La storia millenaria del Sacro Romano Impero - parte 2

Il tentativo di cancellazione dell’ultimo impero cattolico

Le pagine di più vibrante partecipazione sono quelle dedicate al giovane imperatore Ottone III: sangue teutonico (e per metà bizantino) ma schietta esaltazione romana, sintesi vivente di due mondi che cercavano di capirsi e di completarsi sotto l’egida della Vera Fede intensamente vissuta. Egli, «spirito giovane e visionario»  imbevuto di idee antiche e soggiogato dal misticismo della Roma cristiana (ansiosamente ma invano cercata , fu l’imperatore che forse più di chiunque altro seppe vivere “dall’interno” la dimensione romana e latina della sua carica: l’imperatore idealista che «dimenticò il presente per vivere nella luce dell’antico ordine».

 

Bryce conduce il lettore lungo il percorso tortuoso di una idea di pace e universalismo che ambiva a essere la base di una società altamente organizzata: l’idea di un solo popolo cristiano, i cui membri sono tutti uguali agli occhi di Dio, con un imperatore superiore ai grandi della terra perché titolato di un potere non di “quantità” maggiore ma di “qualità” differente; un imperatore superiore a re, prìncipi e signori feudali in quanto solennemente investito di una funzione universale e sacrale di servizio e di difesa. L’Autore, pur improntando il suo studio a severi criteri di obiettività scientifica, non è affatto refrattario a esprimere giudizi e interpretazioni su idee, eventi e personaggi, senza mai perdere di vista il dato reale.

 

Secondo la migliore scuola del positivismo storiografico. James Bryce, è uno studioso anomalo poiché non si identificò mai nella classica figura dell’erudito da tavolino. Bryce parlava fluentemente francese, italiano, tedesco (si dice che con la Regina Vittoria, che lo teneva in gran conto, discorresse in tedesco). Conosceva benissimo sia il greco che il latino, qualità comune al tempo fra i letterati e gli intellettuali.

 

Dalla lettura del testo, Bryce, anche se non lo scrive esplicitamente, prende posizione e aderisce a una delle tesi centrali del partito ghibellino quando individua il concetto «autentico» della dualistica coesistenza di Papa e Imperatore. La «più antica e solida teoria», stabiliva che l’autorità imperiale non fosse delegata dal Pontefice ma provenisse direttamente da Dio nella sfera di competenza del secolo, laddove l’Onnipotente era rappresentato dal papa «non in ogni competenza ma solo come governante degli spiriti in Cielo». Una titolazione ufficiale dell’Imperatore era «Difensore e Avvocato della Chiesa cristiana».

 

I capitoli seguenti introducono il lettore al grande conflitto giuridico, ideologico e teologico tra Papato e Impero la cui prima tappa (il Concordato di Worms del 1122) si conclude con un imperatore dalla «gloria offuscata e un potere infranto». Un Impero assediato dai signori feudali tedeschi, dalle leghe comunali italiane, dalla Curia romana e dai re delle nascenti, e sempre più agguerrite, monarchie nazionali. Eppure esso sopravvisse anche alla seconda e ben più rovinosa caduta degli Staufen (seconda metà del XIII secolo), Ma in realtà, aggiunge Bryce, la sopravvivenza materiale fu dovuta anche (e non in misura minore) alla sempre più stretta identificazione tra Impero e Regno di Germania.

 

Quel che seguì fu una lunga storia di progressivo smarrimento del senso profondo di esistenza del Sacro Romano Impero: circoscrivendosi alle regioni di lingua tedesca, con imperatori quasi tutti tedeschi, esso rinunziò (o meglio: fu costretto a rinunciare) all’universalismo cristiano e cioè alla sua anima.

Nel XIV secolo ancora si assiste alla cavalleresca e illusoria avventura dell’imperatore Arrigo VII del Lussemburgo, esaltato da un ancor più illuso Dante Alighieri (il cui trattato De monarchia, la cristallizzazione intellettuale più elevata delle dottrine di parte imperiale, fu «un epitaffio piuttosto che una profezia» dell’Impero). Due capitoli (il XVI e il XVII, dedicati rispettivamente alla Città di Roma nel Medioevo e all’ Impero romano d’Oriente) rompono l’ordine cronologico dell’esposizione.

 

I capitoli XVIII–XXI, dedicati all’evoluzione (o meglio: degenerazione) dell’Impero in età moderna, sino all’epilogo del 1806.

Nell'ultima parte del libro, sembra che Bryce abbia l’ingrato compito di descrivere le vicende dell'impero, di un moribondo che non vuol morire, un cadavere trascinato dalle correnti del flusso storico, o un fossile giuridico–istituzionale ammantato però di un alone di reverenza.

 

Dopo la Pace di Westfalia si conservava ormai solo «la farsa di un impero», e alla fine del XVIII secolo «filze di titoli pomposi erano tutto ciò che fu lasciato dell’impero che Carlo aveva fondato, a cui Federico aveva dato prestigio e che Dante aveva cantato». Infine, solo molto forzatamente si possono ricondurre alla tematica del Sacro Romano Impero i due ultimi capitoli del libro (cap. XXIII: Il cammino della Germania verso l’unità nazionale; cap. XXIV: Il Nuovo Impero tedesco: entrambi i capitoli furono aggiunti nell’edizione del 1904).

 

Alla fine del suo studio Petrosillo si chiede il perché della pubblicazione The Holy Roman Empire a più di un secolo dall’ultima edizione. Uno dei motivi potrebbe essere quello che ci riguarda direttamente. Ripercorre la plurisecolare storia dell’Impero medievale, soprattutto nel suo ruolo di Ente giuridico universale in dialettica tensione con i particolarismi locali, il pensiero del lettore contemporaneo corre subito all’Europa o meglio a quella Unione Europea che vorrebbe proporsi, almeno nelle intenzioni, quale organismo politico e giuridico capace di unire i corpi intermedi senza calpestarli.

 

Ma la lezione che si trae dalla storia dell’Impero medievale è dura: quando l’Impero, che non fu mai un agglomerato di interessi contingenti ma una forza innanzitutto “ideale”, posta al servizio della pace e della cristianità, cessò di alimentarsi di sostanza etica e spirituale (universalismo; romanità; cristianesimo), esso decadde e si estinse. Pertanto se vogliamo proporre questo audace parallelismo, l’Unione Europea, deve recuperare quel forte impulso che gli hanno dato gli statisti, i principali dei quali si ispiravano a un cristianesimo non confessionale. L'Europa deve ritornare a consolidare la forza morale che un tempo la fece nascere.

Non solo io aggiungerei occorre ritornare a studiare l’ultimo imperatore di quell’Austria-Ungheria, Carlo I d'Asburgo (1887-1922) erede, almeno nella memoria dei suoi sovrani, del Sacro Romano Impero medioevale. Proprio dalla pace dobbiamo cominciare. La pace è stata l’ultima speranza del beato Carlo. Accortosi della tragedia della Grande Guerra (1914-1918), nella quale era stato coinvolto il prozio imperatore Francesco Giuseppe (1830-1916), cercò di fare in modo che l’impero che aveva ereditato ne uscisse quanto prima possibile, senza peraltro subire conseguenze troppo gravi.

 

Il suo proposito venne impedito dal militarismo e dal nazionalismo tedesco, dalla componente filogermanica all’interno del suo stesso impero, dalla massoneria che voleva la cancellazione dell’ultimo impero cattolico, dai governanti dell’Intesa — specialmente dal Regno d’Italia — che forse pregustavano la vittoria totale e non volevano concedere trattamenti migliori all’Austria-Ungheria. Allora, Da Carlo a Carlo. Il Sacro Romano Impero e il «sogno» di un’altra politica”, titolava uno studio di qualche anno fa lo studioso cattolico Marco Invernizzi.

 

 

 

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Articolo pubblicato il 04/09/2023