Credere nel Diritto?

Sempre più difficile accettare l’idea della certezza del diritto

Per secoli la nostra civiltà ha creduto al diritto come principio ordinatore dell’umanità: così come esistevano leggi cosmiche in grado di far funzionare correttamente l’universo, così esistevano leggi umane in grado di far funzionare correttamente le società. Entrambi gli ordinamenti si fondavano su alcune semplicissime qualità: la certezza di quelle leggi, la loro continuità nel tempo, la loro razionalità ed eticità, ed ancora, e soprattutto, la loro comprensibilità e accettabilità per la mente degli uomini.

Che poi gli ordinamenti giuridici scaturissero dalle leggi dello stato, come nei sistemi romanistici di civil law, o dall’attività giurisprudenziale dei magistrati, come nei sistemi anglosassoni di common law, poco cambiava: l’essenziale era che quelle norme, quel diritto, quei tribunali offrissero ai popoli una chiara e forte idea di giustizia, intesa come razionalità ed equità condivise dalla mentalità collettiva. In altri termini, un po’ più retorici, dovevano rappresentare una “maestà della legge” profondamente e largamente percepita da tutto un popolo, anche nei suoi aspetti più severi e, talvolta, crudeli.

Intendiamoci, non siamo così ingenui da credere che tutto questo sia stato sempre completamente vero, secondo il noto principio attribuito a Giolitti per cui la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici: in fondo il diritto e le norme giuridiche sono essenzialmente fenomeni linguistici, con tutto il loro carico di ambiguità semantica.

Ogni operatore del diritto lo sa perfettamente, ma, al di là di questa ambiguità di fondo, i sistemi giuridici, e soprattutto quelli giudiziari, hanno sempre saputo creare al loro interno strumenti in grado di dare, alla fine, una qualche uniformità al caos normativo e interpretativo. La giurisprudenza, la dottrina, l’attività delle corti superiori hanno comunque sempre costruito una certa organica coerenza di quei sistemi, anche se certe interpretazioni apparivano opinabili.

E questo, bene o male, forniva ai popoli, e oggi all’opinione pubblica, una certa immagine di superiore rispettabilità sia al sistema giuridico sia a chi lo amministrava, è cioè la magistratura.

Oggi sembra non essere più così.

Abbiamo già detto, qualche giorno fa, dell’accusa per crimini di guerra sollevata contro Putin dalla Corte Penale Internazionale con relativo mandato di cattura. Provvedimenti destinati a cadere nel nulla per una serie di motivazioni tecniche che abbiamo illustrato, ma che soprattutto gettano sulla Corte un’ombra di parzialità strumentale evidenziata da molti.

Più che un atto di giustizia internazionale, quell’iniziativa sembra un’ulteriore arma non convenzionale schierata dall’occidente contro il presidente russo. E in più l’utilizzo della Corte da parte degli occidentali ha un limite morale e logico molto evidente: né gli Stati Uniti, né l’Ucraina riconoscono l’autorità di quel tribunale.

Negli Stati Uniti, poi, è partito l’assalto giudiziario contro Trump -assalto che potrebbe addirittura comportare il suo arresto- da parte di un procuratore federale che non fa nulla per nascondere la sua avversione verso l’ex presidente, iniziativa forse giustificata da una serie di reati non proprio rilevanti fra cui un pagamento ad una pornostar, cosa che dalle nostre parti avrebbe al massimo conseguenze da avanspettacolo e una tempesta di battute volgarotte sui social.

Così come, a suo tempo, fu assalito Berlusconi per fatti privatissimi e di nessuna rilevanza politica, oggi la magistratura americana sembra veramente essere la pistola in mano ai nemici di Trump. Anche qui bisogna distinguere fra i fatti reali, di cui poco si sa, e che forse potrebbero anche avere una giustificazione, dall’immagine mediatica di una giustizia diventata strumento di poteri oscuri e che mira essenzialmente ad impedire una nuova candidatura Trump, cosa, quest’ultima, che evidentemente terrorizza un deep state sempre più aggressivo e senza scrupoli.

E poi c’è un’Italia in cui alcuni sindaci, anziché amministrare le loro città, e -si badi bene- nelle loro funzioni di ufficiali del governo, fanno opposizione politica al governo stesso minacciando disobbedienza a una legge dello stato che impedisce la registrazione anagrafica di bambini dall’incerta provenienza a favore di coppie omosessuali, sindaci che ignorano la chiara sentenza della Corte di Cassazione in merito e promuovono  censure straniere da parte del Parlamento europeo contro lo stato che essi dovrebbero rappresentare.

E poi c’è una Corte costituzionale che, alcune settimane fa, con un mirabile esercizio di contorsionismo argomentativo, ha avallato tutta la normativa statale in merito al divieto di lavoro per il personale sanitario non vaccinato, o non sufficientemente vaccinato, basandosi non tanto sulla disamina giuridica delle questioni sottoposte da diversi giudici, ma sulla valutazione fattuale della “proporzionalità” e della “non irragionevolezza” dei provvedimenti statali, assumendo come scontate e veritiere posizioni scientifiche oggi assolutamente screditate.

Errore grossolano, sentenza opinabile, demoliti pochi giorni fa da un giudice del Tribunale civile di Firenze, Susanna Zanda, che ha reintegrato nel posto di lavoro una psicologa dell’ASL non vaccinata, e ancor prima da un magistrato militare di Napoli, Andrea Cruciani, relativamente ad una vicenda di accesso al luogo di lavoro senza green pass.

In sostanza, alcuni magistrati di merito stanno contrastando la sentenza della Corte costituzionale in materia di obbligo vaccinale, riappropriandosi della propria libertà di pensiero e della propria autonomia interpretativa, e soprattutto rivendicando a sé il sacrosanto principio secondo cui il giudice è assoggettato solo alla legge, secondo il noto principio costituzionale.

Anche qui, però, emerge un atteggiamento fortemente ambiguo della Corte costituzionale, atteggiamento che la fa apparire come schierata in modo pregiudiziale sulle tesi governative, vacciniste e autoritarie, al punto di suscitare la reazione di altri magistrati, e congedando ancora una volta quel principio di certezza del diritto a favore di una giurisprudenza politicamente orientata e accondiscendente.

Potremmo continuare, ma il concetto ci sembra ormai chiaro: il diritto non è più l’arbitro dei conflitti, ma uno strumento in mano al contendente più forte. Questo per quel che riguarda il diritto già esistente.

Se poi si prende in considerazione il momento della produzione del diritto, emerge un fatto ancor più sconvolgente: la sostanziale privatizzazione del diritto, fatto su cui abbiamo più volte richiamato l’attenzione.

Le norme giuridiche sono create su iniziativa e sotto influenza delle grandi lobby di potere, particolarmente quelle economiche (l’Unione europea ne è un esempio da manuale), o addirittura da organismi pubblici finanziati da grandi soggetti privati (l’OMS ne è un altro esempio), o da grandi partenariati pubblico-privati a cui lo stato, o gli stati, danno, oltre ai benefici economici, anche quello di produrre norme giuridiche o comunque regole vincolanti, o ancora dai grandi gruppi privati esercenti pubblici servizi per cui vale lo  stesso principio.

Ecco, ci troviamo oggi nella situazione in cui il diritto sembra aver deviato dall’originaria concezione liberale di forte strumento nelle mani dello stato e altrettanto forte strumento a difesa dei diritti dell’individuo; uno strumento cioè teso ad armonizzare queste due esigenze, però con una preferenza marcata per la seconda. E anche la magistratura tende a non essere più l’impassibile guardiana di una legge oggettiva, olimpica, sopra le cose del mondo per poterle meglio ordinare, ma sembra scendere sempre più a compromessi con le cose del mondo o, peggio, con i poteri del mondo in tutte le loro forme e in tutte le loro bassezze.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Articolo pubblicato il 03/04/2023