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Medicina
Dove va l’Unità Spinale Unipolare di Torino, insostituibile ricchezza territoriale?
Nata come presuntuosa eccellenza, da anni sta esprimendo sottotono le sue potenzialità. Ipotesi di un'altra operatività
Articolo di Carlo Mariano Sartoris
Pubblicato in data 30/01/2024

Edificata alle spalle del CTO, l’Unità Spinale Unipolare è entrata in funzione nel 2007, la più grande sede di trattamento riabilitativo delle persone afflitte da lesioni del midollo spinale costruita in Italia, ed era tra le più strutturate d’Europa. Il costo finale, allestimento compreso, è stato di 29 milioni di euro.

Ancor oggi, sul sito dell’azienda Ospedaliero-Universitaria della Città della Salute e della Scienza di Torino, l’USU è consultabile come centro per pazienti mielolesi a valore Regionale, dotato di 46 posti letto destinati alle patologie midollari, 16 posti letto riservati a Day hospital e 12 assegnati (pro tempore) a pazienti cerebrolesi, poi portati per gradi a 14, partendo dal 2008, raccolti al 4º piano della moderna struttura, in cui venivano ricavati altri 4 posti per i lesionati midollari stabilizzati.

A beneficio di ogni lettore al di fuori del mestiere, occorre specificare che la lesione midollare causa una sofferenza fisica destinata a durare per la vita e un duraturo smarrimento del soggetto, eradicato da una quotidianità che non sarà mai più la stessa, mentre il reinserimento talvolta, ancora inciampa su antichi pregiudizi.

Nel nostro Paese ogni anno si verificano oltre 1100 casi. Un numero in aumento che non fa distinzioni né di classe, né di sesso. È uno shock esistenziale per un totale stimato in Italia di 70 mila persone. Un pesante carico medicale ed economico per le casse dello Stato.

Per i lesionati midollari del Piemonte, di cui ahimè faccio parte da ben 37 anni, in quel 2007, la moderna architettura dell’USU parve un’isola della speranza, non solo per i trattamenti riabilitativi e quelle complessità che proseguono anche dopo la dimissione. Propositi condivisi da uno staff ospedaliero allora motivato e motivante.

Nel corso degli anni però, l’USU, trascinata nel vortice di una sanità pubblica in perpetua sofferenza, ha disatteso molte aspettative, ma ancora ben funziona in parte, soprattutto grazie a quel personale caparbio e resiliente, che resiste, coerente con la sua professione. Sensazione rinnovata con intimo piacere, durante quattro giorni di ricovero per una leggera operazione, dove sono stato accolto in modo molto competente ed empatico.

In questo periodo però, nel reparto si sono rinnovate delle tensioni innescate da ventilate decisioni dell’attuale primario Dr. Maurizio Beatrici, sul momento sgradite a molti operatori. La scintilla è scaturita da una notizia riguardante la richiesta del primario alla Direzione Sanitaria, di accorpare due reparti in un solo piano (il 4º) attualmente con 15 posti dedicati per lo più a pazienti cerebrolesi, adducendo questioni di ipotetica mancanza di organico. Questi ed altri retaggi che solo un anno fa avevano innescato una organizzata manifestazione delle associazioni che aggregano il popolo dei lesionati midollari, e che avevano rivendicato traditi diritti.

Notizie fresche riportano un cambio di rotta, sia da parte della Direzione, che del Primario, anzi, si prospetta un aumento dell’organico di 8 nuovi operatori, numero insufficiente per plurime cause.

Beatrici lamenta un forte pregiudizio da parte di nuovi medici, infermieri e operatori sociosanitari, nello scegliere un lavoro presso l’USU, laddove il paziente viene interpretato come un impegnativo organismo che soffre e basta. È una barriera mentale di un’intera società che ancora esiste e forse contamina anche le aule di una università dove il concetto di cura e di ambizione professionale si stanno dilatando tra loro, lasciando un vuoto nel mezzo.

La verità è che ogni mestiere pretende un approccio positivo e consapevole, intrapreso con coscienza a monte di ogni ipotetica difficoltà. Il lavoro con i lesionati midollari poi, ha dei risvolti umani sorprendenti, quasi unici nel mondo medicale, e questo va constatato e detto. Andrei di persona nelle aule dei prossimi infermieri a spiegare perché in molte cliniche di riabilitazione sovente nascono lunghe relazioni sentimentali tra operatori e pazienti.

La difficoltà nel reperire nuovi addetti è solo una delle cause dell’attuale disputa di letti e di spazi tra i bisogni di lesionati cerebrali e midollari. Sembra una guerra tra poveri che tirano a vicenda una “coperta troppo corta”, mentre l’origine del male si annida nella identificazione dei reali antagonisti socio-economici che decidono al di fuori del coro, ma non solo.

La legge 30/11/92 n. 502 che ha trasformato le Usl in Asl, e la regionalizzazione delle aziende, hanno imposto agli ospedali di privilegiare la quantità più che la qualità della cura, ultimo esperimento per provare a riassettare i conti sempre in rosso della sanità pubblica. Ed è questo il punto su cui ragionare. A distanza di tempo serve chiedersi: è stato un demandare il problema oppure una perdita di opportunità? Spesso immagino si debbano suddividere in eguale misura molte responsabilità.

L’attitudine ad accorpare lesionati midollari e cerebolesi è diventata una prassi condivisa da altre, storiche unità spinali. In realtà, dovrebbe trattarsi di reparti che non si sottraggano alcunché, luogo & spazio compresi. Un’altra scelta agghiacciante è quella di demandare i ricoveri dei mielolesi in distretti ospedalieri che abbiano nel loro dipartimento un CTO, dove verrebbero gestiti in ospedali non qualificati.

Una doppia scelta che sgretola le fondamenta di ogni Unità Spinale, poiché il paziente midollare richiede un suo contesto specialistico per poter ambire alla massima riabilitazione e infine, non è compatibile con un lesionato cerebrale, che necessita di tutt’altro iter ospedaliero, per certi casi anche più complesso. È dunque il bilancio economico il primo paziente da riabilitare?

Occorre gettare la causa oltre ogni ambizione e perseguire il saper dire e il saper fare. Trasformare singoli egoismi e molteplici sprechi in una sinergia di efficienza, di orgoglio e di acuta gestione aziendale. La struttura attende "paziente" anch'essa.

Da anni immagino un’audace management che sappia trasformare l’USU in… ciò per cui è stata creata, e magari andare anche oltre l’eccellenza, mutarla in un faro virtuale che lavora in attivo, pur illuminando il senso della medicina, che importi pazienti dall’estero, anziché spedirli altrove. Forse si può fare. Se non si mira in alto si ambisce sempre alla mediocrità.  

Certo occorre uno staff eccezionale, ma per poter scrivere “obiettivi raggiunti” serve vegliare su sperperi e codici, contenere i costi degli ausili, di macchinari e di ogni prestazione poi pagata dallo Stato. Pensieri scomodi da ammettere e poi connettere: se il sistema privato fa profitto, c’è qualcosa che non va nell’usare il bancomat statale.

Servono gratificazioni al personale, corsi di aggiornamento, lezioni nelle scuole…. l’utilizzo al 100% di tutta la struttura grazie a una politica di dare-avere-saldo a tutto campo, da quello emotivo a quello economico, poiché qualsiasi azienda rende in funzione della dirigenza. La sanità privata insegna. Allo Stato costa meno la stessa prestazione effettuata nel privato, piuttosto che nell’ambito del sanitario pubblico.

Le lesioni midollari sono in agguato, non danno preavviso, per l’87% dei casi si verificano in età compresa tra i 12 e i 40 anni, con un picco tra i 20 e i 30. Incidenti stradali, cadute, tuffi in acque basse e traumi sul lavoro sono le cause più comuni. Nessuno si può reputare esente.

Ecco perché un’unità spinale non deve essere valutata da un punto di vista numerico. L’invito a prenderne coscienza è riferito a ogni lettore, fino ai vertici della sanità. L’USU è una ricchezza territoriale pensata quando il concetto di riabilitazione, a Torino era sospinto da un fattore emotivo che sapeva di vitalità.

Non sempre para & tetraplegici ce la fanno a ricostruire una vita indipendente, in un contesto familiare e lavorativo assimilabile a un concetto di normalità. Molte volte il centro di riabilitazione è il punto d’approdo per l'ordinaria manutenzione, ma anche un luogo dove si genera un rassicurante senso di gruppo, però è possibile fare molto di più.

Posso perchè voglio quel che devo (Immanuel Kant)

Da ex pubblicitario, immagino un prossimo summit orchestrato con acuto “brainstorming” per un’USU che riesca a invertire la rotta, motivare nuovo personale, sfruttare appieno tutte le sue strutture, aumentare i posti letto, moltiplicare servizi e competenze, organizzare attività sportiva e perché no anche agonistica, oppure artistica, teatrale, indirizzando a una vita  lavorativa… guardando agli esempi più virtuosi in Italia e in Europa. È stata un'esperienza che ho vissuto e quindi, messo in opera  per quanto ho potuto, insieme a persone  molto motivate.       

"Qui la compagnia  teatrale di Terapia D'Arte, 12 Anni di successi bestiali!"

37 anni or sono, appena dimesso dal CTO venivo trasvolato al Centre Hospitalier Paul Coste Floret, a Lamalou les Bains, delizioso paesino tra le Cevennes, lì venivo accolto nella camera informatica n.28 del padiglione Jeanne d’Arc, dove tetraplegico e non autosufficiente, dal letto potevo gestire molte operazioni grazie a un primitivo impianto di domotica.

Le altre, molteplici esperienze riabilitative che conservo nella memoria e in qualche DVD, tra rieducazione sessuale, immersioni nel Golfo del Leone e consulenze in cui fui coinvolto come architetto, per studiare il ritorno a domicilio di alcuni pazienti, e non solo, tante sono tuttora fantascienza per una decadente etica italiana talvolta vittima della “pietas romana” o che si fa le scarpe mentre piange su se stessa. 

Quella clinica, gestita da Henri Ginglinger, primario motivante e travolgente, fece di me un uomo nuovo. Dunque, sia da un punto ospedaliero che personale, perché cercare di sopravvivere quando si può emergere?

 

 

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