Algoritmi e criminalità

Tra le prospettive più innovative applicate alle scienze criminali, vi è quella che affida a un algoritmo la valutazione del reato. Ormai sappiamo che gli algoritmi fanno parte della nostra quotidianità, anche se non ne abbiamo una precisa consapevolezza: ci controllano, ci guidano verso campi a noi congeniali (secondo loro), prevedono le nostre iniziative e tante altre cose ancora…

Il termine deriva dal nome al-Khuw?rizm?, del matematico arabo Mu?ammad ibn M?sa (IX secolo) e nel medioevo indicava i procedimenti di calcolo numerico fondati sopra l’uso delle cifre arabiche. Oggi, nel linguaggio dell’informatica, è l’insieme di istruzioni che deve essere applicato per eseguire un’elaborazione o risolvere un problema. In pratica, molti di noi, quelli che non hanno una preparazione profonda sui meccanismi quasi alchemici del software, c’è il rischio che siano vittime dei tanti trabocchetti, dai più innocui a quelli maggiormente devastanti, celati nelle maglie del Web.

Prendiamo, per esempio, i cookies che, in barba al loro nome (biscotti), in realtà non ci addolciscono la vita, ma al contrario la facilitano a quanti sono lì pronti a offrirci prodotti, servizi e tanto altro ancora, modulando le loro offerte sulle nostre scelte e sui gusti che abbiamo lasciato trapelare nel nostro pellegrinare tra i siti.

Fondamentale poi la relazione tra gli algoritmi e i social network. Un dato per tutti: in un anno, su Facebook, sono stati caricati due miliardi e mezzo di contenuti e cliccati due miliardi e settecento di like: ogni giorno, a grandi linee, circa cinquecento terabyte di nuovi dati… Sono numeri che non facciamo fatica a trasformare in quantità, ma sono solo una delle tante fonti che ogni giorno aggiungono nuovi dati su Internet, rendendo sempre più intricata la foresta informatica, alimentata dagli algoritmi.

Insomma siamo un po’ tutti, in modo diverso, “sudditi inconsapevoli della dittatura digitale” (A. Murzio - C. Spallino,2020).

Si aggiunga che sempre di più si delegano agli algoritmi decisioni come concedere mutui, vagliare domande di lavoro, stabilire prezzi di polizze assicurative, ecc.

Negli Stati Uniti sono allo studio sistemi di controllo basati appunto sull’intelligenza artificiale e sul machine learning, cioè computer che apprendono dall’esperienza, vale a dire dal database costituito dalle indagini investigative e dai processi raccolti.

L’amministrazione della giustizia effettuata con infrastrutture digitali è contestata non solo dalle associazioni per i diritti civili, ma anche dalle diverse categorie di professionisti operanti nella giustizia, perché si teme – forse giustificatamente – che con l’applicazione dell’algoritmo vi sia un indebolimento dei diritti degli imputati. Anche se la macchina – che si pone come interfaccia tra scienze matematiche e sociali – non potrà mai sostituire il giudice, a essa verrà comunque riconosciuto un ruolo non secondario, determinate per valutare il rischio che un pregiudicato reiteri il suo reato. Tale valutazione è effettuata attraverso l’analisi statistica della casistica e dei precedenti del soggetto. In questo modo si delinea un giudizio schematico, freddamente basato sui dati e con un’ipotesi di sentenza non mediata dall’interpretazione del giudice, ma fissata su freddi calcoli e sull’interpretazione di modelli matematici, con tutti i rischi che ciò costituisce, soprattutto quando si parla di giurisprudenza e dall’analisi del crimine.

Inoltre, i software finalizzati alla sicurezza usano algoritmi per prevedere dove e quando si verificherà un crimine, avvalendosi di una banca dati in cui sono raccolti i reati commessi negli ultimi anni; ogni reato è catalogato e classificato per tipologia, periodo dell’anno in cui è stato registrato, orario e luogo geografico. Su questa patrimonio di informazioni il software incrocia i dati e disegna mappe di rischio all’interno delle quali è più probabile che si verifichi un reato.

Gli indicatori di rischio si basano su alcune “certezze” che come monoliti governano le elaborazioni prodotte dall’algoritmo. Per esempio: quando fa caldo i furti aumentano perché molti lasciano le finestre aperte; quando piove è minore il rischio di furti in appartamento per un maggiore numero di cittadini resta in casa; nelle aree urbane in cui è maggiore il degrado e l’abbandono, aumentano spaccio e scippi; l’illuminazione stradale è indirettamente proporzionale alla diffusione della microcriminalità; tra luglio e agosto aumentano i furti nelle vie del centro; furti e vandalismi nei parcheggi hanno un’impennata quando il numero ella automobili presenti si aggira intorno alle cinquecento. Sulla scorta di queste previsioni, le forze di polizia possono intensificare i controlli nelle aree cittadine con peculiarità di rischio riconducibili a quelle evidenziate dall’intelligenza artificiale.

Nelle località in cui l’algoritmo è stato utilizzato si è registrata una diminuzione dei reati: per esempio, a Los Angeles i crimini violenti sono diminuiti del 21%, le aggressioni del 33% e i furti del 19%.

Una considerazione è però necessaria: l’algoritmo forse può essere di qualche utilità per i crimini cosiddetti “strumentali”, quelli che hanno uno scopo razionale (come un furto, o un omicidio finalizzato: per esempio nelle aree di spaccio); però, nel caso di omicidi “espressivi” in cui prevale la componente psicologica (per esempio reati sessuali, o omicidi passionali) è un po’ difficile che un algoritmo possa prevedere questo tipo di crimini.

 

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Articolo pubblicato il 06/11/2021