Il 2016 del recupero

Auspici e riflessioni sull’anno che sta per concludersi, pensando a cosa abbiamo perso

Se dagli scaffali di Eataly di Via Lagrange, a sentire il responsabile vendite, ogni giorno sono stati presi d’assalto un centinaio di panettoni e durante i giorni precedenti il Natale non si riusciva a entrare nell’Apple Store di Via Roma, dovremmo anche riflettere su cosa abbiamo perso e dobbiamo (ri)acquistare in questo 2016.

Nell’anno che sta per finire, abbiamo dovuto, una volta di più, fare i conti con ciò che normalmente sotto Natale eravamo abituati a considerare scontato.

La prima perdita, quella più importante, è la sicurezza del mondo ovattato, ricco, sicuro, libero che l’Occidente, ripartendo dalle macerie, e non solo quelle della distruzione, che ci eravamo lasciati a metà del secolo scorso, pensava di aver creato.
La distruzione di valori di uguaglianza e libertà che, dalla loro esaltazione con la Rivoluzione francese, dopo secoli di lotte, venivano nuovamente a dissolversi con il secondo conflitto mondiale, rappresentavano ciò che pensavamo non avremmo mai più perduto.

Il fondamentalismo islamico minaccia la nostra serenità, i luoghi in cui viviamo, trascorriamo il nostro tempo puntando alla qualità della vita, passando qualche ora in un pub, a teatro, al cinema, a una mostra, passeggiando per il centro.
Quel senso di sicurezza e di libertà ce l’eravamo costruiti negli ultimi cinquant’anni e, grazie anche agli accordi internazionali, all’ONU, alla NATO, e di recente all’Unione Europea, pensavamo che non li avremmo più perduti.

In realtà, quella che alcuni hanno persino osato chiamare terza guerra mondiale, è una guerra che non si conduce vis a vis come tutte quelle susseguitesi nella storia dell’umanità: è una guerra subdola, fondata sul terrore, che fa perno sulla non paura di morire facendosi esplodere tra la gente da parte di chi si immola per una causa politico-religiosa che mai noi occidentali abbiamo conosciuto, neanche nei periodi delle crociate cristiane e tanto meno oggi con la secolarizzazione e la laicizzazione in atto.

Il tentativo di riacquistare tutto ciò, per alcuni dovrebbe passare attraverso l’innalzamento di barriere europee, riportando le frontiere, per altri, invece, dovrebbe seguire la strada dell’immigrazione che, tuttavia, in alcuni casi sfiora il ridicolo, come è accaduto in quella scuola del milanese in cui il Preside preferisce non far celebrare il Natale per non offendere le altre religioni: la logica del tutti uguali togliendo tutto è cosa ben diversa dal tutti uguali estendendo a tutti, perché rispettare gli altri significa dare loro ciò che si aspettano, e non continuando a privarli ma togliendo anche a noi ciò che ci appartiene.

In fondo, molti di noi si sentono in dovere di mantenere le tradizioni, di ostentare la propria appartenenza cristiana, dimenticando poi che il pilastro più importante su cui costruire una Europa Unita dei popoli non può certo essere quello della moneta unica; ma la nostra società materialista e capitalistica ha prodotto un mondo a tratti diverso, autocompiacente, un Occidente ormai auroreferenziale che ora a fatica riesce ad arginare una parte dell’odio che da una parte dei fondamentalisti ci piomba addosso rendendoci increduli e indifesi.

La seconda perdita del Natale, certamente molto meno importante ma significativa, è la mancanza di neve. Il cambiamento climatico in atto da diversi anni, con l’innalzamento delle temperature, sta portando giornate calde anche in città come Torino notoriamente fredde e innevate durante i mesi invernali.

Le pubblicità natalizie con i pupazzi di neve o le cartoline di auguri con paesaggi innevati sono ormai un deja vu, l’idea di un passato che però vorremmo tornasse, con la conseguenza, tra l’altro, che in alta quota albergatori e commercianti si lamentano temendo una stagione disastrosa.

Anche durante gli altri mesi dell’anno sappiamo quanto l’Italia si mostri sempre più vulnerabile agli acquazzoni che fanno straripare fiumi e torrenti con effetti collaterali disastrosi sugli abitanti.

Anche quell’aspettativa del futuro legata al lavoro, alla previdenza, sembra venire meno anno dopo anno dopo il lustro di crisi appena concluso (ma sarà poi veramente finito?) e i giovani di oggi si sentono sempre più precari, insoddisfatti e lavoratori a vita.

Lavoro, clima e pace sono, dunque, ciò che davamo per scontato, ciò che ormai i nostri padri e i nostri nonni avevano conquistato e ci avrebbero lasciato per i decenni a venire.

Ogni Natale che passa, però, siamo sempre meno sicuri di tutto ciò che abbiamo o pensiamo di avere, e, allo stato attuale, la paura che il futuro sia sempre peggiore non fa che trascinarci in un circolo vizioso in cui ci autosuggestioniamo che la cose andranno sempre peggio.

Per il clima, almeno, possiamo fare leva su quanto diceva il filosofo Karl Popper, ossia che non possiamo prevedere il futuro perché non conosciamo la tecnologia del futuro, e in tal senso, quindi, chissà che l’era del carbone e del petrolio non vengano sostituite presto da tecnologie nuove ed ecologiche.

La stessa cosa può dirsi per l’integrazione e per il lavoro, con una grossa differenza: lì non servono le scoperte tecnologiche, ma l’intelligenza umana per creare buone condizioni e pari opportunità per tutti.

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Articolo pubblicato il 28/12/2015