di Palermo trovò poi conferma in Cassazione che, incredibilmente, affermò: “che elemento risolutore della controversia sia l’accertamento (…) ormai non più suscettibile di essere rimesso in discussione , della sussistenza di un’attività di depistaggio”. E poi aggiungeva: “la tesi del missile sparato da aereo ignoto (…) risulta ormai consacrata pure nella giurisprudenza di questa Corte”. Addirittura “consacrata” secondo una vera e propria “religione del missile”. Ma la Cassazione non è giudice di puro diritto? E allora perché si è lanciata in pure affermazioni di merito come quelle riportate?

Come potesse un giudice civile ignorare tre gradi di giudizio penali condotti con mezzi enormi, con perizie asseverate dai maggiori esperti internazionali, con una  infinita e comprensibile attenzione sostanziale e procedurale non si può capire.

Così come non si capisce la petulanza dei governi italiani nel chiedere di nuovo ai paesi alleati spiegazioni  che sono già state fornite, e non si capisce neppure l’insistenza su ipotetiche responsabilità che quegli stati  hanno già negato più volte. Si rischia veramente il ridicolo a livello internazionale.

Dopo di che, ovviamente, ognuno è pienamente libero di ricercare altre e diverse verità oltre a quelle stabilite dai giudici. Ma è evidente che molte istituzioni italiane, su pressione di complottisti vari, associazioni di famigliari, avvocati di parte civile, forze politiche a caccia di voti, giornali e media in cerca di conferme alle loro ipotesi provino in tutti modi a compiacere queste realtà. Ma in un paese dove ogni verità non sembra mai abbastanza vera, e comunque non sembra emergere mai definitivamente, e dove alla magistratura si chiedono non sentenze ma conferme dei propri desideri (altrimenti diventano “vergognose”), in un paese del genere non è tanto bello vivere.

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Articolo pubblicato il 29/06/2020