Geopolitica Verde: insidie ed opportunità dietro la green economy

Come la fine del petrolio cambierà la geopolitica globale

Per decenni, l’energia ha sempre giocato un ruolo fondamentale nell’assetto geopolitico globale. Ascesa di potenze mondiali, grandi alleanze e talvolta scoppio di guerre hanno trovato giustificazione nel controllo di preziose risorse energetiche come petrolio e gas naturale.


Se quindi per più di mezzo secolo petrolio e gas naturale hanno avuto un ruolo di primaria importanza nella geopolitica globale, i cambiamenti in atto guidati da politiche di transizione energetica – come sviluppo dell’economia circolare, processi di decarbonizzazione e utilizzo di fonti rinnovabili – potranno avere notevoli ripercussioni nell’attuale assetto geopolitico.

 

L'era del petrolio sta volgendo al termine. La sua produzione raggiungerà il picco nei prossimi decenni per far posto ad altre risorse ed energie rinnovabili. A seguito di questo, da come ce la "vendono" i progressisti, sembra quasi che gli Stati Uniti perderanno la propria egemonia ed il Medio Oriente la sua rilevanza, mentre la Cina diventerà il campione "green" seguito dall'Europa dei liberali verdi.

 

Ma il futuro sarà davvero questo "bel sogno liberal" ad occhi aperti ? Forse vale la pena analizzare con più realismo quello che ci attende.

 

Il petrolio è stata la risorsa naturale più importante negli ultimi cento anni. Non è stato solo il motore della crescita economica delle grandi potenze, ma è stato un fattore geopolitico di enorme importanza. All'inizio del XX secolo, le sette maggiori compagnie petrolifere, tra cui le odierne Shell, BP o ExxonMobil, divennero un potente oligopolio. Ma nel 21° secolo, dove ci sono altre fonti di energia rinnovabile, il petrolio ha visto diminuire il suo valore rispetto al passato. Le cosiddette “Sette Sorelle” hanno perso il loro dominio nei mercati globali a favore di chi controlla la grande risorsa di questo secolo: i dati (Big Data). In pochi decenni le società GAFAM - Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft - sono diventate il grande e nuovo oligopolio dell'Occidente (Big Tech).

 

Consapevoli del suo declino, ExxonMobil o BP hanno fatto le proprie previsioni sul futuro del petrolio: entrambi concordano sul fatto che il mondo si stia avvicinando al picco della domanda mondiale, insieme ad un esaurimento crescente delle riserve. Da questo punto di non ritorno, si stima che la domanda diminuirà fino a diventare una minoranza. 

 

Una soluzione per accellerare la transizione energetica verso un economia più verde e sostenibile potrebbe rivelarsi attraverso l'introduzione progressiva di un'economia sempre più circolare. 

 

Troppo spesso se ne sente parlare, ma cos'è l'economia circolare?

 

Secondo la definizione ufficiale l'economia circolare «è un termine generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera». L’economia circolare è dunque un sistema economico pianificato per riutilizzare i materiali in successivi cicli produttivi, riducendo al massimo gli sprechi.


Il modello economico attuale ha invece la forma della linea: produci, consuma e getta. Sono estratte risorse dalla terra, realizzati i prodotti, usati e – come ultimo step del processo lineare – gettati. Questo modello nel lungo termine non è più sostenibile alla luce del crescente aumento della popolazione e del conseguente consumo di risorse che non possiamo considerare come illimitate.


Eccessivo consumo di terra e deforestazione, acidificazione degli oceani, surriscaldamento globale e conseguente scioglimento del permafrost rappresentano infatti solo alcuni delle principali conseguenze relative a un modello di sviluppo economico lineare che fa del consumo fine a se stesso l’aspetto caratterizzante.

 

Ma qualcosa sembra muoversi, a partire proprio dal nostro Continente.


"Il Green Deal europe è la nostra nuova strategia per la crescita. Ci consentirà di ridurre le emissioni e di creare posti di lavoro", così Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha avviato la nuova "mission green" dell'Europa. Si tratta del "European Green Deal", un ambizioso pacchetto di iniziative politiche che punta a rendere l’economia dell’Ue sostenibile dal punto di vista ambientale e che punta a trasformare l’economia e i modelli di consumo europei.

L'obbiettivo è quello di rendere il continente climaticamente "neutro" entro il 2050, attraverso una serie di investimenti economici, pensati a favorire una transizione energetica efficace. In modo particolare si punterà a decarbonizzare il settore energetico, a ristrutturare gli edifici, a innovare l'economia verde e a introdurre nuove forme di trasporto pubblico e privato più pulite, economiche e "sane". 

 

Per rendere realizzabile tutto ciò, il modello di produzione e consumo economico dell'Unione dovrà essere completamente ripensato. Tendendo a mente anche delle ripercussioni sugli equilibri economici e politici globali. Non si tratterà di una "sola rivoluzione verde ed economica", ma di una vera e propria "questione geopolitica".

 

Avrà un impatto geopolitico sull’equilibrio energetico europeo e sui mercati globali, sui Paesi produttori di gas e petrolio nel Vicinato europeo, sulla sicurezza energetica europea e sull’andamento del commercio mondiale, in particolare attraverso il meccanismo di aggiustamento di carbonio alla frontiera.


Il Green New Deal costringerà Paesi come Russia e Algeria a profondi ripensamenti delle proprie economie e delle proprie strategie commerciali.

Questo cambiamento in atto, sembra però non aver preso alla sprovvista i cinesi. I quali non si sono lasciati attendere nel seguire l'onda "green" partita dall'Europa.


Secondo quanto disposto dall’ultimo piano quinquennale del PCC (Partito Comunista Cinese), promulgato proprio all’inizio di marzo 2021, la Cina si impegnerà in una vera e propria rivoluzione “green”: dopo aver raggiunto l’apice delle sue emissioni di gas serra prima del 2030, il paese proseguirà poi su un percorso di decarbonizzazione che lo trasformerà, entro il 2060, in un’economia a zero emissioni. 

 

Questo obiettivo ambizioso era già stato presentato dal presidente Xi Jinping lo scorso settembre, in occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. 

 

Prefiggendosi l’obiettivo delle zero emissioni entro il '60, il presidente Xi si prepara ad alzare la posta in palio e ad affrontare le potenze occidentali sul loro stesso piano, indirizzando la Repubblica Popolare Cinese verso una supremazia al tempo stesso tecnologica e diplomatica (Tech and Soft Power).

 

La dichiarazione di un tale obiettivo, in un momento storico in cui le emissioni sono ancora in forte crescita, rappresenta senz’altro una mossa audace da parte di Pechino, e quantomai tempestiva nell’anticipare gli impegni successivi dei suoi più acerrimi rivali. Infatti, mentre l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi ad opera di Donald Trump aveva significativamente svuotato l’arena geopolitica, l’elezione di Joe Biden minaccia di rimettere in gioco uno sfidante assai scomodo nella corsa all’economia green. 

 

Benché la decarbonizzazione sia un traguardo in apparenza comune a tutte le parti in causa il peso mediatico attribuito a queste tematiche la rende di fatto un ulteriore campo di battaglia su cui confrontarsi e, eventualmente, primeggiare sui propri avversari.

 

Non è un caso che, dopo la promessa cinese, anche il Giappone abbia annunciato un’iniziativa speculare, impegnandosi a raggiungere il traguardo delle zero emissioni entro il 2050, seguito a ruota dalla Corea del Sud e da altre potenze regionali asiatiche.

 

A proposito della questione ecologica, anche il ruolo giocato dalle Nuove Vie della Seta (il mega progetto commerciale e infrastrutturale patrocinato da Xi Jinping) è stato ugualmente criticato da più parti: nelle diffuse dotazioni di centrali a carbone distribuite lungo tutto l’arco dal Pakistan all’Africa subsahariana molti vedono una progettualità ipocrita degli investimenti cinesi, che potrebbe anche risolversi con lo scaricare su consumatori esterni la vorace fame di carbone di una Cina sempre più green. In seconda battuta, altri dubbi etici sorgono attorno alla progressiva pratica della deforestazione nei paesi tropicali, con ingenti prestiti immessi dagli istituti di credito cinesi nel commercio dei beni ad essa legati (carta, gomma, olio di palma, soia). Questo genere di investimenti esteri, riconducibili direttamente all’apparato finanziario di Pechino, mal si conciliano con l’ambiziosa leadership nella lotta al cambiamento climatico.


Dietro le importanti riforme di una rinnovata economia green non dobbiamo dimenticarci le insidie che si nascondono ed i molteplici vantaggi che ne ricaverebbero i cinesi. La Repubblica Popolare, infatti, guadagnerebbe a lungo termine su una vasta gamma di aspetti, andando a tutti gli effetti a stimolare la propria economia tramite creazione di lavoro e progetti di ricerca, oltre a registrare un notevole risparmio dovuto alle migliori condizioni di vita e alla riduzione di disastri naturali (in primis le devastanti inondazioni del Fiume Azzurro). Il beneficio economico riguarda anche il lato prettamente commerciale: come primo produttore al mondo di batterie, il Dragone può fungere da fornitore ai tanti altri paesi che inseguono il traguardo delle zero emissioni; la Cina è anche il principale mercato mondiale per le auto elettriche, nonché una esuberante fucina di nuovi prodotti hi-tech.

 

Ergo, quando in Europa si parla di "green economy" dobbiamo fare sempre molta attenzione; dietro le altisonanti promesse di "riconversione verde" dal nostro occidente liberal, si nasconde tutto l'interesse economico e geopolitico dei colossi Big Tech in affari con la Terra di Mezzo, la quale, da ex Impero qual è, non ha mai mutato le proprie ambizioni di dominio globale; esso ha solo cambiato colore, da celeste è divenuto rosso, e ora si appresta a tingersi di verde.
 

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Articolo pubblicato il 08/10/2021