L’onda social sta investendo il mondo, le vite, le esistenze, esaltandone alcune e stroncandone altre, o sotto il profilo professionale come quella di Chiara Ferragni o, in senso letterale, come quella della povera pizzaiola di Sant’Angelo Lodigiano.
C’è veramente da chiedersi se questo strumento di comunicazione rappresenti un salto quantitativo e qualitativo nella condizione umana, un passo ulteriore verso quella noosfera di cui parlava Teilhard, cioè verso una coscienza collettiva che scaturisce dall’interazione fra le menti degli uomini, quasi un super-individuo che rappresenta la somma, o più che la somma, degli esseri umani.
Come tutti i fenomeni nuovi, anche questo porta in sé elementi altamente contraddittori in bilico fra potenzialità positive e tendenze fortemente involutive, le quali ultime sembrano però oggi prevalere.
Nessun dubbio che i social siano grandiosi strumenti di condivisione, partecipazione, coinvolgimento, aggregazione, tant’è che ogni operatore della comunicazione ne ha fatto una sua peculiare e spesso assai redditizia professionalità di influencer; ma appare subito evidente che questa professionalità, come quella dei pubblicitari nel commercio o degli spin doctors in politica, è anche un ambiguo strumento di manipolazione reso potente dall’incredibile forza dei mezzi tecnologici oggi a disposizione di chi vuole convincere qualcuno di qualcosa.
A partire da Edward Bernays e Ivy Lee (quest’ultimo detto Poison Ivy per la sua capacità di “avvelenare” l’informazione) nella prima metà del secolo scorso le tecniche della comunicazione di massa si sono sempre più affinate sino a raggiungere l’odierna dimensione critica in cui la propaganda ha assunto dimensioni planetarie e una potenza invasiva senza precedenti. Una vera scienza della costrizione psicologica, una vera tecnologia della manipolazione umana.
Ma, al di là di questo utilizzo altamente professionale e strumentale, i social -assieme agli altri mezzi di comunicazione- hanno anche introdotto un potente elemento di degrado sia nei comportamenti individuali sia nella struttura stessa della società.
I due recenti casi citati all’inizio del nostro ragionamento lo confermano. Da un lato i social sono diventati irresistibili elementi di omologazione verso il basso molto ben sfruttati dai professionisti della rete, dall’altro sono diventati un mondo sotterraneo popolato da un’umanità sotto-acculturata, senza freni inibitori e dalla scarsissima igiene mentale, un mondo dove molti hanno trovato il palcoscenico su cui esibire le loro visioni del mondo, i loro pregiudizi, le loro esaltazioni, le loro ingenuità, i loro disturbi gastrici e spesso, purtroppo, anche la loro innata violenza interiore e la loro tendenza alla distruttività.
Protagonista assoluto e indiscusso dei social è il narcisismo in tutte le sue coloriture, un narcisismo che spazia dalle innocue considerazioni sulla vita privata propria e altrui alle più articolate visioni del mondo, dalla gentilezza colloquiale all’insulto animalesco, dalla faticosa costruzione di poche frasi insignificanti agli interminabili vaniloqui sull’esistenza e sulla realtà, dall’ironia sulle cose quotidiane all’esaltazione prometeica sulla politica, l’economia, la scienza, la filosofia, su Dio e sul cosmo.
Ognuno proietta in rete il suo io, piccolo, medio, gigantesco, consegnato, come un biglietto nella bottiglia, al mare immenso di internet nella speranza che qualcuno lo raccolga e lo prenda in considerazione. Cosa che, se non avviene, può far crollare il comunicatore nella depressione o quantomeno in una grigia consapevolezza della propria inesistenza.
Ma fin qui siamo nell’umana debolezza, una debolezza comprensibile e in alcuni casi perfino simpatica, soprattutto se quell’io narcisista è comunque dotato di arguzia e perspicacia.
Ma i social, oltre ad avere in alcuni casi quel potenziale distruttivo della persona che abbiamo evidenziato all’inizio, rappresentano comunque un elemento di involuzione culturale sotto più profili.
Intanto sono un pessimo sostituto della lettura dove fattori come attenzione, concentrazione, memorizzazione, analisi logica e concettuale vengono completamente abbattuti.
Gli studi di un grande psicologo come Daniel Goleman hanno ampiamente dimostrato questa stortura che si estende all’intero mondo digitale e di internet, così come l’analisi sociologica di Neil Postman ha evidenziato l’abisso culturale e filosofico che separa la civiltà della carta stampata da quella visiva della comunicazione contemporanea. Entrambi, come molti altri analisti della civiltà dell’immagine, concordano sulla negatività intrinseca dell’universo digitale sotto il profilo della crescita psicologica e culturale, individuale e collettiva.
Il mondo social è un mondo degradato sotto il profilo del rigore intellettuale e sotto quello della profondità analitica. Vivere di social vuol dire semplicemente allontanarsi da quella tradizione di raffinatezza e consapevolezza culturale che per secoli ha caratterizzato il dibattito pubblico in occidente.
Il mondo social è un mondo fintamente democratico dove la brevità dell’argomentazione, la banalità concettuale, la prevalenza della soggettività umorale e la perenne contrapposizione polemica (adversarial dicono gli anglofoni) non ha aggiungono nulla a quell’esercizio pubblico della ragione che, da Kant a Rawls, ha costituito il fondamento della civile convivenza nel suo aspetto più evoluto.
Si tratta di una democrazia posticcia basata sul presupposto quantitativo che molte opinioni facciano la verità, mentre è vero piuttosto -e sin dalla classicità lo si sapeva- che la verità è un fenomeno sostanzialmente aristocratico, nel senso più alto del termine, creato da opinioni superiori alla media elaborate da individui superiori alla media degli esseri umani.
Ovviamente tutti hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni, per quanto di bassa qualità -questo è il presupposto dei social- ma non tutti hanno il dovere di prenderle in considerazione, soprattutto se quelle opinioni non possono costituire il presupposto di una cultura accettabilmente elevata e neppure di un dibattito politico in grado di cambiare positivamente il mondo.
In altri termini, i social sono un aspetto reale e realistico della società ma non un modello rispettabile di quella società. Soprattutto non possono costituire il luogo di un dibattito collettivo in grado di elevare la qualità umana del nostro mondo.
E qui torna il richiamo di molti grandi intellettuali a un maggior rigore nel pensiero e nel discorso di chi ha responsabilità culturale e politica.
Non si tratta tanto di rifugiarsi nella grande tradizione occidentale che ha dato un numero strabiliante di sapienti e di opere di altissimo livello, e neppure di chiudersi in una Città del Sole governata dai filosofi o in una mitica Agharti sapienziale ai confini del mondo, ma solo -e molto più umilmente- di contrastare un ambiente dove la ragione decade nella sofistica, l’appello nell’insulto, la parola nell’invettiva, l’argomentazione nello slogan, il colloquio nella rissa.
E se proprio non è possibile tutto questo, si può sempre, molto semplicemente e molto efficacemente, ignorare quel mondo di insania mentale, non frequentarlo e far finta stoicamente che non esista.
Soluzione molto dignitosa, molto saggia e anche psicologicamente salutare, se si considera il notevole risparmio di tempo e di energie che consegue all’ignorare la stupidità aggressiva di gran parte dell’umanità social.
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