I Gesti vuoti

Fenomenologia della propaganda europea

Qualche giorno fa Maurizio Blondet, un vecchio giornalista da prendere con le molle ma che talvolta ha intuizioni decisamente illuminanti, notava nel suo blog come i capi dei regimi europei -invece di governare- compiono solo “gesti vuoti” che i media entusiasticamente servili esaltano come grandi imprese, e invece non sono nulla, portando come esempio il viaggio di Macron, Scholz e Draghi a Kiev.

In quel viaggio è stata promessa a Zelensky un’entrata nell’UE che non potrà avvenire se non con infinite difficoltà (si pensi solo al problema del rispetto dello stato di diritto in Ucraina) e in tempi lunghissimi (non può essere concessa una procedura d’urgenza, visto che quella ordinaria è stata negata a nazioni in lista di attesa da anni e anni come l’Albania o la Turchia), e sempre che in futuro esista ancora l’Ucraina com’è oggi.

Lo spettacolo dei tre Magi è stato dunque solo cinematografia propagandistica, così come le suggestive foto dei leaders al G7 di Elmau, tutti sorridenti, trionfalistici, sicuri di sé, in camicia bianca, come in uno spot pubblicitario. “Gesti vuoti” che annunciano decisioni di là da venire, che forse non verranno e che -se pure verranno- saranno inutili o suicide, come le recenti sanzioni alla Russia o l’ipotetico prezzo imposto al petrolio di Mosca a cui Draghi attribuisce un mirabile effetto salvifico ma che nessuno, in Europa e nel mondo, ritiene realmente praticabile e che presto finirà nel cimitero degli altri “gesti vuoti” di cui dice Blondet.

L’impressione angosciante è che tutti noi, italiani ed europei, si sia finiti nelle mani di attori incapaci di comprendere la realtà e di assumere decisioni vere ed efficaci, e per di più dotati di una perversa capacità di rappresentare una realtà inesistente grazie ad un apparato pubblicitario e comunicativo munito di mezzi colossali.

E ancora questi teatranti europei appaiono sempre di più al traino di una nazione come gli Stati Uniti guidata -si fa per dire- da un vecchio presidente affetto da evidenti limiti fisici e psichici, e quindi in balia di un deep state di cui è impossibile conoscere natura, protagonisti e finalità. Tutte cose, queste, che ci sprofondano in una emergenza democratica mai vista in passato, e per di più in un momento di assoluta pericolosità, anch’essa mai vista dopo la seconda guerra mondiale.

Ma al di là dell’emergenza bellica e del confronto strategico, questa teatrale incapacità di affrontare le sfide della realtà emerge anche sotto altri profili, in particolare quello economico.

Qualche giorno fa, su questo giornale, l’amico Francesco Rossa evidenziava con molta lucidità il disastro inflazionistico verso cui il nostro paese sta precipitando e si interrogava sugli interventi politici necessari per fermare in qualche modo questa deriva. L’impressione che ne emerge è che però anche qui, a livello europeo e italiano, nessuno abbia ben compreso la situazione e, conseguentemente, nessuno abbia messo in atto un strategia anti-inflazionistica efficace.

A livello nazionale ci si è fermati a un miserevole intervento sul prezzo dei carburanti, piccola e scontata misura da stato assistenziale destinata a durare poco e che non si estenderà certamente all’autunno quando il dramma dell’approvvigionamento petrolifero e metanifero esploderà in tutta la sua virulenza.

A livello europeo si è assistito solo al banalissimo annuncio di un ritocco dei tassi di interesse da parte della BCE per bocca della signora Lagarde che pare non possedere in materia di politica monetaria la stessa competenza dispiegata nella scelta dei suoi impeccabili tailleurs.

Sembra infatti che in BCE non sia ancora penetrata la consapevolezza che siamo di fronte ad una inflazione da offerta e non da domanda e, sopratutto, che l’aumento dei tassi, producendo il suo ipotetico effetto sulla sola domanda di beni di investimento, non sia in grado di contrastare una crescita dei prezzi al consumo derivante da un aumento dei costi energetici e delle altre materie prime.

Già a febbraio di quest’anno Alberto Bagnai scriveva: “Più in generale, dovremmo tutti porci (con la "o" chiusa) l'affascinante tema intellettuale di una classe dirigente "tecnica" che, abituata da tre decenni a contenere l'inflazione reprimendo la domanda con politiche di austerità, è ormai entrata in un mindset totalmente inadeguato ai tempi: quello secondo cui l'inflazione è determinata solo dalla domanda (perché reprimere la domanda ha aiutato in una certa fase a contenerla), da cui scaturisce l'idea che in qualsiasi contesto la si possa contrastare solo tagliando i redditi per scoraggiare la domanda di beni di consumo, o, al limite, innalzando il tasso di interesse per scoraggiare la domanda di beni di investimento (macchinari, attrezzature, beni strumentali in genere, capannoni e fabbricati). Purtroppo quando l'inflazione è da offerta la politica monetaria è più facile che crei problemi, piuttosto che li risolva. Perché se l'inflazione è da offerta, il problema non si risolve reprimendo la domanda, ma promuovendo l'offerta, il che richiede più, non meno, investimenti. Un innalzamento dei tassi di interesse, quindi, potrebbe avere l'effetto paradossale (ma in realtà ovvio) di portarci in una situazione di stagflazione: stagnazione della crescita e inflazione dei prezzi”.

Che le teste d’uovo amiche di Christine Lagarde a Bruxelles e di Mario Draghi a Roma non abbiano compreso queste ovvietà è preoccupante; e ancora più preoccupante è che la propaganda mediatica avalli l’idea che un aumento dei tassi, per le ragioni spiegate sopra, possa avere un qualche effetto sull’inflazione “profonda”, quella attuale che agisce all’interno dei processi di produzione, cioè dell’offerta, che si ridimensionerà forse solo quando il mercato globale dei fattori produttivi (in particolare quelli energetici) avrà trovato un nuovo equilibrio.

Un aumento dei tassi, oltre all’effetto devastante sul debito pubblico dei paesi, e di quello italiano in particolare, genererà -come notava Bagnai- un ridimensionamento degli investimenti, cosa micidiale per un paese in crisi produttiva, e dell’occupazione. Se poi a tutto questo aggiungiamo la tentazione, mai sopita nella mente di tecnocrati come Draghi, di una politica dei redditi orientata a comprimere ulteriormente salari e stipendi per salvare la stabilità dei prezzi, possiamo immaginare facilmente le conseguenze...

Ma in fondo che cosa possiamo aspettarci da una BCE che, nel suo statuto, contempla solo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, e da un Draghi che da quell’ambiente proviene?

Forse, a questo punto, sono meglio i gesti vuoti dei gesti sbagliati.

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Articolo pubblicato il 29/06/2022