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Politica Nazionale
I probemi di abrogazione dell'abuso d'ufficio
L'Opinione del Professor Gianluca Ruggiero
Articolo di Massimo Calleri
Pubblicato in data 12/01/2024

Le notizie apprese dalla stampa quotidiana degli ultimi mesi, riportano la volontà dell’esecutivo di abrogare l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), in nome di una (mai dimostrata) maggiore snellezza dell’attività amministrativa.

Al più tardi a partire dall’ascesa del nuovo Governo, la sopravvivenza della norma era stata da più parti messa sul tavolo della discussione politica e giuridica, essendosi da una parte della dottrina penalistica avanzata la proposta coraggiosa di abrogare la fattispecie o di limitarla ad alcuni settori dell’attività pubblica (ad es. pubblici appalti, concorsi pubblici etc.).

 

Sembra che il desiderio di rimaneggiare questa fattispecie penale sia irrefrenabile per qualsiasi Governo che si sia alternato alla guida della nostra Repubblica. A partire dal 1990 il testo originario del 1930 ha subito ulteriori modifiche nel 1997, nel 2020, alcune proposte nel 2023 sino all’attuale percorso di abrogazione.

Il discorso giuridico e quello politico si intrecciano in modo inestricabile. Si tratta di una norma ‘scomoda’, a tratti irritante, perché consente al Giudice una profonda intromissione nell’intimo dell’attività amministrativa: la discrezionalità, stravolgendo il principio illuminista della separazione dei poteri, ma non quello, sempre di derivazione montesquieuiana, secondo cui “le pouvoir arrête le pouvoir”.

 

La Giurisprudenza non ha mai “digerito” il tentativo del Legislatore, soprattutto a partire dalla riforma del 1997, di sottrarre al sindacato del Giudice penale l’attività della pubblica Amministrazione, relegandolo al mero vaglio di legalità della formale violazione di legge e di regolamento: l’attività conoscitiva deve investire il merito (attività peraltro negata financo al Giudice amministrativo se non nei casi di giurisdizione esclusiva).

 

I tempi, però, non sembravano essere ancora maturi. Nonostante la riforma del 2020 avesse espunto i regolamenti dal novero degli atti normativi oggetto di possibile violazione, i risultati sono stati alquanto modesti: il piano regolatore, esecutivo di una legge generale, è bensì un regolamento ma, in quanto norma interposta, è oggetto di violazione.

 

Insomma, il diritto vivente è in pieno attrito con il diritto vigente: la giurisprudenza non sopporta i colpi di scure inferti dal legislatore al delitto di abuso d’ufficio, il quale ha, deciso di abrogarlo. Una proposta in tal senso era già stata presentata alla Camera dei Deputati il 19 ottobre 2022 (Proposta di legge Rossello ed altri C. 399) così come il 29 novembre 2022 (Proposta di legge Pittalis ed altri C. 645), così come una proposta di modifica a firma Cattaneo, Pelle et alii. C. 716 presentata il 14 dicembre 2022.

 

Ma è dal punto di vista tecnico-giuridico che si intravedono le maggiori incongruenze. Le reali intenzioni del legislatore erano e sono tese a sottrarre alla valutazione del giudice l’esercizio del potere discrezionale della pubblica Amministrazione, già evidenziata con la zoppicante formulazione del 2020: «e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».

 

Ora, nel diritto pubblico (amministrativo, costituzionale, penale etc.) lo studio del potere discrezionale è da sempre non solo il “punto logico di partenza” ma anche il punto logico di arrivo e definizione di molte costruzioni e teorie, sia di carattere generale che rilevanti sul terreno pratico-applicativo.

 

Gli effetti della scarsa consapevolezza dell’unicità di sistema da parte del legislatore sono stati straripanti. Dopo la riforma del 2020 la giurisprudenza ha, riconosciuto rilevanti tutte le ipotesi in cui l’esercizio del potere discrezionale trasmodi in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici – violazione dei limiti esterni della discrezionalità – laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito.

 

Sembra, quindi, che si voglia por fine a questo carosello fra giudici e legislatore abrogando la norma più espressiva di una necessità di tutela e di una voglia di eradicazione dal sistema, perché, alla fin fine, della discrezionalità non riusciamo a liberarci.

 

Il disegno di legge n. 808, di iniziativa governativa, recante (ennesime) modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare, che ha incassato, nella giornata del 9 gennaio 2024, il sì del Senato, prevede all’art. 1, comma 1, lettera b), l’abrogazione – nella sua intierezza – dell’articolo 323 c.p., che disciplina il reato di abuso d'ufficio mentre le lettere a) e c) recano modifiche volte a coordinare altre disposizioni del codice penale con l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio.

 

Da un punto di vista di unitarietà del sistema, siamo davvero sicuri di voler rinunciare a punire le condotte di prevaricazione dei pubblici funzionari in materia concorsuale, appalti pubblici, edilizia e favoritismi vari?

Inoltre, vogliamo davvero sbarazzarci dell’interesse privato in atti d’ufficio? E sì, perché l’art. 323 c.p. ha una doppia anima: da una parte sanziona l’abuso in danno, le condotte arbitrarie; dall’altra il conflitto di interesse, la cointeressenza in affari pubblici, quando qualcuno ha da guadagnarci dall’affare pubblico gestito e non si astiene.

 

Si vuole abrogare anche il caso in cui il pubblico agente prende interesse in atti d’ufficio oppure l’obbligo di astensione verrà disciplinato come norma autonoma?

Quali sono i vantaggi, in termini di tutela di interessi, che deriverebbero dall’obliterare la rilevanza penale dell’uso distorto del potere pubblico?

 

Perché un atto amministrativo discrezionale oggetto di compravendita o l’asservimento dell’ufficio al compimento anche di atti discrezionali non pone problemi di sorta ad una eventuale condanna per corruzione, mentre l’esercizio di un potere discrezionale per la persecuzione di scopi illeciti invece dovrebbe andare impunita?

È proprio vero, inoltre, che non vi sarà una riespansione del peculato per distrazione che la riforma del 1990 aveva voluto che fosse confinato proprio nel meno grave delitto di abuso di ufficio?

 

Che ne sarà di quelle forme di esercizio lecito del potere amministrativo per perseguire un fine non consentito dalla legge: assisteremo ad un fenomeno migratorio verso il ben più grave delitto di concussione?

Oltre alla normativa sovranazionale che sembrerebbe imporre l’uso dello strumento penale, vincolante per gli Stati membri dell’UE, esponendo l’Italia a procedure di infrazione, non ci si rende conto dalla grossa incoerenza sistematica che si creerebbe con l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio che, a differenza della corruzione, presuppone la persecuzione di un interesse personale di vantaggio, derivante dalla carica pubblicistica rivestita, ovvero cagionando a terzi un danno sempre in virtù di quei poteri.

 

Sono entrambe forme di eccesso di potere per sviamento che, spesso, si sostanziano in condotte di prevaricazione soprattutto nei settori gerarchizzati, ove il pubblico potere può essere esercitato in modo distorto.

Siamo davvero persuasi dal poter rinunciare all’intervento penale in queste ipotesi?

 

La verità è che è una norma scomoda, oggetto di tentativi di cancellazione da molti governi di ogni schieramento politico, mal riusciti attraverso una trasfigurazione della norma che ne ha reso sempre più difficile l’accertamento.

L’abuso c’è, il fatto storico è accertato. Difficile molte volte provare il dolo intenzionale, dimostrare cioè che il soggetto ha avuto come causa motivante esclusiva la realizzazione di un danno a carico di quel determinato soggetto o di procurarsi un vantaggio. Farraginoso ed inutile dover dimostrare la c.d. “doppia ingiustizia” della condotta e dell’evento. Difficile anche lottare contro i termini prescrizionali.

 

Questo è accaduto perché la riforma del 1997 aveva lo scopo preciso di lasciare la disposizione sull’abuso d’ufficio come sopramobile nel salotto del diritto penale.

Si invoca, da parte della classe politica, una persistente paralisi della pubblica amministrazione, dovuta alla “paura della firma”, espressione stereotipa con la quale si giustifica la lentezza burocratica del pubblico funzionario che, per evitare di emanare atti illeciti, sovraccarica di adempimenti – anche non richiesti – la procedura amministrativa.

 

In realtà è solo un modo per celare il vero problema: la scarsa competenza del funzionario amministrativo (non della pubblica amministrazione nel suo complesso, beninteso). Il responsabile del procedimento sa benissimo ciò che può o non può fare, ciò che costituisce un travalicamento delle sue funzione, e ciò che costituisce una semplice illegittimità amministrativa, un provvedimento cioè che può essere impugnato davanti al Tribunale amministrativo regionale o con Ricorso straordinario.

 

Le statistiche, secondo quanto riportato da Mattia Feltri in un articolo su La Stampa del 15 giugno 2023, sono disarmanti: 5 mila e 418 procedimenti, 4 mila e 622 si sono chiusi nell’ufficio del Giudice delle indagini preliminari: nove condanne e 4 mila 613 archiviazioni. Le restanti, che raggiungono il rango di dibattimento in tribunale, si sono concluse con diciotto condanne. Se aggiungiamo i trentacinque patteggiamenti, arriviamo a sessantadue colpevoli su 5 mila e 418.

 

Perché questo? Perché la norma è stata scritta per non essere applicata.

Quei numerini sono persone che sono rimaste anni con il fiato sospeso, sborsando quattrini e vedendosi rovinare carriere. Verissimo! Pensiamo però anche a quante persone è stata rovinata la carriera, imprese tagliate fuori perché non facenti parte del giro, commesse pubbliche affidate all’azienda di famiglia per interposta persona, a quanti abusi in danno di giovani e promettenti scienziati che hanno dovuto lasciare il loro Paese per le “baronate” tipiche di certi ambienti. Loro contano di meno?

 

Le questioni che dovrebbero affrontarsi seriamente sono le seguenti: se si abroga l’abuso d’ufficio allora bisogna rendere accessibile un sistema di giustizia amministrativa diventata appannaggio di una cerchia sempre più ristretta di persone che possono permettersi di avviare un ricorso giurisdizionale (il processo penale è, al momento, gratuito mentre quello amministrativo si paga). Prevedere sanzioni di diverso tipo a carico dei pubblici agenti che facciano uso distorto e arbitrario dei poteri a loro affidati, valorizzando illeciti di stampo amministrativo o civile.

 

L’abrogazione non risolverà alcun problema. Ne creerà, di contro, nuovi e preoccupanti vuoti di tutela.

 

Gianluca Ruggiero

 

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