Chi, come e quando disegnò l'emblema dello Stato
Il bozzetto di Paolo Paschetto vincitore del primo concorso per il nuovo emblema dello Stato d'Italia.

Di Aldo A. Mola

I Costituenti dissentono e approvano

Nella seduta antimeridiana del 31 gennaio 1948, ultimo giorno dei suoi lavori, l'Assemblea Costituente insediata il 25 giugno 1946 approvò l'emblema della Repubblica italiana. Questa era sorta il 18 giugno per effetto del referendum sulla forma dello Stato celebrato il 2-3 precedente.

Il presidente dell'Assemblea, Umberto Terracini, comunista e a lungo incarcerato dal fascismo, pose in esame le conclusioni della commissione parlamentare da lui nominata su mandato dell'Assemblea per valutare l'esito del concorso bandito il 21 gennaio precedente. “Sia pure in breve margine di tempo”, ai costituenti era stata distribuita la riproduzione in bianco e nero dell'emblema che la commissione aveva scelto fra i 197 disegni inviati da 96 artisti italiani in risposta all'appello trasmesso via radio.

Intervennero per primi tre democristiani. Enrico Medi lo giudicò inaccettabile. Florestano Di Fausto al suo “no” aggiunse la proposta di rinviare la decisione al Parlamento eligendo. Si associò Carlo Cremaschi. Tommaso Corsini, eletto nelle file dell'Uomo Qualunque, lo giudicò “una cosa comune, misera, come se ne son viste centinaia e centinaia in tutti i paesi e in tutti i villaggi”. Di analogo parere fu il costituzionalista Tommaso Perassi, repubblicano. Il giurista Giuseppe Bettiol, democristiano, propose di affidare la scelta alla Costituente stessa anziché agli artisti, “i quali di politica non capiscono quasi niente”. Preoccupato che la seduta finisse in un nulla di fatto, Terracini sdrammatizzò. Per lui, nell'impossibilità che un simbolo ottenesse il cento per cento dei consensi, l'importante era che intanto vi fosse la Repubblica. Qualunque emblema, anche se di modesto valore estetico, a forza di essere visto, sarebbe divenuto caro. “Se si dice no, concluse, i nostri successori o il Governo decideranno il da farsi”. Il comunista Renzo Laconi lamentò che il disegno fosse stato affidato a “un tipico professore di ornato, senza impronta artistica”. Il repubblicano Giovanni Conti deplorò: “Siamo in un paese di retori; questa è la verità dolorosissima. Io non so che farmene dei simboli; a me interessa la Repubblica. I monarchici hanno avuto il coraggio civile di proporre il vecchio simbolo”, cioè lo scudo sabaudo. Chiese quindi di passare al voto. Si associò il monarchico Falcone Lucifero, che propose per emblema il tricolore.

Terracini ripercorse rapidamente e parzialmente l'itinerario compiuto per dare allo Stato un simbolo nuovo. Sin dal 19 giugno 1946, il giorno stesso dell'avvento della Repubblica per mero effetto della pubblicazione dell'esito del referendum istituzionale nella “Gazzetta Ufficiale”, il decreto legislativo presidenziale n. 1 aveva demandato alla Costituente l'approvazione del nuovo emblema. A tale scopo il presidente del Consiglio aveva nominato una commissione, di cui dopo diciamo. Senza contestare “il valore storico della croce sabauda, del panneggio in ermellino e delle altre cose che lo componevano”, dopo un anno e mezzo dall'avvento della repubblica esso era ancora in uso. Era il sigillo dello Stato. Come in passato tutti si erano abituati a vederlo senza discuterlo, così sarebbe accaduto per il nuovo, al di là di ogni valutazione estetica. Occorreva decidere. Pose quindi ai voti l'approvazione dell'emblema scelto dalla commissione. Dopo prova e controprova, la proposta fu approvata.

 

La lunga “carriera” di un artista

Quell'emblema, tanto discusso, era firmato da Paolo Antonio Paschetto (Torre Pellice, 12 febbraio 1885 - 9 marzo 1963). Benché il suo nome non sia riecheggiato nel dibattito alla Costituente del 31 gennaio 1948 e malgrado le pesanti riserve nei confronti del suo bozzetto, egli è l'autore dell'emblema che da quasi ottanta anni è nei sigilli, nella carta legale e nello stemma della Repubblica italiana.

Giova quindi ricordarne la terra d'origine, le “valli valdesi”, il percorso professionale, le vicende dei concorsi di cui risultò vincitore e una peculiarità del suo cammino terreno. Suo padre, Enrico, di confessione valdese e diplomato in teologia a Ginevra, nel 1889 si trasferì da Torre Pellice a Roma per insegnare ebraico ed esegesi biblica in scuole non cattoliche. Sua madre, Luigia Oggioni, di famiglia garibaldina, apparteneva alla chiesa evangelica libera italiana. Terzogenito, conseguita la maturità classica Paolo s’iscrisse all'Istituto di Belle Arti e prese a frequentare artisti affermati. Con Umberto Vico a ventidue anni vinse il concorso per il “disegno” del biglietto da cinque lire. Si segnalò in seguito con delicate “prove” per xilografie o a china e con gradevoli pannelli decorativi, di gusto classicheggiante, scevri da ogni retorica. Nel 1911, cinquantenario del regno, decorò il padiglione eretto nella centralissima in Piazza Colonna a Roma e disegnò le vetrate per la chiesa battista di via Teatro della Valle realizzate dal mastro vetraio Cesare Picchiarini, frequentato anche da Duilio Cambellotti (Roma, 1874-1960).

Artista eclettico e vulcanico, già aderente ai “XXV della Campagna Romana”, dal 1908 docente di ornato modellato all'Accademia di Belle Arti di Roma, Cambellotti fu in ottimi rapporti con Giacomo Balla (autore, tra altro, del ritratto di Ernesto Nathan, sindaco di Roma e già gran maestro del Grande Oriente d'Italia), con il poeta Giovanni Cena, Maxsim Gorkij, rivoluzionario russo, e con pittori e pedagogisti impegnati nel rinnovamento della Capitale su impulso del Blocco popolare socialriformista, radicale e liberalprogressista capitanato dal mazziniano Nathan con pieno sostegno di Vittorio Emanuele III e del governo presieduto da Giovanni Giolitti.

Dal 1912 al 1914 Paschetto lavorò all'opera più impegnativa e famosa: la decorazione del tempio valdese in piazza Cavour, alle spalle del Palazzo di Giustizia, sede della Corte di Cassazione. Da allora insegnò ornato nell'Istituto di Belle Arti, ove tenne cattedra per trentacinque anni sino al pensionamento, nel 1949. Formò legioni di allievi.

Arruolato a trent'anni nell'ambito della mobilitazione per l'intervento nella guerra contro l'Austria-Ungheria, nel 1916 fu congedato per problemi alla vista. Dopo la Grande Guerra visse in quiete fattiva, realizzando prestigiose opere su incarico privato e pubblico. Decorò l'anticamera e l'ufficio del ministro della Pubblica Istruzione (denominato dell'Educazione nazionale quando nel 1929 venne assunto dal fossanese Balbino Giuliano, massone) e partecipò a Esposizioni e mostre in Italia e all'estero: a Roma, Torino (sezione arte cristiana, nell'ambito dell'Esposizione nazionale di Belle Arti, 1919), Cracovia, Varsavia (Mostra dell'incisione in legno), Praga, Bruxelles, L'Aja. Nel 1939 dipinse l'abside dell'aula nella quale si raccoglie annualmente il sinodo della chiesa valdese a Torre Pellice, la cittadina ove visse lunghe vacanze con la moglie, Italia Angelucci, e le figlie Fiammetta e Grazia Mirella, e infine si raccolse.

Di spirito mite, alieno al bellicismo sempre più dominante, Paschetto visse concentrato nella creatività artistica, passando dalla produzione di oggetti in cuoio e ferro per la ditta Nazareno Gabrielli, di Tolentino, al monumento commemorativo del sinodo di Chanforan ad Angrogna nel cuore delle Valli Valdesi (1932). Nel 1936 decorò la sala di attesa dell'ospedale George Eastman di Roma in collaborazione con Duilio Cambellotti, affermato accademico di San Luca, impegnato con l'urbanista Oriolo Frezzotti nella realizzazione della città di Littoria, ove eseguì il ciclo decorativo “La redenzione dell'Agro” nel Palazzo del Governo in Piazza XXIII Marzo. Onusto di incarichi prestigiosi (decorazione del palazzo dell'Ente Autonomo Acquedotto Pugliese in Bari e della Prefettura di Ragusa, Cambellotti conciliò il suo impegno progressista con alcune celebrazioni di un regime che si proponeva vindice del “popolo d'Italia”. Tra lui e Paschetto nacque dunque un rapporto di collaborazione, stima e amicizia: l'arte era il giardino dei destini incrociati.

È verosimile che, come tutti i pubblici impiegati, gli insegnanti e i professori, docenti universitari compresi, alla stregua di non fascisti quale Cesare Pavese, anche Paschetto abbia avuto la tessera del PNF, come anche Benedetto Croce consigliò agli amici di accettare/subire per non spianare la strada alla nomina di nullità pronte a occupare i loro posti. A “cercare” Paschetto, se non di persona, tramite una sua opera, era stato lo stesso Mussolini, che nel 1913 ne utilizzò la xilografia per rogo dell'eretico per illustrare il suo libretto Huss il Veridico, pubblicato nella collana “I martiri del libero pensiero” diretta da Guido Podrecca e da Galantara, campioni dell'anticlericalismo.

Nel dopoguerra Paolo Antonio Paschetto era dunque un artista di chiara fama, dalla lunga carriera e forte di un retroterra specifico. In un Paese quasi del tutto cattolico e all'indomani della discriminazione degli ebrei da parte del governo fascista (1938-1943) e della loro persecuzione da parte della mussoliniana Repubblica sociale italiana, prona alla Germania di Adolf Hitler (1943-1945), egli apparteneva a una minoranza religiosa radicata nel Vecchio Piemonte sabaudo, forte di legami internazionali con le chiese evangeliche d'Europa, guardata con simpatia dalle denominazioni cristiane d'oltre Atlantico. La sua era una voce che riecheggiava secoli di resistenza contro l'intolleranza delle minoranze religiose e l'inestinguibile ansia di libertà.

 

La Commissione di esperti e un affollato concorso

Alla vittoria finale Paschetto giunse dopo un lungo itinerario. Il 27 ottobre 1946 il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, nominò la commissione “incaricata di studiare l'emblema della Repubblica”, con facoltà di “indire concorsi fra artisti e tecnici” e di presentargliene l'esito affinché potesse riferirne alla Costituente. Presieduta da Ivanoe Bonomi, tre volte presidente del Consiglio, con vice Pietro Toesca, prestigioso storico dell'arte, essa comprese i costituenti Di Fausto e Minio, gli scultori Duilio Cambellotti e Giuseppe Romagnoli, Liborio Patri, reggente della Zecca, Emilio Re, direttore degli Archivi di Stato e Oliviero Savini-Nicci, esperto di araldica. Il 5 novembre la commissione bandì un concorso fra gli artisti italiani. I cinque autori più convincenti avrebbero ricevuto in premio 10.000 lire e sarebbero stati invitati a presentare un secondo bozzetto. Il bando precisò che andavano esclusi simboli di partito e personificazioni allegoriche. I concorrenti dovevano ispirarsi al senso della terra e dei liberi comuni e introdurre nell'emblema la “stella d'Italia”. Tra i 637 disegni proposti da 341 partecipanti (in gran parte liquidati come “candidi dilettanti”), selezionati i 25 migliori, la commissione scelse cinque finalisti, tra i quali Paolo Paschetto, concorrente con cinque disegni, di cui si è persa traccia. Il 14 dicembre la commissione indicò ai finalisti (invitati a produrre nuovi disegni) i soggetti da accorpare nell'emblema: una cinta turrita a forma di corona, con porta spalancata, la figurazione del mare e una stella a cinque punte, raggiante. I bozzettisti erano liberi di aggiungere in maiuscolo il binomio “Unità-Libertà”, campeggiante sul frontone dell'Altare dalla Patria. I commissari non tennero in alcun conto la creatività artistica, di cui diffidavano, preferendole i “tecnici”.

Il 13 gennaio 1947 la commissione scelse uno dei tre bozzetti presentati da Paschetto. Anche per coinvolgere l'opinione pubblica, organizzò l'esposizione dei bozzetti finalisti all'Associazione Artistica Internazionale di Roma.

I commenti furono irridenti e persino sarcastici. La cinta turrita di Paschetto, con quattro lineette ondulante raffiguranti il mare, fu liquidata come “una tinozza”. In risposta a Terracini il presidente De Gasperi avvertì che, con tutti i vincoli imposti, “non era facile per alcun artista dare sfogo alla pienezza delle proprie attitudini”.

Preso da altre e più impegnative incombenze, anche come ministro degli Esteri, De Gasperi non si occupò della questione per mesi. Il 10 febbraio tramite l'ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna l'Italia sottoscrisse a Parigi il durissimo Trattato di pace. Poche settimane dopo De Gasperi compì l'importante viaggio negli Stati Uniti d'America, di cui ha scritto Nico Perrone, propiziato dall'ambasciatore d'Italia a Washington, Alberto Tarchiani, maggiorente del partito d'azione e dal 1920 attivo in ambienti massonici d'oltre Atlantico. Nel suo corso fu ricevuto da eminenti soci del Rotary Club Internazionale, all'epoca considerato dalla chiesa cattolica quale organizzazione paramassonica e pertanto preclusa ai fedeli.

A ridestarne l'attenzione fu ancora una volta Terracini, che il 9 giugno gli osservò che se avesse voluto avrebbe potuto risolvere la questione dell'emblema in dieci minuti e gli propose di affidarne l'“invenzione” a Cambellotti, “artista di buon nome e specializzato per l'appunto in incisioni e conii”. Senza fretta, il 25 luglio De Gasperi gli rispose riassumendo l'accidentata vicenda dell'emblema e declinò il suggerimento per la “strana circostanza che tra i Commissari quello che più caldamente raccomandò il progetto approvato” era stato proprio Cambellotti.

 

Alla stretta finale: il secondo concorso

Il 19 gennaio 1948 il bozzetto di Paschetto, a Costituzione vigente dal 1° dell'anno, fu proposto all'Assemblea. Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, preso atto che il governo non lo riteneva “tale da poter essere poi prescelto come stemma della Repubblica”, propose che, per una decisione, fossero trasmessi ai costituenti i bozzetti approntati da altri artisti e da “persone molto modeste del Poligrafico dello Stato”. L'Assemblea istituì invece una nuova commissione, formata da rappresentanti di tutti i gruppi politici e presieduta dal repubblicano Giovanni Conti. Fu questa a indire il nuovo concorso, di cui si è detto all'inizio, e il cui bando non è stato reperito.

Il 28 gennaio essa scelse nuovamente Paschetto tra i dodici concorrenti ritenuti migliori.

Il suo bozzetto, in bianco e nero, fu sottoposto al vaglio dell'Ufficio Araldico della presidenza del Consiglio, non previamente consultato. Questo chiese di inserire due rami di quercia e di alloro, mentre la corona di ulivo disegnata da Paschetto “potrebbe avere il significato funerario di pace eterna”. Un esperto scrisse al ministro dell'Industria Roberto Tremelloni, socialdemocratico, che la ruota dentata (di manifesta spirazione rotariana) era tecnicamente sbagliata.

Nel tempo il bozzetto venne colorato. Il 5 maggio, quasi due anni dopo la prevalenza della repubblica sulla monarchia nel discusso referendum del 2-3 giugno 1946, il presidente De Gasperi promulgò l'approvazione del nuovo emblema dello Stato, deliberato l'8 aprile dal Consiglio dei ministri (come documentano i Verbali, curati da Aldo G. Ricci), fermo restando il disposto dell'articolo 7 del decreto legislativo presidenziale del 19 giugno 1946 in forza del quale gli uffici fino quando non fossero stati provvisti dei nuovi sigilli avrebbero usato quelli esistenti. Altrettanto valse per carte-valori, stampati e moduli, “fino a esaurimento delle scorte”. Per indicare il cambio di regime, bastava un tratto di penna sui simboli decaduti o scrivere sul retro dei fogli che recavano i simboli della monarchia o addirittura erano ancora intestati col fascio littorio accanto allo scudo sabaudo.

 

Più luce sul Fratello Paschetto

Col tempo sull'autore due volte vittorioso nei concorsi indetti per disegnare l'emblema della Repubblica scese una coltre di immeritato silenzio, sino alla mostra che in Torre Pellice ne propose il percorso di artista valoroso. Tra gli interrogativi che talvolta si levarono sui motivi del suo successo vi fu il sospetto che egli fosse stato sorretto da “poteri oscuri”. Nel corso del convegno “Paolo Paschetto: la Repubblica, il suo emblema, i suoi valori” celebrato a Torre Pellice nel 2016, settantesimo del cambio istituzionale, Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, affermò che l'artista era massone. Il 31 maggio lo storico Daniele Jalla, nipote dell'artista, obiettò che non c'era stata “alcuna intenzione di simbologia particolare dietro l'ideazione di quello stemma” e concluse: “il nonno non è stato massone. Una convinzione famigliare basata sui fatti ha trovato riscontro negli archivi della massoneria italiana: il suo nome non figura negli elenchi degli iscritti”. Aveva ragione. Nella “matricola” del GOI non compare. Ma ne ha anche Bisi quando afferma che Paschetto ha “veduto la Luce”.

Il 21 febbraio 1917, infatti, Paolo Antonio Paschetto fu iniziato massone a Roma nella loggia “Nazionale” della Serenissima Gran Loggia d'Italia, all'obbedienza del sovrano gran commendatore e gran maestro Leonardo Ricciardi, affiancato dall'inglese William Burgess. Professore all'Istituto delle Belle Arti ebbe subito il grado di maestro. Il 28 maggio fu elevato al 9° grado del Rito scozzese antico e accettato, l'unico praticato dalla comunità detta “di Piazza del Gesù”, dal nome del largo sul quale si affacciava la sua sede centrale. Dai messaggi lanciati da Paschetto attraverso le sue opere, si può constatare che non vi era alcuna incompatibilità tra la sua professione di fede nel solco di Pietro Valdo e la massoneria, come non ve ne è tra l'emblema dello Stato e i capisaldi della Libera Muratorìa in Italia.

Aldo A. Mola

Il bozzetto di Paolo Paschetto vincitore del primo concorso per il nuovo emblema dello Stato d'Italia.

Rinvio a domenica prossima l'articolo su Vittorio Emanuele III dall'annuncio della Luogotenenza, il 12 aprile 1944, al trasferimento dei poteri al Principe Umberto di Piemonte, il 5 giugno.

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Articolo pubblicato il 04/02/2024