“Face au soleil, un astre dans les arts".

Parigi val bene… una mostra! di Alessandra Gasparini

Parigi è una meta obbligatoria per chi ama l’arte, la musica, la moda e… la gastronomia! Una città con radici antiche e un’atmosfera unica, un luogo dove le esperienze ti toccano nel profondo, perché lì nulla è banale.

Fondata circa due secoli prima della nascita del Cristo, in epoca celtica si estendeva solo sull’Île-de-la-Cité, ed era collegata alle due rive della Senna da due ponti: poi l’ampliamento è avvenuto poco alla volta, e non solo sul territorio, fino a diventare nel XIX secolo il maggior centro culturale di tutta l’Europa.

Così Alessandra Gasparini, con la scusa di andare a trovare la figlia che lì abita e lavora, trova spesso l’occasione per visitare Parigi con le sue splendide mostre e riempirsi gli occhi di meraviglie.

Nelle splendide giornate ottobrine in cui il clima invita a camminare intraprendere percorsi noti e sconosciuti, alzi lo sguardo e ti incanti. L'entusiasmo mi fa scegliere alcuni luoghi noti e uno ancora ignoto, luoghi diversamente solari, portatori di luce.

Primo luogo: Museo Marmottan Monet, XVI arrondissement, visita alla mostra “Face au soleil, un astre dans les arts".

Riconosco il bel parco, dominato dalla statua di La Fontaine. Giostre antiche richiamano i bimbi; gli alberi sono così alti da sfiorare l'azzurro, mescolandolo di varie tonalità di verde e di rosso. La stessa luce che ritroverò nei quadri e negli oggetti esposti al museo, in occasione della commemorazione del famosissimo dipinto di Monet “Impression, soleil levant”.   

Il filo conduttore: la rappresentazione del sole, dall'antichità ai contemporanei.

Dalle raffigurazioni minuscole e preziose di monili dell'antico Egitto, si passa a disegni su vasi adibiti alle sepolture.

Il dio sole, Amon-Ra, porta l'astro sulla testa, così come la fanciulla che lo segue, prematuramente defunta, di cui il dio è protettore e il vaso contenitore.

Il sole la accompagna nel regno dei morti.

Pagine bibliche rappresentano in magnifici disegni gli atti di creazione del sole da parte di Dio. 

Ritroviamo la sua potenza che irradia nella natività seicentesca dell’olandese Van Honthorst, “L’Adoration des bergers”, dove il bimbo è circonfuso di luce, una luce che si riflette su Maria, su Giuseppe, sui deliziosi angioletti, sui pastori, sugli animali che circondano di sguardi affettuosi il neonato divino.

Mi colpisce molto “La Crucifixion” del tedesco Franz von Stuck, primi del Novecento, di stile profondamente diverso, in cui la luce incorona il Cristo crocifisso e lascia nell'oscurità e nel gelo le figure di Maria e dei santi che lo piangono.

Completamente buia è la croce su cui muore il ladrone.

Meravigliose le tre tele - imprestate dal Museo di Capodimonte - del veneziano Carlo Saraceni, che rappresentano la dolorosa avventura di Dedalo e Icaro.

Nella prima il padre dà istruzioni al ragazzo, lo tiene, sul bordo di una rupe. I corpi nudi, quello dell'adulto sfiorato da un drappo rosso, quello del giovane in atteggiamento timoroso e al tempo stesso desideroso di svettare libero. 

Dedalo vuole spingerlo a sperimentarsi nel volo, la grande sfida agli dei, prodotto dell'intelletto umano.

Una nube sta per levarsi dietro alture verdeggianti: il sole illumina i due uomini in atto di sfida.

Nella seconda tela assistiamo al volo dei due: le ali del ragazzo si stanno sciogliendo e il suo giovane corpo perde la direzione.

Il vecchio Dedalo lo guarda angosciato e impotente.

Mentre il dramma accade in cielo, la dolcezza del giorno pervade la terra, rappresentata da un cavaliere di passaggio che si rivolge a un giovane pescatore, indicando con la mano l'inspiegabile evento a cui sta assistendo, sulla riva di un lago.

La nuvola è la stessa, il sole, prima centrale, colpisce dal lato sinistro il giovane sventurato.

Terza e ultima immagine della leggenda: vediamo ora in riva al lago, di lato, l'anziano padre che sorregge il bel corpo senza vita di Icaro. Lo sguardo del vecchio cerca il sole, che ha sfidato perdendo, carico d'angoscia. Ma il sole non c'è più.

Una grande tela di Joachim Von Sandrart, “Allégorie du jour”, rappresenta un giovane inghirlandato, fluenti biondi capelli.

Porta in mano un sole con la faccia, lo guarda, fiero di condurre con sé quel prezioso astro, sollevando la mano destra, che lo contiene. Nella sinistra, il braccio disteso porta un grande cero, da poco spento.

Splendide le medaglie coniate per il re Sole, che richiamano per tematica la piccola deliziosa testa scolpita in argento di Alessandro il Grande, coronata da raggi, esposta all’entrata.

Il sole rappresenta il potere, chi dà la vita e la può conservare (o togliere).

Le tre donne di Friedrich (“Matin de Paques”) sono immerse nella luce di un mattino invernale, i rami degli alberi completamente spogli. Due di loro hanno pettinature vagamente orientali, portano scialli rossi; quella al centro indossa un manto nero con un cappuccio, che le nasconde la testa e il corpo. Magia di paesaggi delle isole tedesche, è una luce che conosco, che incanta e addormenta.

Meravigliosi gli impressionisti, ma chi colpisce è Felix Vallotton con la tela “Coucher de soleil, marèe haute gris-bleu”, dove il crepuscolo è rappresentato con una luce vivida, accesa, che esce dal quadro e resta impressa nella memoria visiva (e interiore) di chi osserva.

Il cielo è completamente irradiato, il mare è di un grigio acceso, come le nuvole che si allineano compostamente su un orizzonte intensamente rosato.

E poi Eugène Bodin, un meraviglioso piccolo cane sul muretto di un porto dorato di Turner, il “Soleil levant” di Otto Dix, e molti altri, sino ai soli contemporanei di Munch, Miró, Sonia Delaunay, Gèrard Fromanger… squadrati e centripeti verso cui ci dirigiamo, curiosi di ciò che ci aspetta.

Secondo luogo: Fondation Cartier pour l'art contemporain, XV arrondissement, visita alla mostra "Sally Gabori (Mirdidingkingathi Juwarnda)".

Sally Gabori inizia a dipingere all'età di ottant'anni circa, nel 2005. In poco tempo diviene una delle artiste più importanti del suo paese, l'Australia.

 Scopre la bellezza di trasferire i meravigliosi colori della sua isola nativa, del mare, del cielo, dei prati, delle distese naturali, dei fiori, degli esseri che abitano il paesaggio di Mirdidingki, una piccola insenatura a sud dell'isola di Bentink, dove è nata.

Lì è cresciuta, con il suo gruppo d'appartenenza, i Kaiadilt - 125 aborigeni nel 1944 - sempre vissuti delle risorse naturali.

Su un'isola vicina, Mornington, vivevano dal 1914 dei missionari presbiteriani, che a più riprese avevano cercato di convertire inutilmente i Kaiadilt.

Sally e gli abitanti di Bentinck sono stati costretti a trasferirsi lì nel 1948, a causa del ciclone e dell'inondazione: per lei un vero e proprio esilio.

I Kaiadilt, collocati in accampamenti sulla spiaggia, i loro bambini separati dai genitori per essere educati dai missionari che vietano loro di parlare la lingua materna e spezzano ogni legame con le tradizioni e la cultura originaria.

A 80 anni, Sally scopre la tela e i colori e decide di provare a riprodurre le sue sensazioni e i suoi ricordi di tanti luoghi e persone della sua isola natale, che per molti anni non ha potuto rivedere.

Da quel momento dipinge sempre, ogni giorno, sino all'ultimo, una pittura astratta, ma in realtà con riferimenti molto concreti nel trasmette una sensazione di armonia, di nostalgia, di vitalità, allo stesso tempo.

La Fondation Cartier, fondata nel 1984 da Alain-Dominique Perrin, che sin dalla nascita si è occupata di etnografia e di ecologia mediate da esperienze artistiche, è ospitata dal ‘94 nello splendido edificio di vetro progettato da Jean Nouvel. Un questo universo di emozioni colorate, variamente tratteggiate, ora incise, ora accennate mi coinvolgono con la luce accecante di mille e mille soli che mi riempiono di calore umano.

Terzo luogo: Le Théâtre du soleil, alla "Cartoucherie" del Bois de Vincennes.

Da sempre desideravo conoscere il magico luogo teatrale della grande regista francese Ariane Mnouchkine, fondato da lei assieme ad altri nel 1964.

Un teatro nato come cooperativa, ospitale e aperto, politicamente impegnato, in una vecchia fabbrica di cartucce abbandonata, dentro un immenso bosco a sud est di Parigi, che contiene ben 5 luoghi teatrali.

Per me, Paradiso terrestre! Una passeggiata di venti minuti immersa nel castagneto che costeggia il Bois de Vincennes mi conduce lì, dove mi pare (forse m'illudo) che il sole possa splendere sempre.

Perché è Parigi, perché è un bosco, perché è un teatro.

Perché l'inizio dell'autunno ha una radiosità tutta sua, incantevole e fragrante.

Veniamo accolti dai giovani in attesa che lo spettacolo inizi.

Si intitola "W, ou le souvenir d'enfance", trasposizione scenica dal testo di Georges Perec, per la regia di Olivier Balazuc.

Dentro, il teatro è semplice, minimalista: ogni oggetto qui diventa importante, ogni luce crea effetti onirici o terribilmente reali, ogni parola dei due potenti attori, sempre Olivier Balazuc e Isabelle Gazonnois, risuona e lascia una traccia.

Ci portano su un'isola della Terra del Fuoco, dove la società si preoccupa esclusivamente dell'agone sportivo, di spronare e coltivare nei ragazzi ciò che li farà perfetti atleti, perfetti esecutori di azioni rigorose e dettate dall'alto, non si sa da chi: tenaci esecutori degli ordini, simil-giovani dell'antica Sparta.

Infatti qui si tengono "les Olympiades, les Spartaquiades, les Atlantiquiades" leggiamo a caratteri cubitali su una parete proiettata.

Perfetti combattenti per un ideale non loro, rigorosi, instancabili. Qual è lo scopo? Non c'è tempo per chiederselo, bisogna agire.

Il sole, fuori, ci aspetta, tramonterà fra poco.

Lo spettacolo ci ha ancora una volta illuminati su ciò che non vorremmo mai dover essere, ma che purtroppo molto spesso siamo stati e siamo, consapevolmente, anche nostro malgrado.

Riprendiamo, silenziosi e assorti, il sentiero ancora per un poco radioso di un bosco intricato e selvaggio, che grazie al riflesso un poco appannato del sole di ottobre ci solleva l'animo, ci ispira fiducia.

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Articolo pubblicato il 21/10/2022