Da un singolo problema economico a una rivoluzione intellettuale
Il torrido agosto che stiamo attraversando ha reso anche il dibattito politico piuttosto accaldato: tra le polemiche immigrazioniste, lo scandalo sollevato dal libro del generale Vannacci, e il dibattito sui poveri che non possono andare in vacanza a causa del caro-ombrellone si è inserito anche il tema fiscale, in particolare quello sulle accise e, conseguentemente, quello sul prezzo dei carburanti.
A ben guardare, se si eccettua il libro-scandalo di Vannacci gli altri sono temi piuttosto scontati. Ogni estate l’Italia viene sommersa da un’ondata di “irregolari” (guai a chiamarli clandestini, altrimenti si suscitano le ire della Corte di Cassazione), scoppiano le lamentele sui prezzi balneari e quasi sempre l’esodo vacanziero è segnato dalle puntuali polemiche sul prezzo della benzina. Niente di nuovo sotto il sole, neppure sotto quello ardente di questi giorni.
Tuttavia, il tema delle accise presenta quest’anno un certo interesse e qualche spunto di riflessione in più.
Innanzitutto le sinistre, sempre pronte a stigmatizzare ogni affermazione minimamente populista proveniente dalle destre, si sono impadronite dell’aumento di prezzo di benzina e gasolio e ci hanno marciato su alla grande. D’altra parte tutto fa brodo pur di attaccare l’infame governo para-fascista di Giorgia Meloni a cui si rinfaccia l’antica promessa di ridurre le imposte sui carburanti oltre a una marea di altri presunti peccati e peccatucci, come l’aver portato con sé la figlia durante il viaggio di stato in America e finanche l’aver pagato in Albania, con soldi suoi, il conto di una banda di miserabili turisti italiani che se l’era svignata da un ristorante. Niente populismo, come si vede.
Il tema delle accise ha però implicazioni più serie e più ampie.
Intanto quest’imposta frutta allo stato oltre 30 miliardi di euro ed è uno degli assi portanti del nostro sistema tributario. Pensare di ridurre o addirittura abolire d’un colpo questo tributo sarebbe ovviamente una pura follia e stupisce come la sinistra colta, istruita e responsabile possa caldeggiare una simile eventualità.
Il fatto che Giorgia Meloni abbia auspicato in passato, e in campagna elettorale, una riduzione delle accise sui carburanti non significa che ciò debba avvenire nell’immediato e in modo brutale col conseguente sfascio dei conti pubblici.
Il governo attuale ha tutte le caratteristiche di un governo di legislatura con la prospettiva molto concreta di durare cinque anni, ha cioè dinnanzi a sé la possibilità e il dovere di predisporre almeno quattro o cinque manovre di bilancio all’interno delle quali, e con una prospettiva di medio-lungo periodo, potrà procedere a un riequilibrio complessivo del sistema tributario e quindi anche del prelievo fiscale sui carburanti, riducendone il peso assoluto e relativo rispetto al gettito tributario complessivo.
In altri termini, l’unico approccio serio al tema delle accise sui carburanti è una riduzione progressiva e pluriennale, non certo l’intervento isterico e populista chiesto da una sinistra in perpetua campagna elettorale. Sempre che un quadro geopolitico in perenne evoluzione, e che in questi ultimi tempi ci ha riservato drammatiche sorprese, non produca nuovamente impennate di prezzo delle materie prime e delle risorse petrolifere in particolare.
Ma, come abbiamo detto, il tema delle accise ha anche altre implicazioni, più vaste e complesse dei semplici problemi di tecnica tributaria da applicare in questo momento di difficoltà.
In termini molto elementari, il problema del governo -di ogni governo- è la mancanza di risorse monetarie per soddisfare le sue tradizionali funzioni istituzionali, ma anche per adempiere il suo moderno dovere di promuovere il benessere economico e la giustizia sociale e, in parte, anche per rispettare le sue promesse elettorali.
La redazione di un bilancio pubblico in fondo non è altro che un complesso gioco, già ben studiato dalla teoria economica, con cui redistribuire risorse scarse fra le aspettative concorrenti di una pluralità di soggetti pubblici e privati in modo da massimizzare la soddisfazione di tutti.
Il problema sta però proprio in quell’aggettivo “scarse”, che limita drammaticamente ogni politica sia di crescita che di giustizia sociale, e talvolta persino di mantenimento delle funzioni pubbliche di base. In termini ancora più elementari: la coperta è sempre troppo corta, e non si può tenere tutti al caldo.
Ma anche questa affermazione non è completamente vera se si assume il principio che le risorse monetarie non sono necessariamente scarse. La teoria keynesiana, soprattutto nella sua evoluzione radicale proposta dalla Modern Monetary Theory (MMT) di Warren Mosler, Larry Randall Wray, Stephanie Kelton e altri, ha dimostrato come non esista il vincolo dell’emissione di moneta da parte di uno stato dotato di sovranità monetaria.
Di conseguenza non esistono limiti all’azione di promozione economica dei governi -in particolare sotto il profilo della piena occupazione- a patto che l’emissione monetaria sia proporzionata alla crescita dell’economia reale e quindi senza effetti inflazionistici.
Certo si tratta di una bella utopia, peraltro illustrata con solide argomentazioni accademiche, ma difficilmente applicabile dalle nostre parti per due semplici motivi: innazitutto i paesi dell’Unione Europea non hanno sovranità monetaria ma sono costretti ad usare una moneta straniera creata e gestita dalla BCE secondo criteri assai opinabili e talvolta demenziali, come dimostrato dai frenetici aumenti dei tassi d’interesse operati recentemente dalla signora Lagarde; e poi perché da troppo tempo ormai la teoria economica è ipnotizzata dai dogmi della scarsità di moneta e della moneta a debito che i sistemi bancari e la visione neo-liberista hanno imposto a tutti gli studiosi e a tutti gli operatori del settore finanziario.
E’ lecito partire da un modesto problema di accise per giungere a una rivoluzione copernicana come quella della MMT?
Non sappiamo, ma sicuramente il collegamento ha una sua logica, soprattutto se si ha il coraggio di vedere i singoli problemi, anche secondari, come parte di un sistema più ampio e fondato su regole diverse da quelle ordinarie, come si fa, ad esempio, nel pensiero laterale.
Ma parlare di sovranità monetaria (che vuol dire anche sovranità fiscale, persino nella modesta gestione delle accise), di ribellione alla dittatura monetaria europea, di keynesismo radicale, di pericolosità delle scelte della BCE è molto difficile in un’Italia dove tutti sembrano ossessionati dal potere delle idee comuni; soprattutto quella sinistra che da tempo ha rinunciato al suo codice genetico di libertà e di perenne rivoluzione intellettuale.
Elio Ambrogio
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Articolo pubblicato il 27/08/2023