LO STATO INTERMEDIO

di Franco Battiato e Gianluca Magi (edizioni Piano B)

Un libricino bianco, la copertina liscia e morbida da cui spunta un quadrato raffigurante lo stellato, sospeso, mentre proietta un’ombra; nell’interno lo stesso stellato che raccoglie il dialogo dei due autori come se il contenuto aleggiasse nell’infinito: siamo tutti lì, più o meno consapevoli, “sospesi” nell’illusione di un tempo che non è reale.

Così Gianluca Magi ridona voce all’amico Franco Battiato - che ha lasciato il corpo nel maggio scorso - raccontando il loro primo incontro in cui l’uno si finge autista all’aeroporto di Forlì e l’altro capisce subito che il travestimento è poco credibile. Un dialogo immediato dove l’argomento è il Bardo Thodol, sognato la notte precedente quando ancora il maestro si trovava in Sicilia.
È un libro per le persone curiose che non si accontentano della realtà sotto gli occhi di tutti, ma interessate a una conoscenza più approfondita della vita attraverso quello che noi chiamiamo morte, ma - secondo antiche tradizioni - rinascita nell’Oltre.

Si può scrivere su un foglio di carta bianca con una matita incolore? No. Così nascita e morte poggiano esattamente sullo stesso concetto di alternanza e di esistenza dell’una come necessità dell’altra, in mondi che ci sembrano separati.

È abbastanza strano, però che ci siano così poche persone aperte nel parlare della morte, soprattutto della propria, senza suscitare nell’interlocutore un senso di repulsa: quanti possono dire, in tutta serenità, di essere pronti a lasciare il loro mondo per andare verso l’ignoto? Su questo gli autori indagano, raccontando l’Oriente magico, popolato da personaggi incredibili, con aneddoti affascinanti.

Ci propongono le immagini di Gabriele Mandel Khan, fotografato con il sadhu che non lascia l’ombra; chi ha letto “De Umbrae Idearum” di Giordano Bruno ne ha ben presente il significato.

Ci presentano la foto di Chatral Sangje Dorje Rinpoche (Illuminata libertà indistruttibile dall’azione) il maestro itinerante, che esprime tutta la rigorosa disciplina realizzata durante i suoi 102 anni semplicemente con lo sguardo.

 

Testimoniano l’incontro con Tuku Urgyen Rinpoche venuto nel 1981 in Occidente, accompagnato dal figlio, detentore dei due lignaggi dello Dzogchen e della Mahamudra.

Ritratto è anche Lama Ciampa Monlam (Maestro di Cerimonia) devoto a Tara Bianca e guaritore dalle doti infinite, intervistato in Nepal da Battiato.

Tutti esseri incarnati che, terminato il loro compito sulla terra, hanno lasciato il corpo in quella beatitudine raggiunta attraverso una vita consapevole del significato della parola “Bardo”.
Il “Bardo” è lo stato intermedio tra due nascite: l’una sulla terra, partoriti dalle nostre madri, l’altra rinascita nell’Oltre attraverso l’abbandono totale.

Due momenti importanti, la prima raramente consapevoli, la seconda perfetta se durante la nostra permanenza qui abbiamo saputo risvegliarci, aver dato vita alla vita.

È dall’intervista a quest’ultimo Lama che abbiamo l’indicazione, esemplare nella sua semplicità “Mi sono comportato bene. Mi attendo un premio” riferendosi al distacco dal corpo fisico. Premio che non si trova cercando in Internet il suo significato, perché è proprio questa nostra abitudine alla ricerca fuori da noi stessi a impedire di arrivare alla vera conoscenza, al sapere.

Gianluca Magi ipotizza persino che il malessere di fondo della nostra cultura occidentale nasca dal rifiuto della morte, dall’incapacità di accettare che tutti i nostri attaccamenti, dai sentimenti ai traguardi professionali, ai beni accumulati, possano sparire d’incanto: “Chi sono io senza tutto questo?” fa paura a chi crede di non esistere se non attraverso la materia. Oggi l’avere è dominante sull’essere, ahimè!

D’altronde se facciamo coincidere la nostra coscienza con il complesso dei processi neurofisiologici del cervello, decodificabili e quantificabili, abbiamo un bel problema.

Inoltre la morte è un qualcosa di cui non abbiamo ricordo, per cui la temiamo, mentre persone che hanno sperimentato il coma raramente ne sono intimoriti e raccontano dell’incamminarsi fiduciosi in un lungo tunnel, al fondo del quale hanno visto la luce: un prodromo alla liberazione dell’anima che avviene - secondo Meister Eckart - attraverso la riduzione in cenere dei ricordi, dei legami, degli attaccamenti, non come punizione, piuttosto come aiuto.

Ma chi è disposto a lasciare tutto il certo, tangibile, ADESSO?

 

Tanto la letteratura orientale quanto quella occidentale conservano le tracce degli stati di coscienza extra-ordinari, non ultima la Divina Commedia dove Dante proietta nell’Inferno, Purgatorio e Paradiso esempi di vita e di veri e propri castighi/premi molto umani, secondo leggi inappuntabili.

Non di seconda importanza nella nostra tradizione è il mito di Er, valoroso soldato, morto in battaglia, a cui viene data la possibilità di tornare e raccontare il trapasso delle anime: nel “La Repubblica” di Platone veniamo a conoscenza del concetto di Daimon, il Ka egizio, che diventa quasi assimilabile all’immagine dell’Angelo Custode cristiano.

È nel Museo Egizio di Torino che conserviamo il papiro de “il Libro dei morti” attribuito a Thot (dio della Luna, della sapienza, della scrittura, della magia, della misura del tempo, della matematica e della geometria) contenente le indicazioni dei luoghi o stati dell’essere in cui l’anima del defunto potrà penetrare nella luce immortale. Abbandonando il corpo e aiutato da sacerdoti (la vibrazione della laringe è particolare) con formule magico-rituali, l’essere potrà diventare pura luce: e che cosa è la materia se non una danza di luce con velocità rallentata?

 

“La morte è un velo gettato sugli occhi dei vivi” e se non siamo capaci di strappare questo velo, arriveremo al grande traguardo impauriti, schiavi di un Io tiranno che tenta in ogni modo di dominarci, di non lasciarci liberi, in quando la vera libertà si ottiene solo uscendo dall’egoicità.

 

Nel capitolo dal seducente titolo “visioni mistiche” il dialogo fra i due amici è realizzato durante la presentazione del filmato Il Bardo Thodol: Oriente e Occidente si incontrano negli interventi alternati, dove i concetti della mistica tibetana trovano lo specchiarsi nella nostra cultura.

Gli esseri luminosi che si presentano nel momento della morte non sono dissimili nelle esperienze raccolte dallo psicologo statunitense Raymond Moody, dal critico letterario Harold Bloom o dall’orientalista francese Henry Corbin con riferimento al sufismo iraniano.

La scia luminosa tracciata da Tulku Urgyen Rinpoche nell’abbandonare il corpo grossolano non deve essere stata dissimile da quella lasciata da Santa Teresa d’Avila o da San Giovanni della Croce.

 

Uno speciale riguardo merita “Il Gioco dell’Oca” su cui, molto inconsapevoli, abbiamo gettato i dadi da giovani: come sempre il Sapere è nascosto nel gioco, dove chi non deve, non può accedervi nella vera essenza.

La casella 58 rappresenta “la morte”, posta non alla fine del gioco, altrimenti non avremmo la ciclicità, l’infinito percorrere vita dopo vita: così, in quella caduta, l’in-put è la meditazione sul distacco, il raccoglimento prima che lei ci abbracci.

Un po’ come i tarocchi la cui tradizione millenaria resta un mistero: un percorso iniziatico, cosparso di ostacoli e slanci, ma che inducono a prendere coscienza profondamente del proprio essere: un gioco in cui alla morte è attribuito il numero 13 (5+8), preceduto dal numero 12, “L’impiccato”, chiaro riferimento all’iniziazione attraverso aria, acqua, terra e fuoco di un Narciso che deve imparare a vivere davvero oltre la propria immagine.

 

E infine la domanda più preziosa, quella che ci faremo nell’ultimo istante, prima di chiudere gli occhi terreni: “Quanto ho amato?”

Perché ciò che rimarrà davvero di noi è l’Amore, causa suprema di ogni cosa: saremo stati capaci di amare senza attaccamenti? Avremo fatto vibrare il nostro essere in empatia con quanti e quanto ci hanno circondato? Il nostro cuore sarà leggero come la piuma posata sulla bilancia di Anubi? Che ne sarà di noi dall’altra parte? Suoni, melodie, luce soffusa? Demoni irati che ci faranno retrocedere? 

Non ci resta che attendere fiduciosi: Franco Battiato è già passato oltre il velo, la nostra data è già scritta, ma forse per fortuna, non la conosciamo.

Il libro però ci dà il senso di un qualcosa che maggiormente affrontato, elaborato con il cuore aperto a tutto ciò che la vita ci presenta per insegnarci a non opporci a ciò che temiamo, può esorcizzare quell’inconscio sgomento di fronte all’ignoto.

Come conclusione una interessante postfazione di Grazia Marchianò che pone l’accento sulla immersione totale nella vita di Franco Battiato pur nella sua “affollata solitudine”.

Un uomo che ha saputo vivere nel mondo, ma che è appartenuto esclusivamente a se stesso, per nulla risucchiato dall’enorme successo e dai riconoscimenti più ambiti da qualsiasi umano.

 

P.S. Istruzioni per la lettura dell’ultimo capitolo: non è stampato male, si tratta di una soluzione creativa per rendere il concetto di ciclicità… avrete un lampo di intuizione dopo aver girato il libro un paio di volte.

 

 

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Articolo pubblicato il 21/09/2021