SuperLega: dal calcio alla politica.

Riflessioni su mondi diversi, ma simili

Personalmente non amo il calcio e le vicende di quel mondo mi sono estranee, e quindi mi è anche estranea la recentissima vicenda “SuperLega” che ha occupato le pagine dei giornali e gli schermi televisivi in questi ultimi giorni. Mi pare di aver capito che dodici grandi club calcistici europei hanno deciso di creare una nuova competizione calcistica infrasettimanale, lasciando le organizzazioni esistenti e suscitando le ire dell’UEFA nonché una vasta ribellione fra gli appassionati di calcio, che hanno rinfacciato ai dodici disertori di pensare solo ai loro interessi economici creando una specie di super club calcistico per ricchi.

Allora, se questo fatto ci tocca poco, perché parlarne? Perché, pur nella sua settorialità, impartisce qualche lezione a tutti, anche fuori dell’ambito calcistico.

Innanzitutto ci insegna che ormai la logica del grande capitale predomina su tutto: anche sullo sport che, in teoria, dovrebbe ancora essere ispirato a valori non strettamente economici. Per sentito dire, i dodici club calcistici che hanno lasciato le loro precedenti organizzazioni lo hanno fatto perché i loro bilanci -causa pandemia- piangevano lacrime amare e andava avviato un necessario e urgente tentativo di risanamento, auspice anche uno dei simboli del capitalismo finanziario internazionale: l’americana, JP Morgan che pare aver investito in questa operazione la bellezza di tre miliardi e mezzo di euro.

Il diffuso piagnisteo che si è sollevato dal popolo calcistico europeo, con le sue varie associazioni e istituzioni, non sembra tener conto del fatto che la globalizzazione -con il suo cinismo neoliberista- non sta certo ad ascoltare il moralismo sportivo che vorrebbe le competizioni calcistiche, e anche le altre, come il regno del sacrificio, delle migliori qualità fisiche e caratteriali, delle virtù competitive, dell’autorealizzazione individuale e di squadra, della lealtà agonistica, della passione oltre l’interesse. Quasi che un simbolo come il Grande Torino fosse sopravvissuto a quel tragico 4 maggio del ‘49 sulla collina di Superga.

Oggi la monetizzazione è la regola, anche nello sport. E questo non è moralismo lagnoso, ma una considerazione scarna e lucida della realtà contemporanea.

Qualche tempo fa, sempre su questo giornale, avevamo ricordato la figura di Giorgio Galli che, con Mario Caligiuri, aveva dato alle stampe in questi ultimi anni due studi interessanti: Come si comanda il mondo (2017) e Il potere che sta conquistando il mondo (2020), entrambi editi da quella piccola ma straordinaria casa editrice che è Rubbettino la quale, dalla provincia calabrese, sta dando grandi lezioni di liberalismo a tutti noi.

In quei due volumi gli autori mettono in guardia contro il fenomeno ormai dilagante non solo della sopraffazione del potere politico democratico da parte delle grandi multinazionali industriali e finanziarie, ma anche da parte di multinazionali che sono diretta espressione, o meglio, sono organi consustanziali di regimi politici autoritari come quello cinese, quello russo, quello turco, quello saudita, quando non addirittura della grande criminalità organizzata a livello internazionale che costituisce una vera e propria “economia canaglia”. “L’intento di questo libro” scrivono Galli e Caligiuri nel secondo volume, “è fare assumere consapevolezza che una sfida decisiva per le democrazie del XXI secolo è la competizione crescente con le multinazionali”.

E’ ciò che abbiamo visto in quest’ultimo anno, e stiamo vedendo ancora oggi, con una pandemia la cui natura appare ambigua e piena di punti oscuri e con una ossessione vaccinale che pare imposta più dalle logiche commerciali delle grandi multinazionali del farmaco che non da scelte politiche razionali ed autonome dei governi. Anche qui, per ora, la competizione sembra vinta da coloro che da questo immenso disastro traggono e trarranno altrettanto immensi ritorni economici.

E’ una logica, come abbiamo detto all’inizio, che investe anche il mondo dello sport, soprattutto quello economicamente più redditizio in quanto collegato al sistema dello spettacolo e dell’intrattenimento globali, e cioè il calcio il quale, grazie ai diritti televisivi negoziati a livello continentale -o addirittura planetario- è diventato a sua volta un’opaca espressione del capitalismo internazionale.

La vicenda “SuperLega” ha però un ulteriore aspetto interessante.

Mentre la maggior parte delle persone non percepisce a fondo le logiche di prevaricazione nell’ambito economico, politico, geopolitico in quanto occultate, o quantomeno sfumate, dalla grande informazione nazionale e internazionale, la vicenda calcistica di questi giorni è stata invece oggetto di un dibattito acceso e partecipato, con un’ondata di indignazione che ha sommerso tutti, dai vertici della politica alla gente comune, e ha posto in chiaro come si sia trattato di una contrapposizione quasi “di classe” fra ricchi e poveri, dove questi ultimi si sono sentiti derubati di qualcosa di prezioso per loro da parte del calcio opulento  foraggiato dal grande capitale.

Ecco perché vale la pena di commentare questo fatto apparentemente settoriale: la vicenda insegna, e insegna soprattutto alla gente più distratta e superficiale, che la lotta di classe -con protagonisti diversi da quelli raccontati dal marxismo classico- continua tutt’oggi fra oligarchie del denaro e popolazioni sempre più sottomesse con la complicità dell’informazione conformista. La gente non si è ben resa conto che qualcuno gli ha rubato le libertà costituzionali ma i tifosi, che sono tantissimi, si sono resi benissimo conto che gli hanno scippato una cosa per loro molto preziosa: il calcio.

Si tratta di due piani non comparabili, ovviamente, ma la sostanza è molto simile. Chissà che la pedagogia sottostante al furto calcistico non sia utilizzabile anche per l’altro furto, ben più grave, della libertà e della democrazia. E’ possibile che un sopruso più piccolo faccia riflettere le persone su un sopruso ben più grande?

 

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Articolo pubblicato il 21/04/2021