Attenti al lupo, anzi alla lupa

L’invidia sta alla base di molta parte del male del mondo

È strano, ma in italiano mi pare che esista un’unica parola per definire due stati d’animo oggettivamente diversi: mi riferisco al termine invidia. È chiaro infatti che esiste una grande differenza  tra la benevola “invidia” di chi è in là con gli anni e, vedendo due ragazzi che si baciano su una panchina, perduti nel loro sentimento e dimentichi di tutto tranne l’uno dell’altra, sorride e si allontana con discrezione; e il livore di chi riesce a malapena a dire  “Bravo!”, giusto per non scoprire le sue carte, a chi ha appena ottenuto uno straordinario ed inaspettato  successo proprio nell’azienda da cui il nostro invidioso aveva tramato in ogni modo per allontanarlo e prendere il suo posto. Altro che apprezzarne le qualità e condividere l’entusiasmo per il miglioramento che la nuova leadership sicuramente porterà a tutta l’azienda e quindi anche a lui stesso; l’invidioso preferirebbe vedere la ditta chiudere i battenti e ritrovarsi disoccupato, piuttosto che assistere impotente alla continua ascesa del proprio inconsapevole antagonista. Di “quell’antagonista” o di “qualunque” antagonista? Domanda complessa, cui proporrò una risposta più avanti.

A pensarci bene, forse i termini livore o astio definiscono bene il secondo sentimento, ma non sono parole così consuete; invidia è usato comunemente in entrambi i casi. C’è anche la parola gelosia, a ben vedere, che ci rimanda però più facilmente al  solo sentimento di possesso di un partner verso l’altro, o di un bambino verso il fratello/sorella  più piccolo/a, ad un ambito insomma abbastanza limitato, diverso dall’universalità dell’invidia, parola su cui pesano anche diverse influenze. Per esempio quella  della dottrina cattolica e della Commedia dantesca; dopo la superbia, al primo posto tra i peccati capitali, compare proprio l’invidia, intesa come volontà di fare il male di chi ha ottenuto un successo, qualunque esso sia.  Volere il male dell’altro e adoperarsi in ogni modo per attuarlo. Un sentimento cupo e malvagio, feroce come una lupa affamata; non a caso infatti la fiera che più spaventa  Dante quando la  incontra nella selva oscura dove si perde nel primo canto dell’Inferno è proprio la lupa, simbolo di avarizia e cupidigia, destinata ad essere vinta dal “veltro”, sulla cui   identità, simbolica o reale che sia, sono state scritte biblioteche:

questi la caccerà per ogne villa

finché l’avrà rimessa ne lo ‘nferno,

là onde invidia prima dipartilla.

L’ultimo verso della terzina è molto eloquente ed importante ai fini del nostro discorso: se la superbia  è  il più grave dei peccati capitali,  l’avidità lo è quasi altrettanto e, come ci dice Dante, deriva proprio dall’invidia. Del resto la stessa superbia nasce, per certi versi, anch’essa dall’invidia, come ci spiega un interessante commento di Pascoli ai canti che descrivono l’Inferno più profondo. Se è vero che la superbia è il peccato più grave perché è ciò che ha spinto Lucifero a ribellarsi a Dio, da cosa nasce la sua superbia se non  dall’invidia verso la forza e il potere di Dio? L’invidia dunque è davvero uno stato d’animo malvagio e pericoloso, così come lo sono gli invidiosi e le loro azioni. Bisogna imparare a riconoscerli e non pensare che una lunga frequentazione o una parentela o una vicinanza  qualsiasi di altro genere possano garantire l’immunità da questo male; il sistema più semplice, a mio avviso, resta l’osservazione delle reazioni di fronte ad un qualsiasi successo o gioia  altrui.   Se chi vince un importante concorso per noi  è uno sconosciuto, dovremmo comunque tutti partecipare alla sua felicità, anche se una certa dose di indifferenza credo sia più che legittima; ma se invece si tratta di qualcuno che ci è vicino e che non ci ha mai fatto del male, perché non essere felici per lui? Questa condivisone della gioia è un sentimento davvero bellissimo, che procura gioia a chi lo prova, una fonte inesauribile di momenti di felicità per chi è davvero capace di partecipare della gioia, dei successi, dei progressi altrui. In sanscrito c’è un termine, che è anche una virtù buddista, che definisce questo stato d’animo: mudita. Una virtù a cui aspirare, a cui tendere nel cammino del perfezionamento di sé; a cui aspirare, appunto, perché nella mia esperienza non ho mai conosciuto nessuno, buddista, scintoista, cattolico, mussulmano, ebreo e via dicendo che abbia mai raggiunto questo obiettivo in modo non dico definitivo, ma almeno ampiamente sufficiente.

Quanti riescono a condividere la gioia di un altro senza provare un po’ d’invidia, se l’oggetto della gioia altrui è qualcosa a cui anche noi aspiravamo ma non siamo riusciti ad ottenere? E se ci limitiamo ad un po’ di malevolenza nel giudizio ( “Bella macchina. Ma che brutto colore!” “L’abito è bello. Ma come le sta male!) pazienza, ma purtroppo il passo dall’invidia benevola a quella malevola, al peccato d’invidia, non è poi tanto lungo. Bisogna stare attenti: se abbiamo la fortuna di vivere una serie di eventi fortunati, anche se frutto di impegno serio e responsabile, non pensiamo che la nostra fatica ci venga riconosciuta dall’invidioso, né che il titolo, per esempio, che abbiamo ottenuto ( e lui no) venga apprezzato quanto meriterebbe. Verrà sempre messa in dubbio la nostra onestà durante le prove, circoleranno voci su ridicole raccomandazioni e si concluderà con un bel “Va bene, sarà anche bravo, ma quanto se la mena!”  

Insomma, se nel mondo greco, a fronte di  una vita felice e fortunata, si temeva  l’invidia degli dei, forse si può scendere anche ad un piano più terreno e temere l’invidia di chi non riesce, per incapacità, mancanza di coraggio, di determinazione  o altro, a vivere la vita che desidera e comincia a detestare chiunque ci riesca.

Per circolarità, tornerei alla domanda iniziale; l’invidioso scatena la sua lupa contro qualcuno in particolare o contro chiunque abbia successo  là dove lui, invece, non fa che collezionare delusioni? Temo che la risposta sia sotto gli occhi di tutti e non è per niente bella: l’invidia è un modo di essere, purtroppo molto diffuso, e si manifesta quindi in ogni situazione. Oggi l’invidioso vorrà il male del datore di lavoro, domani del fratello, dopodomani dell’amico d’infanzia; bisogna imparare a riconoscerlo perché  è pericoloso e spesso simula approvazione e partecipazione mentre dentro di sé prova solo astio e livore. Chi non prova invidia, chi non sente questo sgradevole sentimento dentro di sé (e per fortuna l’umanità è fatta anche così), dovrebbe osservare bene coloro a cui pensa di dare una buona notizia annunciando  i suoi successi. Dietro parole mielose e false congratulazioni si possono nascondere gli occhi rossi della lupa dantesca, l’avidità insaziabile nata dall’invidia.    

 

© 2023 CIVICO20NEWS - riproduzione riservata

 

 

 

 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 20/05/2023