Il re

Racconto di Francesco Cordero di Pamparato

Quella mattinata era splendida. Nel cielo, sopra la città di Pellas, non si vedeva una nuvola. Il re Aristarco si era alzato all’alba e si godeva le prime luci del sole. Quel cielo gli sembrava di buon auspicio. Si era alzato di buon mattino, perché quando si è sereni si dorme meglio e non c’è bisogno di molto riposo. Erano cinque anni che non si combattevano guerre, una cosa incredibile! Però la sua città prosperava.

Pensava anche a sua moglie, la bella Ippolita. Poverina, tutte le volte che lui aveva guidato l’esercito in battaglia, lei era sempre stata in grande ansia sino a quando non era tornato. Quasi sempre vincitore. Era stata fortuna o abilità? Certo, aveva sempre fatto i sacrifici agli Dei e forse, era stato in gran parte il loro aiuto a favorirlo. Questo lo riconosceva. Pensò che avrebbe dovuto organizzare subito un sacrificio a Zeus.

In quel momento la moglie lo raggiunse e lo abbracciò con affetto. Era una donna felice. Suo marito era un brav’uomo, non era più giovane ma era sempre bello e prestante. Più alto della maggior parte dei suoi sudditi e con un fisico asciutto, aveva ancora capelli biondi e occhi azzurri, come pochi greci ormai. Non l’aveva mai delusa. Solo quanto aveva sofferto quando lo aveva visto andare in guerra.

Ma che bello quando invece ritornava vincitore!

Con l’armatura lucente, alto e prestante le faceva pensare ad Ares, il Dio della guerra. Ma non bisognava inorgoglirsi troppo.

Gli Dèi erano permalosi e gelosi della gioia degli uomini. Per questo entrambi erano molto attenti a compiere sovente sacrifici a Zeus e a tutti gli altri Dèi dell’Olimpo.

Fortunatamente erano solo dodici!

Re e regina si abbracciarono con dolcezza, mentre guardavano il loro figlio maschio che dormiva tranquillo. Che bella cosa la pace! Erano tutti più sereni e la città prosperava ed era sempre più ricca.

Quasi in contemporanea a quando il piccolo Alessio si era svegliato, giunse di corsa un messaggero. Si inchinò davanti al re e concitato disse: “Maestà, i persiani sono sbarcati sulla costa! Ora si stanno dirigendo verso di noi! Sono a non più di cinque giorni di marcia dalla nostra città. La gente delle campagne ha paura e scappa!”.

Aristarco si fece scuro in volto. Fece cenno a uno degli uomini di palazzo e gli ordinò: “Vai dal generale Niceforo. Digli di radunare subito l’esercito! Appena pronti dobbiamo marciare contro i persiani! Non dobbiamo lasciarci cogliere impreparati!”.

La povera Ippolita era diventata pallida! L’idea che suo marito dovesse ripartire per la guerra proprio non le andava giù. Erano stati così bene negli ultimi anni! Niente ansie, niente veglie notturne, momenti in cui ogni cavaliere che entrava in città la faceva sobbalzare dalla paura, pensando che le portasse notizie della morte del marito. Adesso questa serie di incubi sarebbe ricominciata, per quanto? E quando sarebbe finita e come?

Aristarco non era più il giovane guerriero di un tempo. Lei era la regina e la regina non doveva esprimere il proprio dolore, almeno sino a che erano in pubblico. Dopo poco, Niceforo comparve, era un uomo sui quarant’anni, tarchiato, di statura media e con una faccia inespressiva. Alla lontana era parente di Aristarco. Si inchinò davanti al re: “Maestà, l’esercito si sta radunando. Tutti gli uomini validi si stanno preparando. Ognuno di loro aveva già lo scudo e le armi in casa. Per domani mattina saremo pronti. Perché non chiediamo aiuto agli alleati? I persiani sono pericolosi. Non sappiamo nemmeno quanti siano”.

“Non c’è tempo! Se mandiamo richieste agli alleati, non riceveranno i nostri ambasciatori prima di domani. A quel punto manderanno qualcuno a interrogare l’Oracolo di Delfi, che fornirà a ciascuno una risposta ambigua. Tra andare e tornare ci vorranno due giorni, quindi un terzo per decidersi e finalmente dare l’ordine all’esercito di radunarsi. Prima che incomincino a muoversi, avremo i persiani addosso! È meglio che prendiamo noi l’iniziativa e li giochiamo sul tempo. La marcia di avvicinamento li stancherà e potremo prenderli alla sprovvista”.

“Tu però rimarrai in città, mio sire?”.

“Neanche per sogno! Se rimanessi darei ai nostri uomini l’impressione di aver paura e se avessi paura io, come potrei chiedere ai nostri di andare a morire per la patria?”.

Niceforo chinò il capo e Ippolita si rassegnò. Quando il re aveva preso una decisione non si poteva discutere, nemmeno se era il marito. Quella notte lui avrebbe voluto dimostrare alla donna quanto l’amava, ma lei non volle. Volle restare sola. Si sentiva delusa, anche se sapeva che se ne sarebbe pentita. 

Quella giornata tutta la città fu in grandissimo fermento. Né donne né uomini volevano dimostrare paura. Non usava in quella città. Tuttavia, la preparazione di tutti quegli armati richiedeva mille operazioni da svolgere e quindi tempo. Ma di tempo non ce n’era. Ippolita anche se dentro di sé era angosciata, non poteva palesare i suoi sentimenti.

La moglie del re doveva dimostrarsi più forte delle altre donne.

Quella notte faticò ad addormentarsi, ma i sogni che fece furono orribili. Vide la statua del Dio della Guerra cadere e frantumarsi. La città che bruciava con tutta la gente che correva per fuggire a cercare un rifugio. Vide anche se stessa che piangeva. Di colpo si svegliò.

Era stato un sogno premonitore o un incubo?

Non lo sapeva, ma aveva paura.

Poco dopo l’alba anche Aristarco si svegliò. Dopo un rapido lavacro si mise l’armatura e si preparò ad uscire dal palazzo. Si guardarono negli occhi senza parlare. Si strinsero forte, ma lei sentì solo il freddo metallo dell’armatura. “Torna vincitore, tesoro”.

Lui sorrise: “Non preoccuparti, o con lo scudo o sullo scudo”.

La baciò dolcemente e scese in strada. Squadrò l’esercito, se ne mise alla testa e diede l’ordine di marcia. Partì con i suoi uomini: per la vittoria o per la morte.

Incominciarono per la povera Ippolita giorni di ansia. Sapeva che il marito era un uomo valoroso e che non si sarebbe mai tirato indietro, anche in caso di sconfitta. Inoltre, le tornava in mente il suo sogno. Continuava a chiedersi se fosse solo un sogno creato dalle sue ansie o se era un presagio. Aveva mandato a consultare l’oracolo di Delfi, ma la risposta era stata, come sempre, ambigua: “Sarà un risultato inaspettato”.

Cosa voleva dire? Le notti, sola nel grande letto nuziale, non riusciva a dormire. Cosa sarebbe stato di lei se Aristarco fosse rimasto ucciso? E del piccolo Alessio? Non era abbastanza grande per governare. Sarebbe stato spodestato, forse ucciso. Sarebbe stata una tragedia per entrambi. Era angosciata, ma era la regina! In privato poteva piangere, ma in pubblico doveva mostrarsi forte.

Intanto i giorni passavano.

Più passavano i giorni, più aumentava l’angoscia. Attendere senza sapere, era orribile, ma era così.

Ogni uomo a cavallo che arrivava in città le dava un colpo al cuore. Poteva essere l’araldo che annunciava l’esito della battaglia. Fortuna che ne arrivavano pochissimi.

Uno di quei giorni il cielo era diventato grigio, pieno di nuvole scure che non lasciavano presagire niente di buono. Ippolita si sentiva più triste del solito. Quelle nuvole, che coprivano il sole stavano ad indicare che il re era morto? Sentì un brivido per la schiena. Intanto un uomo a cavallo era giunto al galoppo e si era fermato nella grande agorà, la piazza davanti al palazzo. La gente gli si era ammassata intorno. Sicuramente portava notizie. L’uomo si guardò intorno. Voleva essere sicuro di avere un buon pubblico. Quando vide anche la regina, finalmente gridò: “Vittoria! Vittoria! Abbiamo sconfitto i persiani. Sono scappati con le loro navi! Il re è vivo e sta bene! Mi ha incaricato di darvi la bella notizia”.

A quel punto scoppiò un boato di gioia. Le donne avrebbero voluto tutte sapere se i loro uomini erano vivi, cosa che il messaggero non poteva sapere. Intanto la regina era svenuta. La sua ansia era svanita.

Quando si risvegliò era un po’ confusa, ma era felice. Suo marito era salvo!

Dopo tre giorni, finalmente l’esercito vincitore ritornava in città. Il re era alla testa dei suoi uomini. Il trambusto fu grande, tutte le donne cercavano il marito, il padre, il figlio o il fratello. Agli evviva per chi veniva ritrovato vivo, faceva eco la nota dolorosa dei pianti per chi era morto. Fortunatamente erano stati pochi. Quando il sovrano arrivò a palazzo, Ippolita gli si gettò tra le braccia. Se in pubblico aveva dovuto rimanere impassibile, ora poteva dare sfogo ai suoi sentimenti. Finalmente poteva riabbracciare suo marito vivo e intero. I due rimasero insieme per qualche tempo.

Furono distratti dalla voce acuta del piccolo Alessio: “Papà, papà! Che bello che sei tornato! Abbiamo sentito la tua mancanza, ma la mamma mi ha sempre detto che saresti tornato presto. Lei però quando pensava che io non la vedessi piangeva” e si buttò tra le braccia robuste del sovrano.

Questi lo prese dolcemente e lo fissò sorridendo: “Caro Alessio, certo che sarei tornato, la mamma era preoccupata poverina.” E dedicò un bel sorriso alla mamma che arrossì. Intanto il bambino continuava a parlare: “Papa, ma allora hai vinto! Sei sempre bravo! Quanti ne hai uccisi? Tanti scommetto.”

Il sorriso scomparve dal viso di Aristarco. Il sovrano si fece cupo: “Figlio mio, in guerra non si va per uccidere, si va per compiere un dovere verso la propria patria. Bisogna difenderla, anche con le armi! Purtroppo, in guerra muore tanta gente. È una morte onorevole, perché si muore per una buona causa. Però dopo che si è ucciso, si pensa al dolore della famiglia del morto, a come piangerebbero i propri cari se a morire fossimo noi. Se vedi negli occhi l’uomo che stai uccidendo, il suo sguardo ti rimarrà sempre impresso nell’anima. Quando uccidi, muore anche qualcosa dentro di te. Ma non devi farlo vedere. Ti devi sempre far sentire forte e soprattutto mai mostrare paura”.

“Papà, ma tu hai paura? Non è possibile, tu sei il mio eroe!”.

“Certo che ho paura, per me e per i miei uomini. Se sbaglio io, moriranno in molti. Però devo sempre farmi vedere sicuro. Il coraggio è saper vincere la paura. Se non riuscissi, non potrei portare i miei uomini in battaglia. Saranno ricordati come eroi, ma le loro mogli e i figli saranno privati di una persona cara. Essere orfani di un eroe non è una soddisfazione”.

“Ma i persiani sono cattivi, vero papà? Hai fatto bene a ucciderli, vero?”.

“Piccolo mio, uccidere non è mai una bella sensazione. In guerra sei costretto, ma lo fai per non essere ucciso tu. I persiani non sono più cattivi né più buoni dei greci. I loro soldati sono poveretti mandati a combattere solo perché così vuole l’ambizione del Gran Re. Per il resto sono uomini come tutti gli altri, che quando muoiono si chiedono il perché. E mentre spirano, i loro occhi sono tristi come i nostri. Nessuno è contento di morire, anche se per una nobile causa”.

Francesco Cordero di Pamparato

 

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Articolo pubblicato il 03/02/2024