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La crepa e la luce
La vedova del commissario Luigi Calabresi racconta in questo libro la sua vicenda umana e spirituale a partire dal giorno dell’assassinio di suo marito.
Articolo di Patrizia Lotti
Pubblicato in data 13/08/2022

A cinquant’anni dall’omicidio del commissario Luigi Calabresi la moglie Gemma racconta la lunga strada che ha percorso da quel terribile 17 maggio 1972 fino ad oggi; una strada difficile, dolorosa, piena di amarezze e  di delusioni, ma in cui non si è mai sentita davvero sola. E questo ha reso la sua esperienza di famigliare di una vittima del terrorismo un po’ meno terribile di quella di molti altri; sì, perché i famigliari delle vittime del terrorismo sono tanti e per lo più dimenticati.

Se ne è reso conto Mario Calabresi, il primogenito del commissario ucciso; dopo un’adolescenza passata a leggere i giornali di quegli anni (comprese le copie di Lotta Continua che, dopo il linciaggio morale di suo padre, ne legittimarono l’assassinio), a visionare documentari e film sugli anni di piombo, ha deciso di dedicare proprio a loro, ai figli,  alle mogli, ai fratelli e alle sorelle degli uccisi,  il suo un libro  Spingendo la notte più in là: storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo. L’ho letto, dopo aver finito quello di sua madre; è stato toccante sentire raccontare gli stessi fatti da due punti di vista diversi, un po’ come poterli comprendere fino in fondo nella loro complessità, nella loro più intima essenza.

Anche perché l’omicidio del commissario Calabresi per me non è stato solo un fatto di cronaca, ma qualcosa che mi ha toccato più da vicino: nel 1972 abitavo ancora a Milano, vicino a quella via Cherubini dove abitava anche la famiglia Calabresi e dove avvenne l’omicidio, ero uscita solo da un anno dal liceo Manzoni, dove, da laica qual ero e sono, avevo sentito tanti ragazzi, ligi cattolici praticanti, usare le stesse espressioni che ho ritrovato nel libro di Gemma Calabresi. “Domenica pomeriggio andiamo in bassa” li sentivo dire: non mi ero mai chiesta dove andassero quei ragazzi, e ho scoperto che per “bassa” intendevano le zone periferiche più degradate della Milano di allora, dove aiutavano i bambini a fare i compiti o portavano grosse confezioni di pasta, riso o zucchero alle famiglie  in difficoltà.

Così come la descrizione della casa dei  Capra, la famiglia d’origine di Gemma, in Sant’Ambrogio e arredata da un Caccia Dominioni, mi ha riportato ad una realtà che conoscevo bene. Allo stesso modo  ricordo bene l’atmosfera di linciaggio morale che si creò attorno al giovane commissario dopo la morte di Giuseppe Pinelli, l’espressione diffusa “Pinelli è stato suicidato” o ancora la piece di Dario Fo “Morte accidentale di un anarchico”.

Questa vicinanza, questa intimità con i luoghi e i tempi dell’omicidio hanno reso la lettura del libro un tuffo nel passato degli anni di piombo, il ricordo di un periodo cupo, ma oggi, come sempre accade, mitigato dal passare del tempo e dalla mediazione della memoria. Gemma Calabresi racconta la sua storia dando per scontata, senza se  e senza ma, l’estraneità di suo marito ai fatti che condussero alla morte di Giuseppe Pinelli, per altro confermata con sentenza definitiva dopo anni di processi che segnarono dolorosamente lei e i suoi figli.

E anche lo Stato, di cui il commissario era un fedele  funzionario (“un servo dello stato”, come definivano allora i brigatisti rossi e neri poliziotti e carabinieri) ha onorato il suo ricordo con la medaglia d’oro al valor civile alla memoria  appuntata sul  petto della vedova il 14 maggio 2004 dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e con il cippo con una targa posto  in via Cherubini che ricorda il suo sacrificio, trentacinque anni dopo la sua morte, nel 2007.

Chi ha vissuto quegli anni non può dimenticare la campagna di odio e di istigazione al suo omicidio compiuta da tanta parte di quella che oggi si chiamerebbe la “intellighenzia” di giornalisti, intellettuali, maîtres à penser e via dicendo. Ritornare a quell’epoca, a quella distruttiva manipolazione delle coscienze, alla violenza di tanti pseudo-pensieri che confondevano la rivoluzione con la follia omicida e mascheravano la loro inconsistenza dietro un sipario  verbale di cupo ciarpame retorico, credo possa essere oggi uno spunto per una seria riflessione su quanto anche ai nostri giorni sta capitando alle nostre coscienze e alla nostra società.

Nel racconto della sua tragedia di giovane donna di ventiquattro anni rimasta vedova con due bambini e un terzo in arrivo, Gemma Calabresi insiste molto sul fatto di non essersi mai sentita davvero sola.

Quel giorno infatti, il 17 maggio del 1972, per lei non è solo quello  della morte di suo marito, ma anche quello di un incontro che le ha dato la forza di non soccombere  alla disperazione e all’angoscia, che le ha permesso di passare dalla sopravvivenza ad una vita ancora degna di essere vissuta. Un incontro avvenuto su un divano in casa dei suoi, dopo che il sacerdote che l’aveva sposata le aveva dato la conferma di ciò che orma già sapeva e che non voleva accettare: la morte di Luigi. Racconta l’autrice: “Don Sandro si sedette accanto a me, mi prese le mani in silenzio. Non c'era niente da dire.

Non so dopo quanto accadde, ma a un certo punto sentii una sensazione fisica di immensa pace. La gente suonava alla porta, entrava, piangeva, ma io non ero più lì. Era come se qualcuno mi avesse presa in braccio, e io, abbandonata in quell'abbraccio, capii, seppi, senza ombra di dubbio, che ce l'avrei fatta, che la mia vita sarebbe stata sicuramente diversa, ma io i bambini saremmo andati avanti, perché non ero sola. Mi tremano le dita mentre lo scrivo, ma sono certa che su quel divano, nel momento più basso della mia vita, nella solitudine e nella disperazione, ho incontrato Dio.”

Questo incontro è una tappa fondamentale nella sua vita, ciò che le ha permesso di non perdersi nello sconforto, di continuare a vivere con e  per i suoi figli, di sposarsi un’altra volta (con Tonino Milite, il suo secondo marito di cui onora la memoria affiancando il suo cognome a quello di Calabresi), di  avere un quarto bambino, di superare il dolore per la morte di Tonino e di dare un senso alla sua vita dopo un’emorragia cerebrale che l’aveva ridotta in fin di vita.

Ma soprattutto di trovare la pace dentro di sé attraverso il perdono degli assassini di suo marito, una meta a cui è arrivata dopo tanto tempo e attraverso un percorso difficile, ma in cui ha sempre continuato a sentire quella presenza che l’aveva così confortata, sul divano di casa dei suoi,  fin dal terribile giorno dell’omicidio.

 

 

 

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