Lo scontro di civiltà.
"Guernica" di Pablo Picasso - Simbolo di tutte le guerre

La guerra tra Israele e Palestina e il nuovo ordine internazionale

Era il 1992 quando il politologo statunitense Francis Fukuyama pubblicava il suo saggio più famoso: “La fine della storia e l'ultimo uomo”. Si era appena conclusa la caduta di (buona parte) dei regimi comunisti, incominciata nel 1989 e simboleggiata – nell’immaginario collettivo – dal crollo del muro di Berlino. In quei giorni, indubbiamente, aleggiava un clima di grande ottimismo al riguardo del futuro, che molti ancora ricordano.

Non solo, infatti, dopo quasi mezzo secolo, sembrava tramontata la paura della “guerra fredda”, che tanto aveva caratterizzato (e angosciato) quegli anni, ma si trattava – almeno in quel momento – di una schiacciante vittoria del nostro sistema produttivo e politico.

In questo contesto, a detta di Fukuyama – che, al pari di Hegel e a differenza di Platone e Aristotele, adotta una visione unidirezionale della storia – la meta ultima delle vicende dell’umanità, mosse e plagiate dal progresso, si sarebbe concretata nello sviluppo su base planetaria del liberalismo democratico e del capitalismo. In altri termini, il modello rappresentato dagli U.S.A. avrebbe rappresentato l’avvenire.

Sono trascorsi oltre trent’anni dall’uscita del volume di Fukuyama e i cruenti venti di guerra che, proprio in questi giorni, spirano tra Palestina e Israele e tra Russia e Ucraina e le tensioni che – seppure per ora sopite – contraddistinguono i rapporti tra la Cina e Taiwan, ci ritornano un mondo diverso da quello tratteggiato da Fukuyama.

Chi ha colto con perspicacia che avremmo proceduto in una direzione differente da quella indicata da Fukuyama, è lo studioso – anch’egli statunitense – Samuel P. Huntington, in un libro pubblicato nel 1996, intitolato “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”. In sintesi, Huntington sostiene che la principale fonte di conflitto nel mondo “post-guerra fredda” sarebbe diventata l’identità culturale e religiosa.

A differenza di Fukuyama, Huntington individua una serie di potenze emergenti (quali, fra tutte, la Cina, l’India e il Brasile), in robusta crescita economica, demografica e militare, che – prima o dopo – avrebbero finito per contendere la leadership mondiale agli U.S.A.. Per di più, come detto, queste nazioni avrebbero trovato vitalità fondamentale nelle proprie identità culturali, rinvigorite e rese orgogliose dalla rafforzata importanza economica.

Inoltre, diversamente rispetto a quanto da taluni ritenuto, a dire di Huntington, la modernizzazione non condurrebbe ad alcuna significativa forma di “civiltà universale”. Anzi, negli anni a venire, l’influenza che l’occidente sarebbe stato in grado di esercitare (anche in termini di fascinazione culturale) nei confronti degli altri popoli sarebbe diminuita.

Secondo Huntington, dunque, il futuro prossimo risulterebbe contraddistinto da aree culturali sostanzialmente omogenee, con ciascuna un proprio “stato-guida”: la Russia per l’area ortodossa, l’occidente con il primato degli U.S.A., il Sudamerica e l’area sino al Messico – ovvero i c.d. “latinos” – con il Brasile in posizione di capofila, l’islam con una nazione centrale quale l’Iran, l’Africa non islamica guidata dal Sudafrica, nonché le superpotenze della Cina (contraddistinta dal confucianesimo), dell’India (induismo), dell’area buddista e dal Giappone, ciascuna con le proprie distinte – e millenarie – tradizioni religiose e culturali.

In altri termini, per Huntington, la fine della guerra fredda e la dissoluzione dell'Unione Sovietica non avrebbe dato luogo a un mondo più unito e armonico, bensì a un sistema politico, sociale e culturale multipolare, per ciò stesso in maggiore competizione e, conseguentemente, più instabile.

Come era prevedibile, la tesi di Huntington ha attirato apprezzamenti e critiche; queste ultime formulate da coloro i quali credono in una società globalizzata, priva di sostanziali identità territoriali e religiose, multietnica e, nella sua essenza più profonda fondata sul possesso di disponibilità economiche e su meri impulsi consumistici.

Naturalmente, il lettore sarà ben libero di ritenere preferibile l’analisi formulata da Fukuyama, piuttosto che quella di Huntington. È tuttavia chiaro che, a voler analizzare i decenni che sono seguiti a entrambe le teorie, la storia stia andando nella direzione descritta da Huntington e non quella prospettata da Fukuyama.

Solo per riportare qualche esempio, nazioni come la Cina, l’India e il Brasile, nel giro di trent’anni, sono diventate potenze di tutto rispetto, sia in termini economico-militari sia politici e demografici.

Dal suo canto, in più occasioni, una parte del mondo islamico, evidentemente minoritaria ma comunque incisiva, ha dato segni d’insofferenza nei confronti dell’occidente con numerosi attentati (dalle Torri gemelle l’11 settembre 2001 alla strage del Bataclan a Parigi del 13 novembre 2015, da quelli avvenuti a Madrid l’11 marzo 2004 all’attacco alla sede del giornale Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015) con conseguenze disastrose in termini di vite umane e di percezione della sicurezza collettiva.

Dall’altra, che ne voglia certa parte dell’intellighenzia ufficiale, il fatto che la Russia abbia attaccato l’Ucraina – sfidando così le ire dell’occidentale, in particolare quelle U.S.A. – è emblematico di come quella nazione si senta forte e intenda riconquistare centralità internazionale.

Ma altri fatti avvalorano la teoria di Huntington.

Con la ritirata, iniziata nel maggio del 2021, dall'Afghanistan delle truppe statunitensi e della coalizione NATO e l’entrata il 15 agosto dei talebani nella capitale Kabul, l’occidente ha perso un nuovo tassello a favore dell’islam radicale.

Ma anche la guerra in Siria, cominciata nel 2011, dopo oltre un decennio di feroci combattimenti, ancora in parte in corso, ha visto mantenere al potere Bashar al-Assad, ciò grazie al fondamentale apporto militare della Russia, dell'Iran, del gruppo sciita libanese Hezbollah, con l’effetto che stiano prevalendo posizioni contrapposte a quelle perorate dall’occidente.

La data del 7 ottobre 2023 rimarrà poi emblematica nella storia, in quanto mai si era verificato un attacco tanto massiccio di Hamas nei confronti d’Israele, frutto di migliaia di missili lanciati da Gaza e irruzioni militari e con centinaia di morti e di persone sequestrate, migliaia di feriti, distruzioni infinite.

In che modo si svilupperà il conflitto non è semplice da dirsi, soprattutto laddove dovesse coinvolgere gli Hezbollah dal Libano. Certo è che, almeno nel breve periodo, una pacificazione appaia improbabile.

Se a queste tensioni si aggiungessero quelle tra Cina e Taiwan (che andrebbero a contrapporsi agli interessi U.S.A. e, in generale, a quelli dei paesi occidentali), o se il conflitto israelo-palestinese dovesse proseguire sui livelli di questi giorni, la situazione internazionale andrebbe allora a ulteriormente incrinarsi, assumendo pieghe ancor più preoccupanti.

I drammi che ne seguirebbero sarebbero molteplici, in particolare per le migliaia di vite che verrebbero distrutte. Ma le criticità ricadrebbero pure su di noi, stante il presumibile aumento della pressione migratoria e i molteplici effetti che si avrebbero in ambito economico, tra cui il verosimile incremento dei prezzi dei carburanti e, in generale, delle materie prime.

A prescindere dalle difficoltà economiche che ci potranno colpire, c’è qualcosa di ulteriore che ferisce: ed è la presa d’atto dell’incapacità dell’umanità di trovare percorsi di pace.

I drammi del passato – specie quelli rappresentati dalla seconda guerra mondiale – evidentemente poco hanno insegnato. Così la mente non può che correre al famoso quadro di Pablo Picasso, “Guernica”, simbolo della natura infernale di tutte le guerre, nella speranza, ancora una volta, che queste siano le ultime.

 

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Articolo pubblicato il 11/10/2023