Ospedale bombardato a Gaza

Nessun luogo in guerra è sicuro

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Un distillato placentare d’odio contro gli ebrei nutre, fin dal loro concepimento, gli arabi della Palestina. Il guazzabuglio labirintico di quella parte di mondo, da 70 anni pone in difficoltà anche gli specialisti, quando affrontano l’analisi di qual che vi succede, che è accaduto e che potrebbe ancora verificarsi, per gli alterni picchi di viscerale insofferenza tra quei due popoli, punteggiata da attentati e ammazzamenti senza senso.

L’atto terroristico di Hamas partito da Gaza il 7 ottobre, truce come nessun altro, e la risposta di Israele, inaudita come nessuno avrebbe immaginato, accendono, anche lontano da quei luoghi, proteste di piazza e isolati spasmi individuali a sostegno o contrari: la questione israelo-palestinese è infatti un problema globale e negli ovattati palazzi dei capi di molti stati la tensione è salita, anche per i morti del recente bombardamento di uno dei più importanti ospedali di Gaza.

Tutto è incerto, dal numero dei morti – 500 per alcuni; 50 per altri – alla matrice della bomba che ha colpito la struttura sanitaria o che, forse, accidentalmente è caduta lì. Le foto aeree dei giorni successivi mostrano che il razzo è piombato nell’area adibita a giardino e parcheggio, dove sono andate a fuoco parecchie auto. Nessun impatto sul fabbricato, che ha riportato danni non irreparabili. Difficile quindi, per gli analisti, il gran numero di morti denunciati dal Ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas. Facile invece, nel sentire comune, addebitare l’accaduto a Israele, che continua a produrre prove contrarie, le quali rimandano alla Jihad islamica la provenienza del razzo. È sfuggito per errore alla traiettoria, prevista verso altro obbiettivo di Israele o volutamente è stato lì indirizzato in modo proditorio per innalzare l’odio contro Israele, come in effetti è successo, viste le sommosse di piazza in tante parti del mondo?

Le guerre prevedono la dissoluzione del nemico, ma hanno anche regole proprie del diritto internazionale umanitario, che andrebbero rispettate. Non esiste un documento che codifichi tutti i crimini di guerra, ma tale è considerato, ad esempio l’attacco indiscriminato contro civili. Gli ospedali, pertanto, in qualche modo dovrebbero essere luoghi sicuri. Se veramente, dunque, il razzo che ha colpito l’ospedale di Gaza ha matrice israeliana, Israele avrebbe commesso un crimine di guerra, deprecabile e da condannare, come, peraltro, è da condannare la cattura degli ostaggi, operata da Hamas, anch’essa prevista come crimine di guerra. Però, non si può pretendere dai terroristi il rispetto delle norme sul diritto internazionale umanitario, dicono gli esperti, per i quali, se ignorasse questi obblighi l’esercito di Israele potrebbe aver ragione in brevissimo tempo delle milizie di Hamas.

Nata nel 1987 da una costola di Fratellanza Musulmana, Hamas è una organizzazione politica palestinese, che ha l’obbiettivo dichiarato di distruggere Israele e di elevare a Stato islamico l’intero territorio della Palestina storica, che gli stanziali, islamizzati dopo Maometto, hanno sempre considerato come entità araba autonoma e per i quali la immigrazione degli ebrei è stata, e resta, la perdurante minaccia alla propria identità.

Nel 1920, firmato a Sèvres il trattato di pace che definì l'accordo tra l’Impero ottomano e le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, il Regno Unito si aggiudicò il mandato per il controllo della Palestina. Nello stesso anno fu fondato il National-sozialistische deutsche Arbeiterpartei (NSDAP), Partito nazista politico tedesco, il quale sosteneva la separazione degli Ebrei dalla popolazione Ariana.

Furono però soprattutto le successive leggi razziali hitleriane, che spinsero ulteriormente gli ebrei, già vessati dal Partito nazista, a cercar rifugio altrove. Terra di elezione, per motivo della loro religione, fu la Palestina dove, per altro, il mandato inglese di governo sembrava potesse garantire, in prospettiva, una vita senza prevaricazioni.

Per la mentalità colonialista dell’epoca, ci fu chi ritenne che gli ebrei, di più elevata cultura, avrebbero contribuito al progresso della Palestina e che quell’area arretrata avrebbe addirittura tratto solo beneficio dalla creazione di uno Stato ebraico.

Ma nella Palestina sorsero immediati, e divennero continui, spesso difficili da contenere, gli scontri dei coloni locali con gli ebrei venuti da fuori, visti come usurpatori di quel poco che c’era, appena bastevole al misero sostentamento di chi già ci abitava in quella povera terra.

Nel 1947 l’Inghilterra, preso atto della propria incapacità di mantenere l’ordine in Palestina, rimette il mandato di governo alle Nazioni Unite che in modo sollecito, a fine novembre, e con ampia maggioranza dell’Assemblea, deliberano la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo.

Il progetto, rifiutato con decisione dagli arabi di Palestina e dei paesi confinanti, viene invece accettato dagli ebri. Il 14 maggio del 1948, quindi, Ben Gurion proclama la fondazione dello Stato di Israele. Questo provoca l'immediato intervento armato dei paesi arabi - Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano - e da allora la guerra è uno stato permanente in quella regione anche perché, per gli ebrei, la terra dei padri non è solo quel lembo, loro assegnato, come alcuni ritennero, per ripagarli dell’olocausto. La terra elevata da Ben Gurion a Stato di Israele, per loro, è solo una parte della terra promessa, la cui completa rivendicazione non è mai cessata.

Continua infatti questa pretesa ad alimentare il conflitto israelo-palestinese, che la diplomazia internazionale mira a risolvere dando attuazione all’antico progetto caro all’ONU, che prevede due popoli, due stati: Israele, da una parte, più o meno coi suoi attuali confini; Palestina dall’altra, con Cisgiordania e Striscia di Gaza.

Questo, secondo alcuni, porta ancora a ergere muri fra i due popoli, ritenendo che, così separati, non verrebbero più alle mani. Per i puri di cuore, invece, ci sarà pace solo quando più nessun muro d’odio sarà d’ostacolo a una loro stretta di mano sulla linea che non pone confine ai comuni intenti di un reciproco bene. Per tutti gli altri, però, quella stretta di mano è un sogno e l’uomo è troppo avido per volersi bene, mi scrive un amico, che ringrazio per l’attenzione dedicata a questo giornale. Lo stesso amico mi dice pure: se smettiamo di sognare, smettiamo di vivere.

Sollecitato, a questo punto, dal sano egoismo coltivato in ognuno, visto che i sogni svaniscono all’alba, mi chiedo: saremmo troppo avidi se volessimo un’alba che non finisse mai?

Si vales, vàleo

 

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Articolo pubblicato il 21/10/2023