Rispettare la forma significa rispettare la sostanza
Sgombriamo subito il campo da ogni possibile equivoco: rispettare la forma non significa ( o per lo meno non significa soltanto) sapere usare le forchette nell’ordine giusto o riuscire a sbucciare una mela senza usare le dita, ma è qualcosa di più.
Il vero rispetto per la forma passa attraverso un atteggiamento pacato e tollerante che induce a non interrompere il nostro interlocutore non perché vogliamo poi essere ascoltati con la stessa pazienza, ma perché siamo davvero convinti che il dialogo sia l’unica forma di confronto civile possibile, senza il pregiudizio che il modo di essere di chi ci sta di fronte sia per natura incompatibile con ogni forma di mediazione e quindi inutile.
Passa attraverso una condizione dell’animo gentile (nel senso più nobile del termine), che può condurre ad un gesto, un pensiero, un dono pensato solo per far piacere all’altro, senza alcun secondo fine. Non è cosa da poco. Anzi è cosa rara e preziosa, da sottolineare quando la si incontra e da aiutare in ogni modo a crescere.
Per esempio attraverso il rispetto per la lingua in cui ci si esprime, oralmente e per iscritto. È vero, quando scriviamo messaggi sul telefonino o rispondiamo ad una e-mail siamo spesso di fretta e magari usiamo fantasiose abbreviazione, non ci preoccupiamo di maiuscole e minuscole, di accenti o apostrofi, per non dire che ci dimentichiamo della punteggiatura. Ma non solo; quante volte sentiamo dire “gli” nel senso di “a lei” oppure “a loro” o troviamo scritto “qual è” con l’apostrofo e via dicendo.
Inutile sottolineare che “qual è” non vuole l’apostrofo perché si tratta di un troncamento (“qual” esiste come forma autonoma) e non di un’elisione, tanto meno che “gli” in italiano significa “a lui” e nient’altro. Molti si difendono sostenendo che “raccontai loro una favola” suona lezioso, mentre “gli raccontai una favola” è molto più semplice e diretto. Sarà, ma in un caso si presuppone un pubblico di più bambini, nell’altro solo di uno. Se proprio non ci piace quel “loro” modifichiamo la frase, rigiriamola come ci pare meglio, ma rispettiamo la lingua di Dante e di Manzoni ed evitiamo di farle violenza. Sciocchezze?
Non abbiamo tempo da perdere con queste banalità? È un pensiero diffuso, ma a mio modesto avviso pericoloso. Innanzitutto perché dimostra la scarsa considerazione che abbiamo verso la correttezza formale, l’ordine e la precisione nonché, al contrario, eccessiva considerazione verso il pensiero dominante. Esprimersi in una lingua e in una forma corretta significa essere chiari, innanzitutto: significa non lasciare adito a dubbi su quanto stiamo esponendo, significa esporre le nostre argomentazioni in modo coerente e organico, usando i termini che la lingua in cui ci esprimiamo possiede, adeguandoci alla situazione comunicativa in cui ci troviamo.
E su questo avrei una precisazione da fare: è chiaro che se racconto un mito greco a dei bambini userò un registro linguistico diverso da quello che seguirei davanti ad pubblico di filologi classici specializzati in mitologia comparata, ma adeguarsi non significa banalizzare o tanto meno impoverire la qualità del discorso. Il linguaggio specifico, non l’erudizione spocchiosa, esiste e va usato; con le dovute spiegazioni e cautele, ma va usato.
Anzi, davanti ad un pubblico di bambini è opportuno inserire a volte termini che i piccoli sicuramente non conoscono. Con il loro disarmante candore, lontani mille miglia dalla sciocca vergogna di chiedere spiegazioni che affligge gli adulti, specie se in gruppo, domanderanno il significato di quel termine e lo impareranno senza fatica. Lo stesso vale davanti ad un pubblico di neofiti; se sono davvero interessati alla materia, chiederanno spiegazioni o le troveranno poi da sé.
Oggi gli strumenti non mancano. Ma senza l’input di quel termine specifico forse avrebbero imparato le stesse cose più lentamente e faticosamente. Quanto al lessico o ai costrutti che suonano poco consoni alle abitudini linguistiche più diffuse, che per alcuni suonano stucchevoli o addirittura poco democratici, credo che sia sbagliato non usarli. Scelte di questo tipo provocano inevitabilmente un impoverimento del lessico, già ahimè oggi molto ridotto; e non dimentichiamo che esprimere un pensiero complesso richiede strutture complesse e terminologia precisa. Altro che poco democratico: un discorso chiaro, espresso con termini precisi e strutture adeguate alla sua complessità, rispettoso del pubblico a cui è rivolto, credo sia quanto di più democratico si possa immaginare.
E lo sa il Cielo di quanto rispetto per gli altri e di quanta considerazione per i pensieri complessi abbiamo bisogno oggi, in Italia e non solo.
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Articolo pubblicato il 20/12/2023