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L’uomo, i misteri e l’ignoto
Né mio né tuo, semmai di tutti o di nessuno.
Neanche il più potente degli esseri umani possiede realmente qualcosa, a cominciare dalla propria vita.
Articolo di Pietro Cartella
Pubblicato in data 19/02/2023

Quanto segue si riferisce all’incontro n° 68 del 28.12.2021 che è stato suddiviso in 7 articoli. Questo è il n°5.

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Quante affermazioni facciamo senza cognizione di causa! Questa è la mia vita, questo è il mio paese, questo è il mio pensiero, questo è il mio lavoro, questa è la mia famiglia. Ma, in sintesi, non sapendo neppure chi siamo, come facciamo a stabilire questi ritenuti dati di fatto inoppugnabili? Tutto quanto crediamo tale, in effetti, è solo conseguenza inevitabile di una errata valutazione dei valori e delle relazioni che ci dominano e guidano senza che ce ne rendiamo conto, producendo un graduale ed innarrestabile degrado delle caratteristiche percettive della coscienza.

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Una delle prime prove di questo degrado, che si compie in modo incosciente, lo evidenziamo noi stessi quando esclamiamo: questo è mio figlio! Non esiste “mio figlio”! E non esisterà mai “ mio figlio”! Semmai sarebbe il contrario. Semmai quella persona dovrebbe dire “ i miei genitori”. Ma mai mio figlio. Capite bene cosa succede facendo determinate affermazioni senza avere coscienza di cosa producono continuamente? Rafforziamo sempre di più i legami che si sono costituiti a nostra insaputa, al di là di quello per cui sono serviti. Questa è una delle tragedie più grandi della nostra pratica quotidiana, della pratica quotidiana dell’essere umano che, come un ragno, continua a tessere una tela entro la quale finirà per restare intrappolato anche lui stesso. I genitori e il nuovo nato hanno la stessa valenza e così anche le loro relazioni con tutti gli altri esseri umani. Non ci sono né ci dovrebbero essere differenze, perché tutti gli esseri umani sono a loro volta genitori o figli di qualcuno. Quindi in nessun altro essere umano ci sono differenze rispetto a loro, né nelle interrelazioni tra chiunque di loro, se non per il tempo richiesto da una funzione specifica, limitata nel tempo. Il mio dito della mano destra, quello della sinistra e quello del piede, non hanno dignità differente poiché appartengono tutti allo stesso corpo. Quindi se non si comprendono le relazioni tra la vita e la morte, tra ciò che vediamo e quello che non vediamo, tutte le nostre azioni diventano una complicazione in più, anziché una partecipazione alla risoluzione delle cose. Oltretutto le cose hanno già la loro risoluzione in sé stesse. Basta rendersene conto e rispettarne le caratteristiche e regole senza ostacolarne lo svolgimento. Se vediamo invece cosa succede alla nascita di un embrione, poi feto, quando diventa essere umano e ne abbiamo visti i primi traumatici eventi ai quali è sottoposto, vediamo come essi si strutturano in una scuola di deficienza. Che cosa significa? Anziché cercare di comprendere cosa comporta tutto quanto gli accade nelle sue relazioni con tutti coloro che ci sono intorno a lui e viceversa, si riversano su questo povero disgraziato tutta una serie di attenzioni che noi riteniamo corrette. Quindi interpretandone i bisogni, andando a studiare come alimentarlo, seguendo consigli, letteratura, oppure attenendosi alle indicazioni degli specialisti, della scienza, della medicina, si cerca di rispondere nella maniera più idonea alle presunte reali necessità del nuovo nato. Come se in tutto il tempo precedente tutti i nuovi nati e tutti i genitori da cui sono nati non avessero mai saputo cosa fosse necessario fare. Certamente oggi muoiono percentualmente meno neonati di qualche tempo fa (ma ne nascono molti di meno per coppia), al tempo dell’uomo delle caverne. Forse allora ne nascevano molti per vivere anche solo qualche istante, per accelerare l’avvicendarsi delle generazioni ed adeguarsi alle necessità vitali più rapidamente come avviene per gli insetti, che quando sono attaccati da pesticidi tendono a fare lo stesso. Un modo per adeguarsi più velocemente alle regole funzionali per cui sono stati progettati. Quindi nei primi istanti di vita e fino a quando il nuovo nato comincerà ad avere una minima parvenza e possibilità di interazione con i suoi genitori ed il mondo circostante, il contesto nel quale vive, tutto quello che accade concorre il più delle volte a creargli ostacoli lungo il suo cammino verso la realizzazione del suo piano di vita, anziché rimuoverli. È chiaro che non si possa fare diversamente in questo momento, poiché è conseguenza di ciò che siamo diventati. Conseguenza di ciò che abbiamo fatto tutti insieme fino ad oggi.

 

Quindi poi durante l’adolescenza c’è la ribellione.

 

Certamente! È inevitabile che durante l’adolescenza scoppino tutte le ribellioni possibili nei confronti di qualunque cosa, comprensive di tutta la rabbia provocata dalle continue vessazioni su tutti i piani e verso tutti i corpi. Una voglia di rivalsa e di giustizia che vuole far pagare il conto a chi è stato artefice dell’impedimento continuo al dispiegamento del proprio piano di vita. Specialmente quando messo in conto ed attuato “per il loro bene” senza rendersi conto di averli costretti a seguire un orientamento che non era il loro, ma di coloro che glielo hanno imposto (anche con la migliore delle intenzioni). Un ritornello cantato e ripetuto da chi non sa quello che dice e condiviso dalla stragrande maggioranza degli umani, specialisti compresi.

 

Hai appena usato l’espressione “piano di vita”. Mi chiarisci un attimo cosa è il piano di vita rispetto a karma e al destino? Coincide con l’uno o l’altro?

 

Piano di vita è il quadro generale in cui le cose e i fatti si svolgono e coinvolge indistintamente tutti e particolarmente quelli che seguono, avendola ereditata, quella linea di sangue famigliare. Il destino è proprio a quella entità, ovvero la sua meta, l’obiettivo che deve conseguire durante la sua esistenza, all’interno del piano di vita, di cui poi cederà il testimone ad una altra entità che farà un altro tratto, completerà un altro settore del quadro generale come in precedenza ha fatto lei. Ognuno avrà il prorio karma relativo al proprio destino (destinazione), ovvero una modalità propria secondo la quale il loro lavoro si svolgerà per giungere alla meta di quella vita, al proprio destino. Da un certo punto di vista è di una semplicità disarmante, nella pratica è veramente un macello cosmico, perché lì dentro confluiscono un numero infinito di variabili provenienti da tutto ciò che esiste in ogni sua sfumatura. Dall’universo intero, dall’origine, da quello che c’era quando ancora noi non possiamo pensare che esistesse qualcosa. Una sola cosa ci risulta chiara: tentare di agire in maniera puntuale su una qualsiasi delle parti costituenti di questa enorme complessità è perlomeno velleitario, per non dire da incoscienti, supponenti. Vuol dire andare a mettere il dito in mezzo ad un numero infinito di relazioni di cui nessuno sa veramente qualcosa. Sperando di fare qualcosa di significativamente ed assolutamente buono. E peraltro non si può evitare di fare qualcosa. Ad esempio gli israeliani per un lungo periodo di tempo, ed in alcuni casi ancora adesso, usano portare i propri figli nei kibbutz durante il giorno per poi farli rientrare in famiglia alla sera (quando non si concordi un periodo di permanenza più lungo). Lo scopo è quello di non farli vivere sempre e solo in famiglia o nella scuola, ma nel contesto di una comunità che non limita a quelle sole due istituzioni l’esperienza educativa e formativa. E per evitare i personalismi o altri aspetti riduttivi delle consuetudini e tradizioni che finiscono per impedire il libero sviluppo del singolo e della collettività. Naturalmente nessun sistema sociale è perfetto. Quello citato è un residuo culturale che tende come tutti a degenerare quando diventa modello rigido e non modificabile. Tuttavia è indice di un sapere legato alla necessità di mantenere attive certe funzioni di trasmissione delle informazioni di base, indipendentemente dagli aspetti negativi che esse possono comportare. In alcuni ambiti ultraortodossi tali pratiche sono esasperate, ma se osserviamo come agiamo e cosa comportano le conseguenze di tali nostre azioni, finiamo per scoprire che anche noi cerchiamo di fare le stesse cose mandando i nostri figli alla scuola materna e negli asili, anche se non ce ne rendiamo facilmente conto e giustifichiamo il tutto con le necessità imposteci dalle circostanze in cui viviamo e lavoriamo. Anche noi cerchiamo inconsciamente di spostare il centro dell’attenzione, dell’informazione, dell’educazione e della formazione relazionale, da una condizione limitatamente famigliocentrica a una più ampia condizione di scambi all’interno di una comunità più larga. Ma spesso e volentieri usiamo, in alternativa, affidare i piccoli ai nonni. Diciamo che i nonni sono una risorsa, disinteressandoci nel contempo di cosa questo comporti a medio e lungo termine nelle relazioni sui piani sottili tra tutti i componenti coinvolti in tali relazioni (oggi infatti qualcuno comincia a porsi domande in merito all’opportunità di tali deleghe). Tra figli, genitori e nonni, i riferimenti funzionali non saranno più chiari e riconoscibili, generando confusione di ruoli, quando non conflitto. Quella entità, quel figlio non saprà più riconoscere chiaramente chi sono i genitori e/o i nonni e così perderà sempre più velocemente la sua bussola sicura prima di riacquisirne la propria (che nel frattempo non si era del tutto persa, ma era stata sovrastata da tali modelli di riferimento, temporaneamente sostitutivi). Cose che chiunque di noi può aver direttamente sperimentato o subìto ed alle quali sono state date spiegazioni e giustificazioni più o meno corrette e soddisfacenti.

 

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prosegue nei prossimi articoli …

 

foto e testo

pietro cartella

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