Industria 70.0

L’età del pensionamento continua a spostarsi e si potrà lavorare sino a oltre settant’anni

La notizia che oramai non fa più notizia è che l’età del pensionamento si sposta sempre più in là, tanto che per i giovani di oggi si prospetta la possibilità di ritirarsi dal mondo del lavoro a 70 anni e oltre.

Dopo decenni di vacche grasse, quelle di cui hanno goduto i pensionati che hanno lavorato dal dopoguerra sino a circa dieci-quindici anni fa, in cui si poteva andare in pensione a una sessantina d’anni o anche prima (vedi le famigerate baby pensioni) e oltretutto in certi casi con assegni consistenti legati all’ultimo periodo retributivo anziché  al  più realistico versamento contributivo dell’intera vita lavorativa, è giunto il periodo in cui si debba andare in pensione tardi e con pochi soldi.

Il tutto ruota attorno a due pilastri: l’allungamento dell’aspettativa di vita e i contributi versati, cui si aggiunge una situazione delle casse Inps non delle più rosee.

Molti economisti, imprenditori, politici, quasi tutti, si trovano d’accordo sul fatto che, potendo vivere di più e trovandosi a svolgere attività lavorative sempre meno usuranti e sempre più intellettuali, sarebbe uno spreco ritirarsi dal mondo del lavoro troppo presto, tanto più che l’allungamento della vita media si va allungando.

Provando, tuttavia, a fare un altro tipo di analisi, vediamo anche l’altro lato della medaglia, non proprio dei più promettenti, soprattutto in Italia.

Innanzi tutto, i giovani di oggi si trovano a dover affrontare un mondo del lavoro assai più dinamico e in continua evoluzione (robotizzazione, intelligenza artificiale, globalizzazione, …) tanto che è consuetudine sentir parlare di formazione continua e/o riqualificazione professionale per stare al passo coi tempi.

Al di là del fatto che recenti dati ci dicono che per i centri per l’impiego e la formazione in Italia si spende circa un quinto rispetto ad esempio alla Germania, il continuo aggiornamento richiesto comporta ovviamente un certo sforzo che con gli anni non si ha sempre la voglia e la capacità di affrontare, ragion per cui mi domando come si pensi che tutte le persone dopo i 50 anni possano riuscire nell’intento di continuare ad essere sempre dinamici.

Il fatto che alcune posizioni lavorative (politici, economisti, imprenditori, dirigenti) vedano in primo piano individui particolarmente dotati al cambiamento e al dinamismo, caratteristiche richieste per quei ruoli, non significa che tutti i lavoratori in futuro dovranno cedere a quella “balzana” idea di non cambiare mai lavoro e continuare allegramente a ri-formarsi anche sino a 70 anni.

C’è poi il discorso legato ai contratti che, tra tempi determinati, lavori a progetto, finte partite iva di giovani costretti a diventare autonomi per trovare un lavoro, precariato, lavori a chiamata, voucher, comportano una vita lavorativa per molti di loro è fatta di precarietà e stipendi non certo grassi resi ancor più leggeri se, a sentire gli stessi politici ed economisti, dal netto mensile andiamo a dare una parte ai fondi integrativi per arrotondare le esigue pensioni del futuro.

La tecnologia, che dovrebbe tra l’altro aiutarci a risparmiare tempo, non vede ad esempio in Italia una concreta diffusione dello smart working (lavorare collegati da casa) e spesso, grazie o per colpa dei smartphone, sempre disponibili e rintracciabili.

L’alta velocità tra Torino e Milano non fa che aumentare i Torinesi (circa 1600) che ogni giorno debbono recarsi nel capoluogo meneghino pur di lavorare.

La flessibilità, se utilizzata in maniera adeguata, può rivelarsi uno strumento utile per migliorare le performance economiche e sociali e per incidere in modo positivo sulla qualità della vita delle persone, cose che spesso non avviene come vorremmo.

In un mercato del lavoro, dunque, in cui la prospettiva è fatta di contratti precari, di stipendi non certo elevati, di turni di lavoro come quelli dei centri commerciali in cui si tiene aperto anche alla  domenica, o di notte e pure a Natale, di continuo aggiornamento, di contributi bassi, di condizioni di sicurezza inferiori (vedi ex articolo 18), c’è da domandarsi quanto si debba essere soddisfatti di poter lavorare sino a tarda età solo perché l’aspettativa di vita si è allungata senza necessariamente essere certi di poter vivere bene la propria vecchiaia.

Ricordo uno degli ultimi articoli che Giorgio Bocca scrisse già molti anni fa su L’Espresso. Si domandava come mai un tempo il fatto di svolgere lo stesso lavoro per tutta la vita fosse sintomo di stabilità, rispettabilità e competenza, mentre oggi viene visto quasi come pigrizia e timore alla formazione e all’aggiornamento continuo: cambiare per desiderio di farlo è una cosa, cambiare per sopravvivere è tutt’altro.



Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 30/10/2017