Flat tax: opportunità di crescita o boutade elettorale?

Considerazioni sull’equità e sull’attuabilità di un’imposta piatta sui redditi delle persone fisiche.

Tra gli argomenti di dibattito dell’attuale campagna elettorale vi è quello inerente alla “flat tax”, o “tassa piatta” per dirla all’italiana.

In realtà, la “flat tax” altro non è che un’imposta proporzionale ad aliquota fissa, tipo l’IVA, che la Lega e Forza Italia vorrebbero estesa all’IRPEF, a oggi strutturata su base progressiva, con aliquote che crescono all’aumentare del reddito (23% fino ai 15.000,00 euro, 25% dai 15.000,01 ai 28.000,00 euro, 35% dai 28.000,00 ai 50.000,00 euro, 43% oltre i 50.000,01 euro).

A dire il vero, il dibattito se risulti preferibile un’imposta proporzionale o progressiva ha radici lontane, basti pensare che, a fine Ottocento, ne discussero vivacemente due professori universitari: Carlo A. Conigliani (1868-1901), favorevole all’introduzione di un’imposta progressiva, e Tullio Martello (1841-1918) che propendeva per un’imposta proporzionale.

Tuttavia, per comprendere le argomentazioni dell’una o dell’altra tesi, conveniene far richiamo ad altri due autorevoli economisti e pensatori politici: Antonio De Viti De Marco (1858-1943) e John Stuart Mill (1806-1873).

Con la “teoria del beneficio”, De Viti De Marco concepisce lo Stato alla stregua di un fornitore di servizi, con l’effetto che il contribuente sia chiamato a partecipare al carico tributario in proporzione al vantaggio tratto dai servizi di cui usufruisce. E, considerato che l’utilità ottenuta dai servizi pubblici risulti spesso similare (si pensi all’illuminazione delle strade o alla manutenzione del verde), per De Viti De Marco sarebbe ingiusto accollare quantità maggiori di tributi in conseguenza della sola ricchezza posseduta.

Viceversa Stuart Mill affronta il problema dell’equità impositiva facendo riferimento al criterio dell’utilità marginale decrescente; concetto, quest’ultimo, che ritiene (per ricorrere a un esempio) che far pagare 100 euro a una persona la quale ne percepisca 1.000, comporti un sacrifico più intenso rispetto a prelevare 1.000 euro a chi ne guadagna 10.000. Così ragionando, i redditi elevati andranno gravati da un carico fiscale maggiore: obiettivo che l’imposta progressiva garantisce.

A ciò si aggiunga che – nella visione politica socialista – l’imposta progressiva volta ad assicurare le disponibilità economiche utili a permettere una redistribuzione sociale in favore dei soggetti svantaggiati.

Seguendo tale ultimo orientamento, per volontà degli allora PCI, PSI e in parte DC, i padri costituenti elaborarono l’art. 53 della nostra Costituzione, secondo cui il sistema tributario italiano si informa a “criteri di progressività”. Un principio che, per non incorrere in eccezioni d’incostituzionalità, gli esponenti del centro-destra dovranno tenere in considerazione prevedendo deduzioni parametrate in funzione al reddito e alla composizione dei nuclei familiari e almeno un paio di aliquote.

A prescindere dai profili costituzionali, optare per la “flat tax” avrebbe vantaggi e svantaggi. Dal lato dei primi, la “flat tax” alleggerirebbe il carico tributario (tra i più elevati d’Europa), producendo una semplificazione del sistema fiscale e una diminuzione dell’evasione. Inoltre, la “flat tax” stimolerebbe il potere d’acquisto delle famiglie e incentiverebbe gli investimenti e la competitività internazionale del sistema Italia, determinando un processo di crescita che sortirebbe effetti benefici anche in termini d’occupazione e di maggiori introiti IVA dovuti all’incremento dei consumi.

Di contro, almeno nell’immediato, l’Italia si troverebbe a fare i conti con minori entrate di bilancio (nel 2021 il gettito IRPEF si è attestato intorno ai 198.203 milioni di euro) che, impossibile l’incremento di deficit eccessivi, dovrebbe venir compensato dal rincaro di altri tributi o da consistenti tagli alla spesa pubblica, con conseguente diminuzione di servizi. Da ultimo, la “tassa fissa” (al 15% a dire di Salvini, al 23% nella proposta di Berlusconi) finirebbe per avantaggiare soprattutto i ceti medi e quelli agiati.

Offerto un qualche spunto di riflessione in merito al tema dell’equità, appare doveroso soffermarsi sulla problematica se la “flat tax” sia una proposta attuabile, oppure se rappresenti una boutade intesa a conquistare consenso elettorale.

Per tentare di dare una risposta, si deve tenere conto del quadro macroeconomico dei conti pubblici e del fatto che, per via della pandemia e della guerra, l’Italia stia vivendo un periodo (perlomeno) di stagnazione, accompagnato da elevata inflazione. Da non dimenticare, poi, è che il debito pubblico italiano ammonti a oltre il 150% del PIL, mentre i parametri di Maastricht prevedevano meno della metà.

In aggiunta, da considerarsi è che circa il 60% del gettito IRPEF venga versato da chi percepisce un reddito imponibile annuo superiore ai 35mila euro, con il risultato che, l’introduzione della “flat tax”, laddove estesa alla collettività dei contribuenti, condurrebbe a una drastica diminuzione delle entrate erariali, quantificabile a spanne in circa 100.000 milioni di euro che, in parte (ma quanta parte è in anticipo difficile da dire), verrebbe compensata dall’aumento dei ricavi IVA e da altre forme di entrate e/o di risparmio (ad esempio, dato dalla diminuzione delle somme erogate a titolo di disoccupazione), nonché dal recupero di evasione fiscale.

Verosimilmente certo è dunque che, nel breve periodo, la proposta della “flat tax” non risulti applicabile nella percentuale del 15% e di pari estendibile all’intera platea dei contribuenti. Non a caso, è lo stesso programma della coalizione di centro-destra che prevede una prima fase a beneficio delle partite IVA (ed esclusivamente sino a determinate soglie di guadagno) e una seconda a vantaggio dei restanti contribuenti. Visti tuttavia i fondamentali dell’Italia – specie l’impressionante debito pubblico e gli stretti parametri di bilancio che l’Europa impone – la proposta della “flat tax” non sarà agevole da attuare neppure nel medio-lungo termine, anche se l’esito in parte dipenderà dalla congiuttura economica interna e internazionale.

Tenuto però conto che i ceti meno abbienti godono già di numerose forme di sgravio fiscale (sotto gli 8.000 euro circa, per via delle deduzioni-detrazioni, non si paga IRPEF), oltreché di svariati contributi (quali il reddito di cittadinanza, sostegni al pagamento dei canoni di locazione, libri di testo e altri strumenti didattici gratuiti, bonus sociali, etc.), mentre sulle spalle dei ceti medi e agiati ricade la maggior parte dell’onere tributario da IRPEF (che, come ricordato, si spinge sino alla ragguardevole soglia del 43%) un ripensamento dell’attuale sistema tributario appare probabile, se non anche inelluttabile.

Che poi tale cambiamento avvenga tramite l’introduzione della “flat tax” o meno, almeno in parte, saranno gli elettori a deciderlo.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 11/09/2022