L’EDITORIALE DELLA DOMENICA DI CIVICO20NEWS - Francesco Rossa - Un ricordo di Sergio Marchionne

Un anno ad oggi, a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, Sergio Marchionne veniva sostituito alla guida del gruppo Fiat Chryster Automobiles

La notizia è sta un fulmine a ciel sereno e già faceva presagire scenari cupi. Il 21 luglio del 2018, un anno ad oggi, un comunicato della presidenza di FCA annunciava la sostituzione di Sergio Marchione dal vertice del gruppo.

 

Il borioso Alfredo Altavilla che con Marchionne  imperante non perdeva occasione di far trapelare al mondo esterno ed alla stampa economica, che lui sarebbe stato l’erede di Sergio, usciva sbrigativamente di scena.

 

A succedere a Marchionne era designato Mike Manley, stimatissimo Ad di Jeep, ma non ingombrante quanto Marchionne. L'uomo giusto per le mire di Jaky che nutriva tutte le intenzioni di prendere in mano il comando di Fca.

 

Il 25 luglio morì Sergio Marchionne e la mossa della proprietà, presa anche in contropiede, fu intesa perfettamente.

Con tale riferimento temporale, per gli estimatori dell’Uomo e gli osservatori della vita pubblica italiana, intendiamo ricordare Sergio Marchionne soffermandoci tra le molteplici decisioni che potremo definire epocali.

 

La filosofia di Sergio Marchionne alla guida di Fiat-Fca può essere riassunta così: la sfida della globalizzazione si può vincere giocandola apertamente, senza sostegno pubblico e senza contare troppo su un mercato nazionale ormai aperto alla concorrenza. Ma per farlo è necessario avere gli strumenti gestionali per competere alla pari con una concorrenza agguerrita.

Questa filosofia aveva conseguenze radicali per l’impresa prima di tutto, ma, di conseguenza, anche per l’Italia in generale. Se per Fca possiamo dire che la sfida è stata vinta, il Paese, anche complice una classe politica bigotta, incolta e provinciale, l’ha invece percepita come una minaccia e, con qualche rara eccezione, l’ha rigettata.

Marchionne ha rivoltato la vecchia Fiat come un calzino. Arrivato in un’impresa tecnicamente fallita e con una proprietà nel mezzo di un difficile passaggio generazionale, ha fatto piazza pulita di pratiche gestionali ormai vecchie e di un rapporto con lo Stato basato su sudditanza e scambi sussidi-occupazione, imposti, negli anni dal falso buonismo democristiano e dal mito della pace sociale a qualunque costo.

Queste caratteristiche, funzionali nel mercato relativamente protetto del secondo dopoguerra, erano diventate una pietra al collo in quello competitivo e con lo Stato meno invasivo  degli anni Novanta.

 

Ma per cambiare una mentalità così radicata ci voleva un rivoluzionario.

Il merito della famiglia Agnelli è stato quello di individuarlo in Marchionne, allora una figura relativamente nuova nell’universo IFI, e dargli carta bianca.

Citiamo solo due passaggi particolarmente interessanti. Il primo riguarda la decisione di chiudere l’impianto di Termini Imerese, giudicato economicamente insostenibile. Un ministro propose implicitamente il vecchio scambio tipico dell’Italia cialtrona: un prolungamento degli incentivi alla rottamazione in cambio del mantenimento dell’impianto siciliano.

 

La risposta di Marchionne fu no: un’impresa che compete su mercati internazionali non può permettersi di avere impianti strutturalmente in perdita. Questa logica, quasi banale nella sua semplicità, rappresentò una rottura epocale nei rapporti fra politica e impresa.

Fiat smetteva di contare sull’aiuto pubblico, ma anche di farsi carico di obiettivi che sono propri dello Stato, come promuovere lo sviluppo in certe aree del Paese. Fu uno shock la cui importanza è ancora poco compresa.

 

Pochi forse ricordano la politica suicida dei governi di centro sinistra degli anni ’70 del secolo scorso. Obbligarono le aziende del Nord, Fiat in testa, a dislocare attività fiorenti al Sud, creando cattedrali nel deserto inefficienti, a carico del contribuente, che non sono mai riuscite a funzionare a pieno ritmo, causa i condizionamenti  ambientali, le carenze logistiche e l’habitat malavitoso soffocante, a scapito dello sviluppo economico del Nord.

Ma questo è un argomento che meriterà un’apposita e circostanziata trattazione.

Il secondo, più noto, è l’uscita dal sistema di contrattazione collettiva e la stipula di contratti aziendali. La scelta rifletteva la necessità di governabilità degli impianti. Fca si impegnava, come poi ha fatto, a rinnovare le fabbriche, adottando tecniche gestionali all’avanguardia. Ma queste tecniche richiedevano nuovi rapporti con i lavoratori, in particolare che garantissero la certezza di quanto contrattato (l’esigibilità dei contratti).

Dato che il sistema di contrattazione collettiva non garantiva queste condizioni, Fca l’ha abbandonato, uscendo da Confindustria e, anche in questo caso, rompendo una consuetudine congenita alla Fiat ed all’industria italiana.

I risultati della “filosofia Marchionne” sono evidenti. La vecchia Fiat, sulla quale aveva l’autorità per imporla, l’ha abbracciata, compresa la maggioranza dei lavoratori italiani che ha votato nei referendum sui contratti. Marchionne ha dimostrato coi fatti che la sfida si può vincere. Un’impresa allora sull’orlo del fallimento è oggi una multinazionale solida e ben posizionata sulle due sponde dell’Atlantico, con una serie di marchi che hanno spostato il baricentro sul segmento premium.

Il “piano Marchionne” non è stato completamente portato a termine.

Ma sono dettagli rispetto al quadro d’insieme: la svolta di Fiat è ormai entrata a far parte dei casi di successo studiati nelle business school di tutto il mondo.

Il Paese ha invece rigettato la “filosofia Marchionne”.

Il suo obiettivo non era tanto di modernizzare l’Italia: a lui interessava rilanciare Fiat. Ma sicuramente sperava che il suo progetto diventasse contagioso. Da qui lo stupore, prima, e l’amarezza, poi, di fronte alle critiche contro la sua gestione.

Ci ha messo un po’, ma quando l’ha capito, ne ha preso atto: in Italia rimane maggioritaria la quota di persone, politici in testa, che pensa che la sfida della globalizzazione si possa vincere con l’erogazione del salario ai pelandroni o piangendosi addosso.

Ma il mondo sta andando in ben altra direzione.

Lui se n’era accorto.

Francesco Rossa - Presidnte Onorario

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 21/07/2019