La strategia di distruzione dell’Italia produttiva. 3ª parte

Dall’IRI all’Enimont. Fine dell’industria a partecipazione statale. Tangentopoli. Le morti di Raul Gardini e Gabriele Cagliari

3º capitolo a ritroso sulla deindustrializzazione italiana, benvoluta da egemonie atlantiche ed europee a cui un’Italia troppo “potente” non andava bene, favorita da una politica interna strattonata dall’est e dell’ovest, e da scelte sbagliate della stessa industria, sia privata che di Stato.

Link dei primi due capitoli:

1ª parte Dal delitto Mattei 

2ª Aldo Moro, Bankitalia

La piccola e media industria superstite di un’Italia manifatturiera sgretolata, dopo aver onorato progressivi sacrifici, fino al 2014 di Mario Monti, in cambio chiedeva: prestiti, meno tasse, burocrazia snella, lavoro flessibile, giustizia, politica efficiente, sicurezza, lotta alla criminalità, sanità.

Voci di una risorsa privata, spremuta, ma ancora viva, che lavora la terra, solleva serrande e apre i cancelli del Pil. In soli quattro anni un’altra realtà è arrivata in fretta, e se di migranti quasi ancora non se ne parlava, il nervosismo programmato era in fase di ultimazione. Cosa ci aspetta nel futuro lo si scoprirà, ma le radici del percorso che ci ha portato fin qua sono conficcate nel passato.

 

L'IRI Istituto per la Ricostruzione Industriale, in breve:

  • nacque nel 1933 per salvare banche e aziende colpite dalla crisi del 29 e nel dopoguerra serbò la struttura che aveva sotto il fascismo;

  • dopo il 1950 l'IRI fu riordinata per sviluppare la grande industria e le infrastrutture necessarie al paese, diventando protagonista del “miracolo italiano” grazie al concorso tra capitale pubblico e privato. Scelta di economia mista quotata in borsa e finanziata da masse di risparmiatori, che portò l’Italia a primeggiare in Europa;

  • negli anni 70, l’IRI smise di crescere e nel 76, quando il settore pubblico chiuse in rosso, il governo iniziò a considerare le “privatizzazioni”;

  • nell’82, fu affidata la presidenza a Romano Prodi che, con la cessione di 29 aziende, tra cui l’Alfa Romeo, a prepensionamenti in numerosi settori, alla liquidazione di Italisider e Finsider e lo scambio di Finmeccanica, riportò l’ente in apparente recupero, per poi ritornare a indebitarsi con lo Stato.

Nello stesso tempo, le scelte di Bankitalia del 1981 non avevano favorito lo sviluppo dell’industria privata, contribuendo al rallentamento dell’industria stessa, innestando un effetto domino tra economia interna e scenari europei.

  • Gli accordi di Maastricht e i principi su cui si basava la Comunità Europea obbligarono a riformare l’IRI, contestando l’affido ai lavori ad aziende interne al gruppo, senza indire gare d’appalto europee, e gli aiuti di Stato alla siderurgia, che tanto fastidio dava alla Germania;

  • nel 92 l’IRI fu convertita in SPA, aumentando man mano i suoi debiti;

  • per evitarne la crisi, nel 93, il Commissario europeo alla concorrenza Van Miert stipulò un accordo con Beniamino Andreatta per ridurre i debiti con gli enti ex pubblici attraverso la privatizzazione delle aziende partecipate dall’IRI, smontando un sistema italiano che, nel suo contesto, aveva funzionato e si poteva riorganizzare.

Della deindustrializzazione anti-italiana è colpevole anche la stessa industria, da quando preferì comprare titoli di Stato. L’investimento nelle grandi aziende verrà ridimensionato e con l’impennarsi degli interessi in tasca ai nuovi acquirenti e non più allo Stato, il debito pubblico esploderà, mentre il % del Pil, non riuscirà a seguire la curva di parità.

Fu il percorso dell’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dei nuovi acquirenti. Tra gli investimenti pubblici da colpire, la componente più importante era quella delle partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale.

 

Nino Galloni, economista ed esperto in sovranità monetaria, racconta quei fatti:

Nel 1989, Nino Galloni era consulente del governo su invito di Giulio Andreotti, il primo statista che ebbe la lungimiranza di temere la riunificazione tedesca. Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporsi in ogni modo. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti e aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco.

Galloni rievoca: «Negli anni ’80 feci una ricerca; i 50 gruppi più importanti pubblici e privati, investivano la metà dei profitti nell’acquisto di titoli di Stato, guadagnando con investimenti finanziari anziché produttivi. In quegli anni Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilità sempre più “rigide”, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione. La colpa di privilegiare il rapido profitto fu una visione miope dello sviluppo industriale, fu Perdita di valore delle imprese, perché le imprese lo acquistano solo se hanno prospettive di profitto».

Alla caduta del Muro di Berlino, il potenziale italiano, non era del tutto perduto. L’Italia, “promossa” nel club del G7 era ancora forte, ricorda Galloni: «Bastava riprendere degli investimenti pubblici, con le grandi privatizzazioni strategiche invece, negli anni ’90 quasi sparì la nostra industria a partecipazione statale, il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Significa che quasi sparirono le politiche industriali. Pierluigi Bersani quand’era ministro dell’industria dichiarò che le strategie industriali non servivano».

Era la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione con Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa.

Nino Galloni "Come ci hanno deindustrializzato",

link: https://youtu.be/5lPGzvfnI9M

 

La fine della 1ª Repubblica. Il caso Enimont

Le vicende di Tangentopoli, i suoi scenari e i personaggi, richiederebbero molto spazio, ma per la notorietà di entrambi e lo scopo “deindustriale” del pezzo, verranno condensati negli aspetti giuridici:

  • nel ‘92, gli attentati a Falcone e Borsellino scuotono il Paese, e subito dopo scoppia lo scandalo “Mani pulite” che porterà alla fine della 1ª Repubblica;

  • All’inizio gli italiani accolsero l’inchiesta con entusiasmo, sperando che la magistratura salvasse l’Italia da una classe politica corrotta e mafiosa (e che in parte lo era), ma la durezza con gl’inquisiti iniziò a dividere i pareri, come il vuoto di inchieste verso l’opposizione;

  • i partiti di governo furono ridimensionati, in parte rimpiazzati dagli stessi magistrati e politici non all’altezza;

  • in questo scenario, il vuoto lasciato dal “pentapartito” vide la “scesa in campo” di Silvio Berlusconi, nemico giurato di Di Pietro, che vinse le elezioni nel ‘94, arginando le ambizioni del Pci.

Riassunto di eventi dai quali oggi è difficile discernere i più buoni dai cattivi, poiché, dietro alla raffica di arresti, all’interruzione delle indagini, alla instabilità del paese e al nuovo assetto politico, vi furono altre mani. Gli interessi erano enormi e prendono valore le ipotesi secondo cui, Mani pulite, fu uno strumento per una guerra di potere tra alleanze e “fratellanze” massoniche di opposte tendenze politiche, compreso Berlusconi con la sua loggia “del Drago”, tutti a giocarsi il piatto di soppiatto.

Scenari sfuggenti, dove è d’obbligo inserire l’insinuarsi di “cosa nostra” (ben descritto dallo sceneggiato “La piovra”), e la trattativa “stato-mafia”, per il quale fu imputato Nicola Mancino, la “falange armata” di Gladio e la P2 di Licio Gelli.

A quel tempo il crollo del sistema politico fece molte vittime, alcune anche innocenti, scoperchiando l’altra mano delle “mazzette”, quella industriale.

Raul Gardini e Gabriele Cagliari rimangono morti misteriose;

  • Gardini, patron del gruppo Ferruzzi-Enimont, brillante industriale, re della petrolchimica, spinto da ambiziosi progetti, dopo essersi inimicato sia Ciriaco de Mita che Achille Occhetto, sfavorito da decreti legge decaduti in parlamento, fu coinvolto in tangenti probabilmente orchestrate ad hoc. Travolto da Tangentopoli, ma pronto a farsi interrogare dal “Pool”, Gardini fu trovato suicidato da due?! Colpi di pistola;

  • Cagliari, nominato nell’89, dal Psi di Craxi, presidente dell’Eni, implicato nell’inchiesta e in custodia cautelare da mesi, era stato trovato due giorni prima suicida con un sacchetto di plastica in testa nella sua cella a San Vittore che condivideva con tossicomani.

Ancora oggi, misteri italiani massomafiosi, avvolti da silenzi che omettono gli interessi di “cosa nostra” intrallazzata coi beni di Stato e la Banca finanziatrice di tutte le più grandi aziende italiane. Gardini e Cagliari sapevano una parola di troppo?

Oggi è triste notare che Tangentopoli è quotidianità di tutti i partiti, che la legalità è un lusso per pochi, che la criminalità è infiltrata ovunque e che la “fratellanza” delle super lobby: Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera", manovra le sorti del Mondo.
 

Fine 3ª parte

 

Disponibile dopo la formazione del nuovo, auspicato governo scaturito dalle elezioni...

nella 4ª parte. “La seconda Repubblica”.

La svendita e la delocalizzazione dell’industria italiana

 

La 4ª parte è ancora sotto osservazione. Doverosa spiegazione.

Ciò che è scaturito dal giorno delle elezioni ha reso complesso l'obiettivo di seguire una sequenza scandita, una concisa  cronologia degli eventi. La svendita delle aziende di Stato e la delocalizzazione dell'industria privata (es: sintomatico il caso Embraco, incomprensibile la vicenda Borsalino, speranze per l'Ilva?....) sono ormai da consegnare alla storia. Sergio Marchionne ci manca già.

All'ombra del crollo del ponte Morandi e agli strascichi dell'epopea della nave Diciotti, con tanto di ignorante interferenza di un ministro del Lussemburgo, giorno dopo giorno diventa difficile inquadrare il divenire di una situazione italiana che vede attualmente remare contro un governo eletto dai cittadini: la magistratura, gran parte della stampa, l'unione europea e naturalmente, un'opposizione cacciata a sinistra della sua stessa sinistra, eppure aggressiva e roboante.  Difficile scrivere tanto per scrivere diventando opinionista, quando occorrerebbe trasformarsi in romanziere.

Poco è concesso all'attuale governo che però gode di una certa approvazione popolare. Ciò che sarà, sarà di certo originale..... Attualmente un po' distruttivo e pilotato da altrove, certamente lo è! Non rimane che aspettare un panorama più chiaro e definito in cui intingere la penna......Ma che la svendita sia proseguita in una "terza Repubblica" che ha spalancato i confini ai flussi migratori per mafio-economico-elettorale interesse, ora è sotto gli occhi di tutti. Mi pare facile da percepire, così come voci che dal nuovo governo giungono fino a noi, fanno intuire intenzioni serie e positive.... Di una quarta Repubblica?

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Articolo pubblicato il 03/03/2018