Il futuro delle due Cine

Perché e come l’America e Taiwan si preparano alla sfida con l’Impero Celeste

Il principio primo dell’approccio geopolitico consiste nel bilanciare obiettivi e risorse. Ciò che teorici e politici occidentali spesso trascurano. L’importante per uno Stato è non essere costretto a battersi per la sopravvivenza. 

Lo studio della geopolitica in Cina ha iniziato a svilupparsi rapidamente dall’epoca moderna. In quel periodo, il popolo cinese subì la catastrofe della colonizzazione e in seguito sviluppò lo spirito che gli consentì di salvaguardare il paese. 

«Geopolitica» è un termine straniero, ma in Cina esiste sin dall’antichità. Per discuterne, si usavano parole come «vantaggio geografico» (xingsheng) e «terra» (fangyu). In epoca moderna si parlava di «geografia storica» (lishi dili) oppure di «politica geografica» (dili zhengzhi).

All’inizio del XX secolo, la ricerca geopolitica ha registrato una forte crescita a livello mondiale. I principali studiosi cinesi del settore erano Cheng Wenwu, Shi Nianhai e Tan Qixiang, i quali si concentrarono sul tema della resistenza alla colonizzazione e all’imperialismo.

Mao Zedong diceva che «essere ansiosi di finire il nemico è una cosa positiva, ma in concreto non è un buon piano».

Combattere a tutti i costi è un atteggiamento tattico, ma non può diventare una strategia.

Soprattutto, non può diventare una strategia di Stato. Nel trattato "Sulla guerra prolungata" (1937), Mao scriveva che «la strategia deve evitare allo Stato di trovarsi a combattere una battaglia decisiva che ne metta in pericolo l’esistenza». 

La Cina non si è mai dimenticata le antiche lezioni di Mao. Ad oggi sembra volersi giocare il tutto per tutto. Con la nuova via della seta attraverso la terra, e il potenziamento missilistico e navale, Pechino sembra voler rimarcare i propri obbiettivi volti a riaffermarsi come un'unica grande potenza planetaria.

Ed ecco che la nuova via della seta va avanti. 

Le fragilità geopolitiche e finanziarie dei paesi coinvolti non fermano l’iniziativa cinese. Le controstrategie di Stati Uniti, Giappone, Australia e Ue per ora non reggono il confronto. Ma Pechino deve adeguare il proprio disegno egemonico alle esigenze dei propri partner.

Da vent’anni Pechino, compresa l’importanza dello strumento navale, ha preso ad adeguare la Marina militare alle proprie ambizioni. 

L’ascesa della Marina cinese è il frutto di un processo evolutivo articolato e profondo. Su di essa ha inciso in modo risolutivo il doppio sconvolgimento che ha colto la Cina al volgere del secolo: la scomparsa improvvisa di gravi minacce terrestri alla sua sicurezza nazionale (una su tutte: il pericolo di una grande invasione sovietica da nord); e il progressivo superamento delle diatribe confinarie con i vicini continentali, storicamente instabili e aggressivi.

La superpotenza Usa non è in declino, mentre Pechino è alle strette. Ma Washington deve evitare di farsi trascinare in una guerra.

La Repubblica Popolare Cinese ha testato un missile ipersonico in grado di montare a bordo testate nucleari. Il vettore avrebbe solcato l’orbita bassa attorno alla Terra prima di mancare di circa 40 chilometri il bersaglio. L’esercitazione (messa sotto accusa dagli inglesi, ma non confermata da Pechino) avrebbe colto di sorpresa l’intelligence statunitense, che non si aspettava un progresso simile da parte dell’Esercito popolare di liberazione.

Al netto del significativo test cinese, il dato più importante di questa notizia è lo stupore americano. Del quale è difficile stabilire l’effettivo grado di autenticità. Sicuramente il pentagono si è visto allarmato, ed ha subito puntato a rafforzare i rapporti con i propri alleati nell'area dei due mar cinesi.

Del resto, l’impegno della Repubblica Popolare nello sviluppo dei veicoli plananti ipersonici (hypersonic glide vehicle, hgv) è cosa nota agli esperti di settore. Da tempo gli strateghi cinesi giudicano lo sviluppo di questi vettori uno strumento di deterrenza essenziale in chiave anti-statunitense. I missili ipersonici, a differenza di quelli balistici, percorrono orbite più vicine alla Terra e possono essere manovrati durante il volo. Ergo, i sistemi di difesa avversari li intercettano con maggiore fatica. Pechino vuole usarli per controbilanciare la pressione militare americana alle porte di casa, ovvero, nel Mar Cinese Meridionale.

Mentre la Cina testa armi mirabolanti, gli Stati Uniti si rafforzano alle porte di casa sua. L’ammiraglio John Aquilino, capo del Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti, ha dichiarato che l’anno prossimo le esercitazioni congiunte tra le Forze armate americane e quelle filippine riprenderanno completamente e saranno ampliate negli obiettivi e nella complessità. Manila inviterà come osservatori Australia, Giappone e Regno Unito.

L’annuncio conferma il posizionamento filoamericano delle Filippine nello scacchiere indo-pacifico. In questi anni il presidente Rodrigo Duterte ha sovente sfoggiato una retorica filocinese e antioccidentale, combinata con mosse meramente scenografiche come la temporanea sospensione del Visiting Forces Agreement (Vfa) con gli Stati Uniti. Nel tentativo di approfondire i legami economici con la Cina e di non inimicarsi Pechino, a fronte delle confliggenti rivendicazioni nel Mar Cinese Meridionale.

Al di là della narrazione presidenziale, le Filippine non hanno mai avuto intenzione di prescindere dall’ombrello protettivo americano. Gli imperativi strategici filippini inducono infatti lo Stato arcipelagico a schierarsi con la potenza geograficamente più distante, l’America, a fronte dell’ascesa della Repubblica Popolare e della sua assertività in quello che Manila considera un "Mar Filippino Occidentale". 

Nel frattempo anche il Giappone si compatta con gli americani. Due civiltà estranee si sono incontrate nel 1853 per non perdersi mai più di vista. Le ambizioni di queste formidabili talassocrazie hanno tracciato lungo i decenni una comune parabola di scontri, tregue e alleanze. Contro la Cina, Tokyo e Washington restano soci diffidenti ma inseparabili. Ma oltre al Giappone, alla Corea del Sud e alle Filippine, c'è una nazione che più di tutte è stata presa di mira dalla sua gemella cinese. Stiamo parlando della Repubblica di Cina, presente nell'Isola di Formosa, e avente uno stato molto più vecchio della Repubblica popolare Cinese.

La centralità di Taiwan nell’industria globale dei semiconduttori scoraggia un conflitto che priverebbe il mondo, Cina inclusa, degli ubiqui e preziosi circuiti. 

Pechino tuttavia non ha mai rinunciato alla riunificazione dell’isola alla Repubblica Popolare Cinese. Anzi il suo capo di Stato, Xi Jinping, ha recentemente dichiarato che riacquisire Taiwan è uno degli obiettivi principali del Partito comunista, nel quadro nazionale della ricostruzione della “Grande Cina”. Gli ultimi fatti di Hong Kong lo dimostrano. L’imposizione delle nuove norme nazionali di sicurezza che hanno definitivamente limitato l’autonomia di Hong Kong sono un monito per Taiwan. 

Sarà pure una "piccola isola", come viene spesso descritta, eppure il suo destino ricopre una grande importanza per gli equilibri globali. Taiwan è indipendente de facto, ma la Repubblica Popolare Cinese la ritiene una "provincia ribelle" parte del suo territorio.

Gli analisti americani avvertono: un’invasione armata da parte della Cina non appare imminente, ma è probabile entro la fine di questo decennio, più precisamente nel 2028. L’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) ne ha tutte le capacità. E la dimostrazione di questa teoria sono le sempre più frequenti incursioni dei caccia cinesi nello spazio aereo dell’isola, come le esercitazioni delle navi nelle acque limitrofe. 

Negli ultimi anni la Cina è diventata più forte, sia livello economico sia a livello militare, e non vuole più nascondere le proprie ambizioni come ai tempi di Deng Xiaoping. Xi, artefice del nuovo "sogno cinese", vuole rimarginare l'ultima ferita del "secolo delle umiliazioni" (quando Taiwan era una colonia giapponese) e completare il "ringiovanimento nazionale".

Da qui l'esigenza di mostrare i muscoli, come fatto in particolare a partire dal 2019 con una serie di discorsi nei quali non è stato escluso l'utilizzo della forza. Tutto questo mentre cerca di erodere i già esigui spazi diplomatici di Taipei, al momento riconosciuta solo da 15 stati. La crescente aggressività di Pechino, insieme alla stretta finale compiuta su Hong Kong, hanno però avuto l'esito di allontanare ancora di più Taiwan, che ormai rifiuta in toto l'offerta del modello "un paese, due sistemi" naufragato nell'ex colonia britannica. Contestualmente, Taipei continua a forgiare la sua identità. Ormai oltre il 65% dei cittadini si considera solo "taiwanese" e non "cinese" e l'implementazione di nuovi diritti civili contribuisce a rafforzare il senso di alterità rispetto a una Cina dove il Partito è una presenza sempre più ingombrante in tutti i gangli della vita non solo politica ma anche economica e sociale.

I prossimi anni saranno decisivi. L'ultimo rapporto della Difesa taiwanese ha sottolineato con inedita urgenza la capacità militare della Cina di operare un'invasione. A Taipei ritengono improbabile che Xi si muova prima del 2023, quando dovrebbe ottenere ufficialmente il terzo mandato.

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Articolo pubblicato il 21/10/2021