Il fascino e i limiti della guerra valutaria

I mercati finanziari vivono di vita propria, ma gli Stati non devono cadere nella trappola dell'economicismo.

L'andamento dei mercati finanziari è spesso commentato come se ci fosse una guerra in corso. Per meglio dire, come se ci fosse una volontà da parte delle classi dirigenti dei diversi paesi nello spingere in una direzione. In questa tipologia di commenti la direzione è quella di spingere la propria crescita a danno di quella altrui. Lo strumento maggiore è la svalutazione del proprio cambio – la cosiddetta «guerra valutaria» – volta a guadagnare quote di beni e servizi nei mercati reali. La finanza è quindi uno strumento per giungere allo scopo, ossia, in questo modo di vedere le cose, essa non ha «vita propria».

Gli agglomerati maggiori sono gli Stati Uniti, l’Eurozona e la Cina, ognuna con la propria moneta. Le loro economie hanno circa la stessa dimensione, mentre è diverso il loro reddito pro capite. Quest’ultimo è simile negli Stati Uniti e nell’Eurozona, ed è di molto inferiore in Cina. Anche i tassi di crescita sono diversi: il più elevato è quello cinese, seguito da quello statunitense, con quello dell’Eurozona in coda. I protagonisti diventano quattro quando si arriva al petrolio, perché si aggiunge l’Arabia Saudita. Il Giappone, il Regno Unito e la Svizzera compaiono di tanto in tanto nei ragionamenti, ma sempre con un ruolo minore.

La Russia, infine, è difficile da collocare: la sua economia è grande all’incirca come quella italiana, ma è una potenza energetica e nucleare. Abbiamo così degli attori (i succitati paesi) che secondo questa interpretazione agiscono come se ci fosse all’interno di ognuno una volontà unica – un solo punto di vista della classe dirigente di ogni agglomerato – per spingere nella direzione della propria potenza. Il mondo, soprattutto quello economico, diventa «ordinato», ossia i processi sono «governati», che è un altro modo di dire che non sono il frutto di andamenti indipendenti e casuali.

Un approccio molto seguito nel commentare i mercati finanziari è quello che possiamo definire della «causa esterna». Senza shock esterni i mercati finanziari sono in equilibrio o vi tendono. Possono quindi rompere l’equilibrio solo per l’arrivo di eventi esterni inattesi, ossia non scontati, ovvero non anticipati dai prezzi. Quest’anno i due eventi esterni sono la caduta della Borsa cinese insieme alla svalutazione della moneta cinese il tutto combinato con il crollo del prezzo del petrolio. La caduta della Borsa cinese era prevedibile. Prima del crollo di agosto essa aveva la classica forma della «bolla». Come accade a un mercato quando è in bolla, le sue quotazioni diventano astronomiche.

Nel caso cinese, il rapporto prezzo-utili mediano – quello che sta in mezzo e quindi non risente del peso delle imprese maggiori – era ben tre volte maggiore di quello di altri paesi . È difficile pensare che le prospettive delle imprese cinesi siano tre volte maggiori di quelle degli altri paesi. Anche la svalutazione della moneta cinese era prevedibile. All’origine si ha la maggiore inflazione relativa della Cina, che negli ultimi anni si è cumulata per circa il 30%, rendendo meno competitive le sue merci – i maggiori costi cumulati non hanno potuto, infatti, scaricarsi attraverso il cambio.

Il deprezzamento «guidato» dello yuan è perciò volto a riacquistare una parte della competitività perduta. La svalutazione era quindi prevedibile, mentre lo è meno il percorso. Ecco la complicazione. Se l’aspettativa è quella di una caduta del cambio, allora gli operatori desiderano anticiparla, e quindi vendono massicciamente la propria moneta per comprare quella estera. Ultimamente escono dalla Cina circa 100 miliardi di dollari al mese. Gli acquisti della Banca centrale di moneta cinese per frenare la caduta «disordinata» dello yuan non riescono a fermare la corsa delle vendite. L’ulteriore caduta del prezzo del petrolio era meno prevedibile.

Fino allo scorso anno il prezzo del barile – nella previsione dei mercati dei futuri – era  Stato, grande spazio, nomos,  nell’ordine dei 50-60 dollari, il doppio di oggi. Il prezzo del barile a questi livelli – livelli che potrebbero mantenersi a lungo – crea degli squilibri molto forti, non solo economici, in molti paesi, fra cui la Russia. Gli squilibri economici causati dal petrolio nei paesi emersi sono il frutto di tre andamenti – domanda per consumi, per investimenti ed esportazioni. Quando il prezzo del petrolio iniziò la sua caduta le attese erano di una forte spinta all’economia. Un anno dopo la spinta non si è palesata. Come mai? Se cade il prezzo del petrolio, cade il prezzo della benzina. La caduta è però tanto minore quanto maggiori sono le accise.

Se si spende meno per fare il pieno, si hanno due vie d’uscita: a) si spende da altre parti – per esempio si va in pizzeria; b) non si spende, ma si risparmia, ciò che avviene se le famiglie sono indebitate o timorose. In questo secondo caso, l’effetto della caduta del prezzo della benzina è nullo. Se cade il prezzo del petrolio, sono tagliati gli investimenti – la stima è di 400 miliardi di dollari a livello mondiale – per la ricerca di nuovi pozzi. Cadono perciò gli investimenti. La caduta del prezzo del petrolio riduce il potere d’acquisto dei paesi esportatori di questa materia prima. Ecco che si riducono le loro importazioni dai paesi consumatori.

Conclusione: se si risparmia il maggior potere d’acquisto, se gli investimenti in campo energetico sono tagliati, e se si riducono le esportazioni, allora la caduta del prezzo del petrolio ha degli effetti negativi sul PIL dei paesi consumatori. Se poi osserviamo la variazione dei prezzi le cose peggiorano. Se l’inflazione in partenza è bassa, la caduta del prezzo del petrolio la schiaccia ancora di più. L’inflazione diventa nulla. L’inflazione nulla, se attesa tale, non incentiva la spesa, ciò che sarebbe avvenuto se si fossero anticipati dei prezzi maggiori nel futuro. Insomma, la caduta del prezzo del petrolio non è la cornucopia che alcuni si attendevano l’anno scorso, e anzi alimenta le difficoltà economiche e politiche. 

Nel caso dell’Eurozona, la bilancia commerciale è decisamente in surplus. Il cambio dell’euro verso il dollaro che, per la presenza di questo surplus, non può che salire, finisce per dipendere, per il suo risultato finale, dai movimenti dei capitali. Se questi non escono dall’Eurozona, ecco che l’euro vola, e viceversa. Da qualche tempo – a fronte di una bilancia commerciale sempre in largo surplus – i movimenti di portafoglio sono nella direzione dell’uscita dall’Eurozona. La ragione è da ricercarsi nel ciclo economico: nell’Eurozona esso è ancora debole e quindi «comanda» dei tassi e dei rendimenti bassi, mentre negli Stati Uniti avviene il contrario.

La fuoriuscita di capitali dall’Eurozona è stata quasi tutta in campo obbligazionario. Il rendimento delle obbligazioni biennali statunitensi è diventato maggiore di quello delle obbligazioni biennali dell’Eurozona. Le obbligazioni biennali sono quelle che meglio riflettono le aspettative sui tassi praticati dalle Banche centrali. All’ampliarsi della differenza dei rendimenti, il cambio del dollaro si rafforza. Insomma, l’euro «commerciale» è fortissimo, non fosse che la restrizione monetaria negli Stati Uniti e l’espansione nell’Eurozona, alimentando la fuoriuscita dei capitali, lo hanno indebolito. L’euro «finanziario» è diventato debole. 

Insomma, la guerra di potenza passa anche dalla svalutazione della moneta. Se svaluto, le mie merci costano meno e quelle straniere di più. Si arguisce che così venderò di più. In passato la Germania perseguiva il cambio forte. In questo modo si aveva una politica industriale «indiretta», perché le imprese tedesche dovevano competere sulla qualità. Perciò il perseguimento della potenza non passa necessariamente da una moneta debole.

In Italia la moneta debole era il modo per recuperare una dinamica salariale, mantenendo le stesse «relazioni industriali». In breve i salari crescevano più della produttività. A un certo punto le merci italiane diventavano meno competitive, dunque o si fermava la crescita salariale o si investiva in tecnologie superiori, come in Germania, che avrebbero «protetto» la crescita del costo del lavoro.

La svalutazione della lira diventava la più semplice delle soluzioni, perché le merci italiane tornavano temporaneamente appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ossia si lasciavano intatte le «relazioni industriali». Questo percorso non richiedeva – almeno nel breve termine – che la tecnologia salisse di livello – una cosa peraltro regolarmente mai avvenuta, neppure nel periodo più lungo. E questo ci ha portato a seri problemi economici nel comparto industriale, facendo lievitare lo spread che ci separa dalla Germania.

Tuttavia, non dobbiamo farci abbindolare da una logica puramente economicista. Dietro al successo di un'economia pubblica c'è molto di più che delle buone riforme a servizio della propria domanda aggregata. 

Dietro all'efficenza e alla stabilità finanziaria c'è sempre una stabilità politica. Basti pensare che la Repubblica Federale Tedesca dall' '89 ad oggi ha avuto solo tre Presidenti (Kohl, Schröder e Merkel), l'Italia invece quanti ne ha avuti nello stesso arco di tempo? 

Appare quindi evidente che i problemi economici di un Paese sono sempre il riflesso di un problema politico e strategico ben più vasto. Ecco perchè avere una visione più ampia e una progettualità di lungo periodo risulta essere molto più determinante che attuare delle riforme di breve periodo volte solo a compiere i "compitini a casa" che esige l'Europa da noi.

I reali rapporti gioco-forza nelle relazioni internazionali non la fanno le buone riforme di un singolo esecutivo, il quale può incidere più sulla tattica che sulla strategia. 

Al netto della visione edulcorata ed economicista del Bel Paese con la "Costituzione più bella del Mondo", occorre invece ricordare come la forza di una Nazione nel Mondo non la fanno i titoli di stato, ne chi li detiene, ma chi controlla i mari con le proprie Forze armate e con la tecnologia militare. A distanza di millenni dall'uscita dell'Uomo dalle caverne è ancora la forza che determina i rapporti fra gli Stati. Per dirla alla Berto Ricci, lo scontro è ancora fra bestie progredite e civilissimi uomini primitivi.

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Articolo pubblicato il 20/05/2021