Obbedienza o disobbedienza?

Da Lutero ai No-Vax e quel controverso rapporto tra legalità e legittimità.

Tra le tante immagini che hanno caratterizzato le manifestazioni che negli ultimi mesi stanno riempiendo le piazze italiane di No-Vax (o Free-Vax che dir si voglia), una particolarmente mi ha colpito. Si trattava di un cartello riportante la dicitura: “Quando l’ingiustizia è legge, la disobbedienza diventa un dovere”. Queste poche parole sintetizzano secoli di discussioni filosofiche a riguardo di quel confine, a volte netto, altre meno, che vede sovrapporre, ma in tanti casi anche contrapporre, i concetti di legalità e di legittimità.

Legale – infatti – è un quello che viene prescritto dalla legge; legittimo è ciò per una società, o un gruppo di persone, è ritenuto giusto, o comunque ragionevole, in adesione a valori, o principi laici o religiosi. Ad esaminarla, la storia è un cimitero di norme giuridiche legali, ma non legittime.

Basti richiamare qualche esempio: per secoli la schiavitù è risultata legale, le mussoliniane leggi razziali e i campi di concentramento nazisti e russi erano legali, al pari dell’apartheid sudafricana. Tuttavia, nessuna di queste norme può essere considerata legittima.

Non stupisce dunque che la filosofia politica si sia frequentemente interrogata sul rapporto tra legalità e legittimità, obbedienza e disobbedienza.

Sul fronte dell’obbedienza (tra le tante) militano brocardi quali quello espresso dal giurista romano Domizio Ulpiano: “Quod principi placuit legis habet vigorem” – ovvero “ciò che è gradito al principe ha valore legge” – che legittima un potere assoluto superiore alla stessa legge (ossia un potere “sciolto dalla legge”, dal latino “legibus solutus”) che fa dei governati dei sudditi tenuti semplicemente ad ubbidire alle decisioni – giuste o sbagliate che siano – assunte dai rispettivi governanti.

All’opposto, troviamo un filone del pensiero politico – principalmente interpretato da una serie di autori che vengono chiamati i “monarcomachi” (per lo più di religione protestante che vissero tra il Cinquecento e il Seicento) – che, a vario titolo, evidenziarono il diritto dei popoli alla ribellione contro il re e le sue leggi quando queste fossero divenute ingiuste (in particolare laddove violanti i precetti religiosi), giungendo in taluni casi a teorizzare l’uccisione del tiranno quale strumento di resistenza contro il potere ingiusto.

Conseguentemente indubbio è che il rapporto tra legalità e legittimità, tra obbedienza e disobbedienza, rappresenti uno tra i filoni conduttori della storia.

Ad esempio, se non ci fosse stata disobbedienza al sistema tolemaico, ancora oggi crederemmo che il sole ruoti intorno alla terra; se non ci fosse stata disobbedienza e i francesi nel 1789 non avessero avuto il coraggio di fare la rivoluzione, la società continuerebbe ad essere suddivisa nei precedenti tre stati; se non si fossero verificati i moti del 1848, Carlo Alberto di Savoia non avrebbe concesso lo Statuto albertino; se Nelson Mandela non avesse disobbedito alle leggi che prevedevano l’apartheid, in Sudafrica oggi circolerebbero pullman per bianchi, separati da quelli per neri.

Immaginiamoci poi cosa sarebbe l’Europa se Martin Lutero (1483-1546), disubbidendo alle gerarchie cattoliche (sino a vedersi comminata la scomunica), non avesse affisso nel 1517 le famose 95 tesi sul duomo di Wittemberg, o se le femministe di tutto il mondo – in primis le suffragette inglesi – avessero rinunciato a lottare per la parità uomo/donna, con il risultato di veder perpetuate norme che individuavano nel solo uomo il capo della famiglia (principio in Italia abrogato unicamente nel 1975).

Naturalmente non stiamo facendo riferimento ad una disobbedienza “pura e semplice”, ma a quella disobbedienza che viene definita “politica” o “civile”.

Difatti, se la regola è rappresentata dall’obbedienza quale esito del rispetto di quel patto tra individui che crea le istituzioni e che quindi (soprattutto in un ordinamento democratico dove gli elettori scelgono gli eletti che assumeranno in nome e per loro conto le decisioni) impone ai governati l’onere di obbedire ai governanti, la disobbedienza civile – come bene ricorda Norberto Bobbio (1909-2004) – “è una forma particolare di disobbedienza, in quanto viene messa in atto allo scopo immediato di mostrare pubblicamente l’ingiustizia della legge e allo scopo mediato di indurre il legislatore a mutarla; come tale viene accompagnata da parte di chi la compie con tali giustificazioni da pretendere di essere considerata non soltanto come lecita ma anche come doverosa” (N. Bobbio, Disobbedienza civile, in Il Dizionario di Politica, a cura di N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino, Utet, Torino, 2005, p. 273).

La disobbedienza definita appunto “civile” si chiama così, proprio in quanto, chi la compie non reputa – sempre per dirla con Bobbio – “di commettere un atto di trasgressione del proprio dovere di cittadino, ma anzi ritiene di comportarsi da buon cittadino in quella particolare circostanza, piuttosto disubbidendo che ubbidendo”. In altri termini (è ancora Bobbio ad insegnarcelo), si tratta di un comportamento che mira a “mutare l’ordinamento”, diventando un atto non distruttivo, bensì viceversa “innovativo”.

Purtuttavia, la storia deve molto anche all’obbedienza, senza la quale la società diverrebbe una guerra degli uni contro gli altri, al pari di ciò che espone Thomas Hobbes (1588-1679) nei suoi scritti; annullando i benefici rappresentati dalla collaborazione sociale, indispensabili a permettere i c.d. “servizi pubblici indivisibili”, quali strade, retri idriche e reflue, verde e pulizia pubblica, gestione della giustizia e della sicurezza, etc., impossibili da realizzarsi dai singoli individui.

Certo è che da questa perdurante tensione – che talvolta diviene rottura del pregresso equilibrio con contestuale sostituzione, o per via rivoluzionaria, o tramite cambiamenti maggiormente graduali, di altro equilibrio, avente valori e classe dirigente in buona parte differenti da quelli antecedenti – sono nate le moderne istituzioni liberaldemocratiche, le quali appaiono il “risultato conseguito in genere attraverso ulteriori e complessi passaggi, di spinte rivoluzionarie e di lacerazioni spesso traumatiche del tessuto civile e sociale” (B. Bongiovanni, Rivoluzione, in A. d’Orsi, a cura di, Alla ricerca della politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, p. 217).

Altrettanto certo è che, storicamente, non solo il confine tra lecito e illecito risulti spesso mutevole, ma che sovente i parametri di riferimento utili a giudicare cosa rappresenti il giusto o lo sbagliato siano l’effetto degli eventi storici stessi: se a vincere il secondo conflitto mondiale fossero stati Hitler e Mussolini, i partecipanti alla resistenza partigiana avrebbero conosciuto la fucilazione e le loro figure – dopo adeguata propaganda – sarebbero state ridotte alla stregua di infami traditori.

Ma Hitler e Mussolini hanno perso la guerra e personaggi come Luigi Einaudi e Sandro Pertini sono meritatamente diventati presidenti della Repubblica, con annessa stima e onori sociali.

Pertanto, in termini politologici, il giudizio sulla disobbedienza che i no-Vax stanno ostinatamente e dal loro punto di vista orgogliosamente portando avanti dipenderà anch’esso in parte dagli esiti: vale a dire, da quanto funzioneranno o meno i vaccini nella prevenzione e nel contenimento del Covid (che, da un’iniziale “due dosi per tutta la vita”, si sta riducendo ad un’efficacia di pochi mesi e una pluralità – sulla carta infinita – di inoculazioni vaccinali) e dalla quantità e gravità degli esiti nefasti provocati dai vaccini.

Oppure avverrà benissimo il contrario.

Mutata l’élite di governo, questa potrebbe avere l’interesse a screditare in termini di consenso la precedente, con l’effetto che quello che ora viene proposto come giusto (la vaccinazione) verrebbe trasformato in sbagliato (basterà insistere mediaticamente sugli effetti avversi dei vaccini) e il gioco – almeno nella sua generalità – sarà fatto.

Del resto, non fu il segretario del partito comunista dell’allora URSS Nikita Sergeevic Chruscev a denunciare i crimini del compagno Stalin, compromettendone irrimediabilmente la stima internazionale? Come si dice dalle nostre parti, dunque, chi vivrà vedrà.

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Articolo pubblicato il 28/12/2021